Scheda  
13 Settembre 2023


Sindacato del giudice d’appello ex art. 578 comma 1 c.p.p., tra precedente costituzionale e precedente di legittimità. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite


Francesco Maria Damosso

Cass. sez. IV, ord. 8 giugno 2023 (dep. 12 luglio 2023), n. 30386, Pres. Dovere, rel. Pezzella


1. Con l’ordinanza in commento, la quarta sezione della Cassazione ha dovuto rimettere il ricorso alle Sezioni Unite ex art. 618 comma 1-bis c.p.p.

Come noto, replicando quanto già previsto nel processo civile, amministrativo e contabile, la l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando) ha introdotto un meccanismo di rimessione obbligatoria che impedisce alla sezione semplice di decidere difformemente da un principio di diritto enunciato dal massimo collegio[1]. Piuttosto, se in disaccordo, la prima deve investire il secondo della decisione. I precedenti delle Sezioni Unite in questi termini sono dunque vincolanti. Si tratta di un vincolo negativo e inderogabile: negativo poiché la sezione semplice è tenuta a non decidere in senso difforme; non già, invece, a decidere in senso conforme. Inderogabile poiché la regola non contempla eccezioni.

Nell’equilibrio dell’istituto, l’ordinanza di rimessione detiene una funzione di importanza cardinale, costituendo lo strumento a mezzo del quale la sezione semplice può articolare le ragioni del dissenso, e dunque offrire il proprio contributo argomentativo finalizzato a provocare l’overruling delle Sezioni Unite. Queste ultime, dal canto loro, per confermare o mutare il proprio orientamento sono difatti chiamate a confrontarsi con i rilievi del giudice rimettente.

Evidente la ratio della disciplina: aumentare i livelli di effettività della nomofilachia della composizione più autorevole della Cassazione e dunque i livelli di certezza del diritto in termini di prevedibilità delle decisioni, prevenendo i contrasti interni.    

 

2. Nel caso che ci occupa, la quarta sezione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite dissentendo in relazione all’oramai noto precedente Tettamanti[2].

In quella occasione si era affermato che quando il giudice d’appello deve decidere sulla sola questione civile ex art. 578 comma 1 c.p.p., e dunque valutare a tal fine le prove, il proscioglimento nel merito – anche dovuto a insufficienza o contraddittorietà del compendio probatorio – prevale sulla declaratoria di estinzione del reato pur non sussistendo le condizioni di cui all’art. 129 comma 2 c.p.p.

Si tratta dell’ipotesi in cui nei confronti dell’imputato sia stata pronunciata condanna anche generica al risarcimento del danno da reato o alle restituzioni, insieme va da sé alla condanna penale di primo grado (artt. 185 c.p.p. e 538 c.p.p.)[3]. E successivamente, però, maturi la prescrizione o si verifichi l’amnistia. In simili evenienze, come prevede la disciplina codicistica, il giudice deve decidere sull’impugnazione solo agli effetti civili. A tale riguardo la sentenza Tettamanti aveva appunto chiarito che decidere sull’impugnazione solo agli effetti civili non equivale a ritenere senz’altro definita la questione penale: se cioè all’esito della compiuta valutazione delle prove si desume l’innocenza dell’imputato, a quel punto costui va assolto nel merito; e non invece prosciolto mediante sentenza di non doversi procedere, come a tutta prima suggerirebbe l’art. 129 comma 1 c.p.p.

Giungendo ora alla vicenda da cui l’ordinanza in commento è originata, il primo grado si era concluso con una sentenza di condanna, oltreché agli effetti penali, anche al risarcimento del danno da reato. Il giudice d’appello, dal canto suo, si era espresso conformemente al principio di diritto Tettamanti: integrata la fattispecie di cui all’art. 578 comma 1 c.p.p., dovendo decidere sulla questione civile ha anche deciso nel merito di quella penale, assolvendo perché il fatto non sussiste in luogo del proscioglimento con sentenza di non doversi procedere. Nel farlo, il giudice d’appello aveva necessariamente dovuto applicare tutte le regole proprie del processo penale, e in particolare lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio espressamente compendiato nell’art. 533 comma 1 c.p.p.

Avverso la sentenza di secondo grado è stato successivamente esperito ricorso per cassazione, a mezzo del quale le parti civili hanno evidenziato che l’elemento critico di una tale soluzione esegetica si dovrebbe rinvenire nella incompatibilità tra il precedente Tettamanti e il sopravvenuto precedente della Corte costituzionale n. 182/2021, col quale si è vagliata la legittimità dell’art. 578 comma 1 c.p.p.[4].

La sezione rimettente – una volta affermata la propria competenza nonostante il disposto dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p. di nuovo conio[5] – ha dal canto suo condiviso la ricostruzione delle parti civili: i precedenti confliggono e deve essere data prevalenza a quello costituzionale. Sennonché, provenendo il precedente di legittimità dalle Sezioni Unite, la sezione semplice non ha potuto decidere in senso difforme da quest’ultimo, ma come si è detto ex art. 618 comma 1-bis c.p.p. ha dovuto rimettere al massimo collegio la decisione[6].

 

3. Vediamo quindi le ragioni secondo cui, ad avviso della sezione rimettente, i due precedenti sono incompatibili.

Del contenuto della sentenza Tettamanti si è detto poco sopra.

Quanto alla sentenza n. 182/2021, è invece da dire che il Giudice delle leggi in quella occasione ha formulato una interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 578 comma 1 c.p.p., considerandolo non confliggente con l’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 6 paragrafo 2 C.e.d.u., nonché in relazione agli artt. 3 e 4 dir. 2016/343/Ue e all’art. 48 C.d.f.u.e.

La questione riguardava la compatibilità della norma codicistica con la presunzione d’innocenza dell’imputato per come intesa dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte di Lussemburgo. Il giudice a quo, in particolare, riteneva che nel decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili ex art. 578 comma 1 c.p.p., qualora la corte d’appello fosse dell’avviso di confermare la condanna al risarcimento o alle restituzioni nei confronti dell’imputato, avrebbe logicamente finito per formulare una implicita dichiarazione di colpevolezza penale nonostante l’intervenuta prescrizione. Se infatti il secondo grado si fosse concluso con la conferma della condanna civilistica, ciò avrebbe significato riconoscere l’esistenza di un danno da reato. E dunque a monte, seppure solo virtualmente a causa dell’estinzione dello stesso, la sussistenza di un fatto criminoso all’imputato ascrivibile. 

Ciò si sarebbe posto in insanabile contrasto con la giurisprudenza convenzionale: guardando a quanto ancora di recente affermato dalla Corte e.d.u., formulare un tale giudizio implicito di colpevolezza a fronte della preclusione a esaminare nel merito la questione penale avrebbe rischiato di alimentare, anche presso la pubblica opinione, l’inaccettabile sospetto della colpevolezza dell’accusato nonostante la mancanza di un formale riconoscimento di penale responsabilità[7]. Circa il versante eurounitario, poi, l’art. 4 dir. 2016/343/Ue sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza[8] impedisce «che fino a quando la colpevolezza di un indagato o un imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza… presentino la persona come colpevole». E comunque, in forza della clausola c.d. di equivalenza ex art. 52 paragrafo 3 C.d.f.u.e., dalla presunzione d’innocenza prevista dall’art. 48 C.d.f.u.e. deve desumersi un livello di tutela almeno pari a quello garantito dal corrispondente diritto convenzionale ex art. 6 paragrafo 2 C.e.d.u., come interpretato dalla Corte e.d.u.[9].

Il Giudice delle leggi, dal canto suo, ha dichiarato non fondata la questione, offrendo una lettura dell’art. 578 comma 1 c.p.p. costituzionalmente compatibile. In particolare, mediante una sentenza di interpretativa di rigetto[10] la Corte ha escluso che nel decidere l’impugnazione ai soli effetti civili il giudice di seconde cure possa giungere a formulare un implicito giudizio di colpevolezza nei confronti dell’imputato. Per sostenere questo, è stato affermato che la corte d’appello non debba né possa in alcun modo accertare incidenter tantum la responsabilità penale di costui.   

Sul piano letterale e sistematico è stata valorizzata l’assenza, nella disposizione sottoposta allo scrutinio della Corte, di un riferimento al «previo accertamento della responsabilità» della persona accusata, contenuto invece nel successivo art. 578-bis c.p.p. Quest’ultimo in effetti testualmente prevede la suddetta valutazione, quando la corte d’appello o la corte di cassazione debbano decidere sull’impugnazione limitatamente alla confisca disposta «in casi particolari» o ai sensi dell’art. 322-ter c.p. Di qui l’appiglio al criterio dell’ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, secondo l’antico brocardo.   

Quanto all’ambito della cognizione del giudice di seconde cure, è stato affermato che costui debba limitarsi ad accertare se il fatto controverso, per come cristallizzato nell’imputazione dal pubblico ministero, integri o meno la fattispecie civilistica descritta all’art. 2043 c.c. Una volta rimasto precluso il sindacato sul tema penale nel merito, perché appunto è maturata una causa estintiva del reato, la corte d’appello dovrebbe cioè totalmente spogliarsi della cognizione sullo stesso. Detto altrimenti, in simili evenienze la vicenda perderebbe qualsivoglia connotazione penalistica: a differenza di quanto per esempio succede nel corso del primo grado di giudizio, l’accertamento della responsabilità civile si dovrebbe qui completamente svincolare dal presupposto della sussistenza del fatto criminoso ascrivibile all’imputato. Conducendo il ragionamento alle necessitate conseguenze, ne dovrebbe discendere un automatico mutamento della domanda di parte civile, la quale non pretenderebbe più la riparazione del danno da reato ex art. 185 c.p., ma solo la riparazione del danno ingiusto ex art. 2043 c.c.

Ne conseguirebbe ancora – esplicita la Corte costituzionale – che per verificare il nesso causale tra fatto ingiusto e c.d. danno-evento non si potrebbe applicare la regola di giudizio fondata sulla valutazione “oltre ogni ragionevole dubbio”, dovendo piuttosto valere lo standard civilistico del “più probabile che non”. Quest’ultimo, come si sa, rende per il danneggiato più agevole l’accoglimento della propria pretesa.

Inoltre, sempre a parere del Giudice delle leggi, ai fini della responsabilità civile dovrebbe rilevare l’elemento soggettivo dell’illecito civile. Sul punto, nondimeno, la Corte non si è soffermata. Ne dovrebbe comunque derivare che il fatto possa essere addebitato all’imputato-danneggiante a titolo di colpa, anche se per ipotesi l’azione penale sia stata originariamente esercitata contestando un reato previsto esclusivamente nella forma dolosa[11].

Appare infine senz’altro vacillante la linearità del percorso argomentativo della Corte quando, a valle del richiamo al criterio del “più probabile che non”, sempre ai fini della decisione agli effetti civili afferma la piena applicazione delle «regole processuali e probatorie» del codice di rito penale[12]. Si sarebbe dovuto piuttosto considerare come queste ultime siano strutturalmente e concretamente funzionali all’emissione di una decisione appunto penale, emessa proprio in virtù dell’accertata colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio” o meno. Desta qualche perplessità, in altri termini, sostenere lo sradicamento – nella medesima sede – delle regole processuali e probatorie da una regola di giudizio di rilevanza cardinale. Diviene allora di gran lunga preferibile la soluzione introdotta, per i procedimenti futuri, dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 attuativo della c.d. riforma Cartabia: traslazione della domanda civile direttamente presso la sede civile, con la conseguente applicazione della relativa disciplina, quando in sede penale il tema penale non sia più in discussione (artt. 573 comma 1-bis e 578 comma 1-bis c.p.p.)[13]. Lo stesso risultato, nel sistema, veniva già perseguito dall’art. 622 c.p.p.[14].               

 

3.1. Al netto delle ragioni articolate nella pronuncia di cui sopra, bisogna chiarire come lo scenario processuale con cui il Giudice delle leggi è stato chiamato a confrontarsi risulti diverso rispetto a quello che ha originato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da parte della quarta sezione, qui in commento. Nel primo, infatti, si discuteva dell’interpretazione dell’art. 578 comma 1 c.p.p. e del connesso oggetto dell’accertamento della corte d’appello quando quest’ultima si fosse trovata a confermare una condanna risarcitoria o restitutoria. Il secondo scenario, di nostro diretto interesse, è invece rappresentato da una ipotesi di riforma in sede d’appello della condanna di primo grado, mediante pronuncia di assoluzione[15]. Ciò non di meno, la portata del precedente costituzionale n. 182/2021 attiene in via generale all’interpretazione della disposizione codicistica poc’anzi menzionata, e dunque ha imposto alla quarta sezione di valutarne gli effetti anche in relazione a casi diversi da quelli espressamente considerati. Concludendo cioè che ai sensi dell’art. 578 comma 1 c.p.p. il fatto da accertare è solo quello di cui all’art. 2043 c.c., la Corte costituzionale ha offerto una ricostruzione dell’istituto che logicamente e giuridicamente investe pure la fattispecie concreta rilevante nella vicenda in esame.         

 

3.2. Infatti, nel sindacare la legittimità della sentenza di assoluzione emessa dalla corte d’appello a seguito dell’impugnazione ex art. 578 comma 1 c.p.p. come interpretato dalle Sezioni Unite Tettamanti, la quarta sezione ha ritenuto insuperabili le difficoltà nel conciliare quest’ultimo precedente con la sentenza n. 182/2021. La ragione assorbente dell’incompatibilità, come ora ben si può afferrare, dipende da quanto il Giudice delle leggi ha concluso sull’ambito di cognizione della corte d’appello: se cioè assumiamo che per la disposizione codicistica non può in alcun modo rilevare l’accertamento di un fatto-reato fonte di responsabilità civile, ma solo un fatto ingiusto dannoso ex art. 2043 c.c., allora il giudicante in nessun caso ha il potere di considerare la penale rilevanza di quel fatto, neppure quando ciò conduca a una sentenza di assoluzione.

Il presupposto teorico implicito ma imprescindibile della sentenza Tettamanti è in effetti diametralmente opposto a quello del precedente costituzionale: il potere di decidere nel merito la questione penale nonostante l’estinzione del reato, nella impostazione delle Sezioni Unite discende necessariamente dalla presenza di un fatto-reato da verificare, seppure ai soli fini civili.

Né del resto sarebbe ragionevole ipotizzare un’operatività alternata della sentenza Tettamanti e della sentenza della Corte costituzionale, a seconda dell’esito favorevole o sfavorevole per l’imputato che ne potrebbe derivare. Non si può cioè, integrata la fattispecie di cui all’art. 578 comma 1 c.p.p., contemplare o non contemplare la virtuale rilevanza penale di un fatto a seconda che sussistano o meno i presupposti per una assoluzione nel merito, con conseguente applicazione (nel primo caso) dell’oltre ogni ragionevole dubbio o (nel secondo caso) del più probabile che non.

Ad avviso di chi scrive rimane comunque per certi versi distonico affermare l’inapplicabilità del precedente Tettamanti essenzialmente per il dovere di adeguarsi alla giurisprudenza europea sulla tutela della presunzione d’innocenza, nella misura in cui il suddetto precedente è stato stabilito proprio per massimizzare le garanzie dell’imputato, e in particolare per promuovere il favor innocentiae nei suoi confronti. Il fondamento del principio delle Sezioni Unite risiede difatti in ciò, che le esigenze di economia processuale a cui s’ispira la disciplina della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. non hanno più ragione di essere nel momento in cui il giudice di secondo grado si trovi a dovere in ogni caso valutare compiutamente le prove per decidere sulla responsabilità civile della persona accusata. In ipotesi siffatte dovrebbe piuttosto prevalere il trattamento favorevole nei confronti di quest’ultima, dichiarandone appunto l’innocenza ai sensi dell’art. 530 c.p.p.[16].

 

4. Al netto dell’osservazione da ultimo formulata, è stato argomentato nei termini che precedono il disaccordo sul principio della sentenza Tettamanti da parte della quarta sezione della Cassazione. Saranno quindi le Sezioni Unite a dipanare le relative questioni nel tentativo di riportare a coerenza i diversi formanti giurisprudenziali, eventualmente risolvendosi per il superamento del proprio precedente. 

Nel devolvere il ricorso al massimo collegio ex art. 618 comma 1-bis c.p.p., il giudice rimettente ha peraltro articolato due ulteriori rilievi in ordine ai quali pare opportuno soffermarsi.

 

4.1. Il primo attiene alle ragioni del dissenso idonee a giustificare la rimessione. È stato cioè osservato che il disposto del summenzionato comma 1-bis non distingue in alcun modo i possibili motivi giustificanti il rigetto del precedente del massimo collegio. Questi motivi, dunque, ben possono derivare dalla ritenuta incompatibilità tra il precedente suscettibile di applicazione e il contenuto di una sopravvenuta sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale.

Come noto, si dice interpretativa di rigetto la sentenza in forza della quale il Giudice delle leggi dichiara infondata la questione a patto che la disposizione in esame venga interpretata in un certo senso, il quale si presuppone diverso dal senso in cui è stata interpretata dal giudice promotore della questione. Letta nel significato indicato dalla Corte, la disposizione può dirsi costituzionalmente legittima[17]. Tradizionalmente si afferma che da una tale pronuncia discende un vincolo endoprocessuale negativo e circoscritto al giudice a quo[18]: negativo in quanto costui non può decidere interpretando nel modo originariamente prospettato alla Corte, ma può interpretare in un modo diverso da quello dalla Corte prospettato purché conforme a Costituzione; salvo, si deve ritenere, il caso in cui dalla motivazione della interpretativa di rigetto venga esplicitato o possa senz’altro desumersi che la lettura offerta dal Giudice delle leggi sia l’unica conforme a Costituzione possibile. Al ricorrere di tale evenienza, il giudice non può optare per soluzioni esegetiche ulteriori[19]. La tipologia di pronunce in discorso, poi, non è vincolante erga omnes: tutti i giudici diversi da chi ha sollevato la questione di legittimità possono in linea di principio adottare qualunque indirizzo interpretativo ai fini della decisione. Teoricamente, dunque, nel caso che ci occupa la quarta sezione della Cassazione avrebbe potuto decidere diversamente dalla pronuncia n. 182/2021.  

Epperò, tenere in debito conto la giurisprudenza costituzionale nel suo complesso – e dunque anche le interpretative di rigetto, oltreché di accoglimento – risponde a un principio di coerenza ordinamentale e istituzionale evidentemente meritevole di essere preservato e promosso, seppure in via tendenziale. Com’è ovvio, non si tratta solo di assicurare un qualche grado di coerenza normativa in quanto tale, ma di farlo in funzione di garantire un accettabile grado di certezza del diritto per come in concreto vive, mantenendo per quanto possibile prevedibili le decisioni giudiziarie future. Qui in particolare rileva una esigenza di prevedibilità della futura interpretazione costituzionalmente conforme.     

Nello stesso senso si sono espresse anche le Sezioni Unite Alagni, però valorizzando l’argomentum ab auctoritate: avendo il Giudice delle leggi il potere di formulare una interpretazione della disposizione sottoposta al suo scrutinio sicuramente conforme a Costituzione, allora rispetto all’interpretazione costituzionale esso giudice assume un ruolo di vertice. Dal quale consegue, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, che il giudice comune è tendenzialmente tenuto a rispettare quella interpretazione decidendo in senso conforme, con l’obbligo di motivare adeguatamente le ragioni dell’eventuale difformità[20]. Ne consegue ancora che la necessità di adeguarsi al precedente costituzionale, compreso quello costituito da una interpretativa di rigetto, giustifica e legittima senz’altro l’overruling da parte della Cassazione. In quella vicenda, difatti, il massimo collegio aveva deciso il ricorso inaugurando un orientamento diverso rispetto a quello affermato in passato[21].     

La medesima coerenza ordinamentale e istituzionale, tra l’altro, è perseguita dalla Corte costituzionale, nella misura in cui si mantiene nel solco delle proprie passate decisioni, vincolandosi cioè al c.d. autoprecedente seppure non in termini inderogabili. E nella misura in cui, a sua volta, essa si àncora al c.d. diritto vivente, cioè all’eventuale interpretazione della Cassazione sufficientemente consolidata, al fine giudicare la legittimità costituzionale della disposizione sottoposta al suo scrutinio[22]. Se esiste un diritto vivente, difatti, la Corte opta per l’accoglimento o il rigetto del ricorso assumendo quella consolidata come l’unica interpretazione disponibile per la disposizione di dubbia legittimità; evitando dunque di enucleare da quest’ultima diversi significati pur astrattamente possibili e costituzionalmente compatibili[23].

Così, addentro una dinamica di reciprocità nel segno dell’osservanza delle rispettive sfere di competenza, tanto il giudice comune quanto quello costituzionale riconoscono il valore dei relativi formanti giurisprudenziali, al momento di prendere la decisione. La bilancia comunque pende verso il secondo, giacché proprio a mezzo delle pronunce interpretative – di rigetto o di accoglimento – costui detiene l’ultima parola sulle interpretazioni consentite e non consentite.    

Tornando all’obbligo di eventuale motivazione difforme rafforzata (quando appunto il giudice intenda discostarsi dal precedente costituzionale costituito da una interpretativa di rigetto), ai nostri fini va sottolineato che il suddetto obbligo è stabilito in un arresto delle Sezioni Unite, e dunque sempre nei termini dell’art. 618 comma 1-bis c.p.p. costituisce oggi un vincolo per le sezioni semplici. È stato difatti pure chiarito, nuovamente dalle Sezioni Unite, come l’istituto di rimessione obbligatoria si applichi pure in relazione ai principi di diritto enunciati prima della sua entrata in vigore. La lettera della legge e ancor più la ratio di quest’ultima[24] attribuiscono senz’altro rilevanza ai principi in quanto tali, cioè in quanto formalmente provenienti dalla fonte del massimo collegio di legittimità, senza porre ulteriori distinzioni[25].            

Il precedente costituzionale posto dalla interpretativa di rigetto – a questo punto vincolante anche per il tramite delle menzionate Sezioni Unite Alagni – va dunque seguito salvo gravi ragioni di segno contrario, e così ha fatto la quarta sezione della Cassazione con l’ordinanza che ci occupa. Alla luce degli argomenti di cui si è dato conto, la quarta sezione non ha difatti rivenuto possibili cause di discostamento.

 

4.2. Il secondo rilievo formulato nell’ordinanza di rimessione, sempre concernente l’istituto di rimessione obbligatoria, attiene invece alla questione della latitudine del «principio di diritto» richiamato dall’art. 618 comma 1-bis c.p.p.

La quarta sezione ha cioè osservato che la portata applicativa dell’istituto dipende dal come un tale principio di diritto venga inteso.

Al riguardo è stato richiamato un primo orientamento, restrittivo, per cui unica regula iuris vincolante sarebbe quella dettata dal massimo collegio al fine di risolvere il contrasto interpretativo che ha provocato la rimessione del ricorso. Eventuali principi attinenti a «temi accessori o esterni» esulerebbero quindi dall’ambito della disciplina, con la conseguenza che rispetto a questi ultimi le sezioni semplici potrebbero legittimamente decidere in senso difforme[26].

In altra occasione è stato invece precisato che il vincolo si estende alle proposizioni logicamente e giuridicamente pregiudiziali e consequenziali rispetto al principio di diritto enunciato, necessarie per meglio delimitarne significato e confini. Quest’ultimo, così, assume carattere unitario in punto di vincolatività. Ciò vale anche se le proposizioni pregiudiziali o consequenziali attengono a questioni non specificamente devolute con l’ordinanza di rimessione[27].

Nel dare conto degli indirizzi interpretativi in parola, la quarta sezione vi ha intravisto profili di contrasto. Essa ha comunque precisato come nel caso di specie non fosse necessario aderire a una delle due soluzioni esegetiche, in quanto il principio delle Sezioni Unite Tettamanti oggetto del dissenso è senz’altro quello enunciato al fine di risolvere il contrasto interpretativo che aveva a suo tempo provocato la rimessione del ricorso. La questione dell’ambito applicativo dell’art. 618 comma 1-bis c.p.p. è stata dunque affrontata in via incidentale, in quanto non strettamente necessaria ai fini della decisione. Nondimeno, deve essere chiarito che la quarta sezione ha per tale via evidenziato un contrasto giurisprudenziale in realtà non sussistente.

Come tra l’altro si desume dalla parte motiva di uno degli arresti appena citati[28], bisogna difatti concettualmente distinguere le questioni in argomento rilevanti. Una cosa è cioè domandarsi se il vincolo ex art. 618 comma 1-bis c.p.p. riguardi solo il principio afferente al contrasto interpretativo preso direttamente in esame dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite o meno; se cioè il suddetto vincolo riguardi solo il principio enunciato in risposta, per dir così, del quesito che la sezione semplice formula al massimo collegio o meno. In senso positivo si è espressa la giurisprudenza, nella menzionata pronuncia n. 49744/2022, come anche parte della dottrina[29]. Altra parte della dottrina, invece, ha concluso che vincolanti dovrebbero essere ritenuti tutti i principi di diritto comunque espressi dalle Sezioni Unite al fine di decidere il ricorso, nella misura in cui facciano appunto parte della ratio decidendi[30].

Cosa invece diversa è domandarsi se nella nozione di «principio di diritto» vincolante vadano o meno inclusi i rilievi motivazionali che si pongano in rapporto di diretta pregiudizialità o consequenzialità con esso principio. Affermativamente si è pronunciata la Cassazione, nella ricordata decisione n. 23148/2021. Il sostenere l’estensione del vincolo alle proposizioni pregiudiziali o consequenziali del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, insomma, non tocca la diversa questione del se il vincolo debba riguardare solo il principio enunciato per risolvere il contrasto interpretativo che ha provocato l’intervento del massimo collegio. Il riconoscimento di una tale estensione risulta invero necessario per meglio delimitare dall’esterno e specificare dall’interno il nucleo essenziale della decisione, così agevolando l’interprete nell’individuazione di ciò che il massimo collegio ha realmente deciso.    

A riprova dell’autonomia concettuale delle due questioni, una parte della dottrina di fatto abbraccia la tesi restrittiva espressa nella sentenza n. 49744/2022, e al contempo ritiene vincolanti quantomeno pure i principi pregiudiziali a quello enunciato nel risolvere il contrasto interpretativo, come riconosciuto nella sentenza n. 23148/2021[31]. Tra le due pronunce intercorre dunque un rapporto di complementarietà, non già di contrapposizione.

Fermo quanto precede, all’ordinanza che ci occupa va comunque riconosciuto di avere posto l’attenzione su di un tema di significativa rilevanza, soprattutto in ottica di certezza del sistema processuale e con ricadute immediate sul contenuto delle decisioni. In via generale, la legittimità della pronuncia difforme da parte delle sezioni semplici dipende in effetti da come il principio di diritto ex art. 618 comma 1-bis c.p.p. viene inteso. È perciò senz’altro auspicabile, pure a tale riguardo, che le Sezioni Unite colgano l’occasione d’intervenire per dissipare le relative perplessità esegetiche.

 

 

 

[1] Sul menzionato comma 1-bis, di recente conio, v. tra i molti R. Aprati, Le Sezioni Unite fra l’esatta applicazione della legge e l’uniforme interpretazione della legge (commi 66-69 l. n. 103/2017), in A. Marandola-T. Bene (a cura di), La riforma della giustizia penale. Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario (L. 103/2017), Giuffrè, 2017, p. 275 s.; R. Bartoli, Le garanzie della “nuova” legalità, in Sist. pen., 2020, 3, p. 167 s.; A. De Caro, Riflessioni sparse sul nuovo assetto nomofilattico. Le decisioni vincolanti delle Sezioni unite al cospetto del principio del giudice soggetto solo alla legge: un confine violato o una frontiera conquistata?, in Arch. pen. online, 11 maggio 2018; A. Diddi, I nuovi orizzonti della funzione nomofilattica delle sezioni unite della Corte di cassazione, in G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando. I nuovi decreti, Pacini Giuridica, 2018, p. 349 s.; G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto, in Dir. pen. cont., 29 gennaio 2018; Id., Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Quest. giust., 2018, 4, p. 137 s.; M. Gialuz, L’Ufficio del massimario e la logica del precedente, in A. Manna-F. Alonzi (a cura di), L’Ufficio del massimario e la forza dei precedenti, Giuffrè, 2020, p. 56 s.; C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, in Giur. it., 2017, p. 2297 s.; L. Ludovici, Il giudizio di cassazione dopo la c.d. riforma Orlando, in G.M. Baccari-C. Bozano-K. La Regina-E.M. Mancuso (a cura di), Le recenti riforme in materia penale, Cedam, 2017; F. Petrelli, La logica del precedente fra nomofilachia e normalizzazione, in A. Manna-F. Alonzi (a cura di), op. cit., p. 193 s.; G. Spangher, Nomofilachia rinforzata: serve trasparenza, in Dir. pen. e proc., 2018, p. 985 s.

[2] Cass., Sez. Un., 25 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti, in Cass. pen., 2010, p. 4091 s., con nota di S. Beltrani, Estinzione del reato e assoluzione nel giudizio di impugnazione. La giurisprudenza successiva si è ripetutamente pronunciata sulla stessa scia: v. Cass., Sez. VI, 7 gennaio 2010, n. 4855, in C.e.d., n. 246138; Cass., Sez. VI, 20 marzo 2013, n. 16155, in C.e.d., n. 255666; Cass., Sez. IV, 11 aprile 2018, n. 20568, in C.e.d., n.  273259; Cass., Sez. IV, 21 novembre 2018, n. 53354, in C.e.d., n. 274497. Da ultimo, ha pienamente confermato l’impostazione della sentenza Tettamanti escludendone al contempo l’applicazione analogica a fattispecie processuali differenti, Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2020, n. 11626, in C.e.d., n.  278963-01, con nota di F.M. Damosso in Riv. trim. dir. pen. ec., 2020, p. 942 s.

[3] Nella generalità dei casi, difatti, il giudice penale può accogliere le pretese della parte civile in quanto il fatto-reato ascritto all’imputato formalmente sussista. Fa eccezione – ma ai nostri fini non interessa – l’evenienza della condanna ai soli effetti civili emessa dal giudice penale a seguito di impugnazione della parte civile ex art. 576 comma 1 c.p.p.; nonché, a seguito di C. cost. 12 luglio 2022, n. 173, l’evenienza della medesima condanna nonostante il proscioglimento dell’imputato per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

[4] C. cost., 30 luglio 2021, n. 182.

[5] La disposizione in parola stabilisce difatti che «quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d’appello e la corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile». Come si apprende dalla notizia di decisione datata 25 maggio 2023, n. 16076, le Sezioni Unite si sono però espresse nel senso che l’art. 573 comma 1-bis c.p.p. non si applica retroattivamente, ma solo nei procedimenti in cui la costituzione di parte civile sia avvenuta in data successiva al 30 dicembre 2022, cioè all’entrata in vigore della disposizione ex art. 99-bis d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. Sul contrasto giurisprudenziale che ha provocato l’intervento del massimo collegio, v. Cass., Sez. V, 20 gennaio 2023, n. 3990, in Cass. pen., 2023, p. 1177 s.; Cass., Sez. V, 16 gennaio 2023, n. 4902, ivi, p. 1181 s.; Cass., Sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 2854, ivi, p. 1184 s., con osservazioni di M. Pollera. L’ordinanza di rimessione di Cass., Sez. V, 7 febbraio 2023, n. 8149 è consultabile in questa Rivista, 26 maggio 2023. Sulla questione di diritto intertemporale in discorso, v. G. Biondi, La riforma Cartabia e le impugnazioni: le prime questioni di diritto intertemporale sull’applicabilità dell’art. 573, comma 1-bis, c.p.p. ai giudizi in corso, in questa Rivista, 10 febbraio 2023; nonché M. Bontempelli, Verso una trattazione efficiente delle impugnazioni penali per i soli interessi civili, in questa Rivista, 2023, 5, p. 157 s.           

[6] Investire le Sezioni Unite della questione, ad avviso di chi scrive, appare condivisibile. In effetti, il comma 1-bis appena menzionato impone alla singola sezione di confrontarsi col principio di diritto pertinente attribuendo rilievo alla sola provenienza dello stesso; salvo, si deve ritenere, che quest’ultimo non sia più attuale a seguito di sopravvenute modifiche di legge o interventi della Corte costituzionale idonee a renderlo pacificamente inoperante. Anche nella vicenda in esame si fa questione di sopravvenuto intervento della Corte costituzionale, ma come si desumerà dal prosieguo non può dirsi che la sentenza n. 182/2021 renda pacificamente inoperante il precedente Tettamanti. 

[7] Si vedano i rilievi di Corte e.d.u., Sez. III, 20 ottobre 2020, Pasquini c. San Marino, § 48 s., a cui si rinvia anche per la giurisprudenza ivi citata.

[8] Sulla quale, in dottrina, si può rinviare a N. Canestrini, La direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Un’introduzione, in Cass. pen., 2016, p. 2224 s.; S. Cras-A. Erbežnik, The Directive on the Presumption of Innocence and the Right to Be Present at Trial. Genesis and Description of the New EU-Measure, in Eucrim, 2016, 1, p. 25 s.; J. Della Torre, Il paradosso della direttiva sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo: un passo indietro rispetto alle garanzie convenzionali?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1835 s.; C. Valentini, La presunzione d’innocenza nella Direttiva n. 2016/343/UE: per aspera ad astra, in Proc. pen. giust., 2016, 6, p. 193 s.

[9] Cfr. C.g.u.e., 5 settembre 2019, C-377/18, Ah e altri, § 41-42.

[10] Sul cui valore, in generale e nel caso di specie, v. infra, § 4.1.

[11] L’unico luogo della motivazione della Corte costituzionale in cui si accenna al tema è il § 14.1, in diritto, là dove è scritto che «la natura civilistica dell’accertamento richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell’impugnazione, differenziato dall’(ormai precluso) accertamento della responsabilità penale quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, emerge riguardo sia al nesso causale, sia» – ecco quanto ora ci interessa – «all’elemento soggettivo dell’illecito». L’inciso va peraltro coordinato con quanto si dichiara subito prima, nel § 14, in diritto: il fatto da accertare è cioè il «fatto… come storicamente considerato nell’imputazione penale». Ma se il pubblico ministero nell’imputazione non descrive una condotta colposa, e se ai sensi dell’art. 578 comma 1 c.p.p. in sede d’appello il giudice deve accertare il fatto per come si presenta cristallizzato nell’accusa, allora per una responsabilità civile colposa non vi dovrebbe essere spazio; salvo ritenere che il riferimento all’atto di imputazione vada inteso in termini esclusivamente oggettivi, e non anche soggettivi.   

[12] § 14.2, in diritto.

[13] L’esigenza di disciplinare la trattazione della questione civile in modo da evitare di «incorrere in violazioni della presunzione d’innocenza dell’imputato» è resa palese nella Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150: «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», in G.U., supplemento straordinario n. 5, serie generale n. 245, 19 ottobre 2022, p. 330.

[14] Sulla disciplina dell’annullamento della Cassazione ai soli effetti civili, e le connesse questioni implicate e parzialmente risolte dal giudice della nomofilachia, sia consentito il rinvio a Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2021, n. 22065, in Cass. pen., 2021, p. 2694 s., con nota di F.M. Damosso, Rinnovazione e rinvio ai soli effetti civili. Tra soluzioni necessitate e incongruenze processuali

[15] V. supra, § 2.

[16] Cass., Sez. Un., 25 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti, cit. (§ 4 s., in diritto).

[17] La categoria delle interpretative di rigetto è stata inaugurata dallo stesso giudice delle leggi, a partire da C. cost., 2 luglio 1956, n. 8; C. cost., 26 gennaio 1957 n. 1; C. cost., 19 febbraio 1965, n. 11. 

[18] Corte cost., 1° giugno 1979, n. 40.

[19] Il riconoscimento di un siffatto vincolo positivo, e non meramente negativo, discendente per esempio da C. cost., 27 febbraio 2019, n. 24, è stato di recente alla base della decisione di Cass., Sez. I, 1° aprile 2019, n. 27696, in C.e.d., n. 275888 (§ 3.3, in diritto). E di fatto è anche alla base dell’ordinanza qui in commento.

[20] Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1998, n. 25, Alagni, in C.e.d., n. 212074 (§ 8, in diritto). Il principio è stato ribadito, più recentemente, da Cass., Sez. I, 1° aprile 2019, n. 27696, cit. (§ 3.2, in diritto). In argomento si veda però T. Martines, Diritto costituzionale, XIII ed. a cura di G. Silvestri, Giuffrè, 2013, p. 517, ove testimonia come in tempi passati lo strumento dell’interpretativa di rigetto sia stato avversato soprattutto dalla stessa Cassazione, sulla scorta del rilievo per cui, così facendo, la Corte costituzionale finiva da un lato per non rispettare il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato; e dall’altro per interferire indebitamente nell’esercizio della funzione nomofilattica del giudice di legittimità. Significativa, in tal senso, Cass., Sez. Un., 31 marzo 2004, Rv. 227523, in Giur. cost., 2004, p. 2995 s.     

[21] Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1998, n. 25, cit. (§ 9, in diritto).

[22] In argomento, e relativamente al rapporto tra interpretazione della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, v. R. Orlandi, Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione “politica” delle corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, p. 2609 s.

[23] Cfr. F. Viganò, Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale, in questa Rivista, 19 gennaio 2021, p. 9-10.

[24] Della quale si è fatto cenno supra, § 1.

[25] Sez. Un., 19 aprile 2018, n. 36072, Botticelli, in C.e.d., n. 273549 (§ 1.1, in diritto).

[26] Cass., Sez. I, 7 dicembre 2022, n. 49744, in C.e.d., n. 283840. Non vincolante è dunque il principio vertente su di un «che lambisce ma non inquadra l’oggetto del contrasto giurisprudenziale rimesso» alle Sezioni Unite (§ 2.2, in diritto).

[27] Cass., Sez. VI, 20 gennaio 2021, n. 23148, in Cass. pen., 2021, p. 1241 s., con nota di R. Aprati, Cultura del dialogo e precedenti delle sezioni unite. Da menzionare è anche Cass., Sez. V, 17 dicembre 2020, n. 1757, in C.e.d. Cass., n. 280326-01: alle Sezioni Unite spetta fissare il principio o i principi «secondo un’ottica di razionalizzazione sistematica in funzione nomofilattica» (§ 6.2, in diritto).  

[28] Cass., Sez. VI, 20 gennaio 2021, n. 23148 (§ 7.3, in diritto).

[29] Si vedano i rilievi di R. Aprati, Cultura del dialogo, cit., p. 1261; Id., Le Sezioni Unite fra l’esatta applicazione della legge e l’uniforme interpretazione della legge (commi 66-69 l. n. 103/2017), in A. Marandola-T. Bene (a cura di), La riforma della giustizia penale. Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario (L. 103/2017), Giuffrè, 2017, p. 296, tuttavia, attrae nell’area della vincolatività pure i principi «strettamente pregiudiziali» a quello concernente il contrasto interpretativo alla base dell’ordinanza di rimessione. Nello stesso senso, M. Gialuz-J. Della Torre, Alla ricerca di soluzioni per una crisi cronica: Sezioni unite e nomofilachia dopo la “riforma Orlando”, in Proc. pen. e giust., 2018, p. 982.     

[30] In questo senso, G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto, in Dir. pen. cont., 29 gennaio 2018, p. 20; D. Carcano, Relazione al Convegno Il valore del precedente nel processo penale, tenutosi presso la Corte di cassazione l’8 novembre 2018, in Cortedicassazione.it, p. 4; G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni unite penali della Corte di cassazione, in Dir. pen. cont., 4 febbraio 2019, p. 17-18; da ultimo, sia consentito rinviare a F.M. Damosso, Il vincolo al precedente tra sentenza di legittimità e massimazione, Giappichelli, 2022, p. 223 s. 

[31] V. supra, nt. 29.