ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
06 Maggio 2020


Mandato di arresto europeo e diritto degli extracomunitari al reinserimento sociale nello Stato di esecuzione. Una questione di legittimità costituzionale

Cass., Sez. 6, ord. 4 febbraio 2020 (dep. 19 marzo 2020), n. 10371, Pres. S. Mogini, Est. De Amicis



1. Con l’ordinanza in commento[1], la Corte di Cassazione è intervenuta su un profilo di illegittimità della disciplina italiana del mandato di arresto europeo (MAE)[2] a cui la Corte costituzionale aveva già iniziato ad ovviare con la sentenza n. 227 del 2010[3], e che concerne il diritto del condannato di scontare la pena nello Stato in cui egli vive abitualmente, a prescindere dalla propria nazionalità.

In questo caso, un extracomunitario con cittadinanza albanese, ma da tempo radicato in Italia sul piano lavorativo e familiare, era stato condannato in Grecia per traffico di stupefacenti. A fronte della conseguente richiesta di consegna emessa dalla competente autorità giudiziaria greca, si era posta la questione dell’applicabilità del motivo di rifiuto previsto dall’art. 18 bis lett. c l. n. 69 del 2005[4].

Quest’ultimo statuisce che la Corte di appello, sempre che disponga che l’esecuzione della pena debba avvenire in Italia, può rifiutare la consegna solamente in rapporto al “cittadino italiano” “o di altro Stato membro dell’Unione” “che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano”.

Nella vicenda in esame, la Corte di appello di Genova, tramite un’interpretazione costituzionalmente conforme volta ad evitare disparità di trattamento, aveva ritenuto di estendere la prescrizione agli extracomunitari, rigettando la richiesta dell’autorità greca.

A seguito dell’impugnazione del Procuratore generale, la Corte di cassazione, per contro, ha considerato questa strada non praticabile, reputando strettamente tassativo il riferimento dell’art. 18 bis lett. c ai soli cittadini dell’Unione[5]. I giudici di legittimità, nondimeno, hanno maturato la convinzione che il risultato perseguito dalla Corte di appello sia raggiungibile dichiarando l’art. 18 bis lett. c costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la possibilità di rifiutare la consegna degli extracomunitari che legittimamente ed effettivamente abbiano residenza o dimora nel territorio italiano.

Senza la pretesa di ripercorrere tutte le numerose e condivisibili ragioni addotte dalla Corte al riguardo, proviamo ad individuare le più importanti.

 

2. Il punto di partenza del ragionamento della Cassazione è rappresentato dalla ratio del motivo di rifiuto di cui si discute. Perché lo Stato di esecuzione dovrebbe pretendere che l’esecuzione della pena avvenga nel proprio territorio?

Sull’onda della giurisprudenza della Corte di giustizia[6] e della sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale, l’ordinanza individua una risposta che ormai può ritenersi consolidata, e che poggia su un’esigenza fondamentale: garantire il reinserimento sociale del condannato che si fosse già stabilmente radicato proprio in quello Stato, evitando di reciderne completamente i legami con l’acquisito contesto sociale, familiare e lavorativo. Legami che egli potrebbe mantenere, sia pure in modo necessariamente ridotto, nel corso dell’esecuzione della pena (in particolare tramite i colloqui con i familiari o l’ammissione ad attività lavorative all’esterno del carcere), e che recupererebbe in toto una volta finito di scontare la medesima.

Si tratta di un valore che trova una solida copertura nella finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 2 Cost.) e nel diritto al rispetto della vita familiare (artt. 8 CEDU e 7 Carta di Nizza). Considerata la sua importanza, non stupisce che esso sia divenuto uno degli scopi fondanti della cooperazione giudiziaria[7] e, più specificamente, del sistema di arresto transnazionale apprestato con il MAE. Non a caso è menzionato anche dall’art. 742 comma 2 c.p.p. in rapporto all’esecuzione all’estero delle pene detentive, la quale può essere domandata o concessa, con il consenso del condannato, se risulta “idonea a favorire il suo reinserimento sociale”.

 

3. Stabilito che il motivo di rifiuto previsto dall’art. 18 bis lett c l. n. 69 del 2005 svolge una funzione costituzionalmente apprezzabile, la questione tuttora aperta riguarda il suo ambito soggettivo di operatività.

Essendo ricompreso dalla decisione-quadro sul mandato di arresto europeo[8] fra i motivi di rifiuto “facoltativi”, esso potrebbe anche non essere previsto dalle legislazioni nazionali. Volendo, tuttavia, attuarlo, lo si dovrebbe fare evitando di violare il divieto di discriminazione previsto dagli artt. 18 TFUE e 21 Carta di Nizza nonché, a livello interno, dall’art. 3 Cost.: ogni disparità di trattamento, a questo riguardo, dovrebbe poggiare su solide giustificazioni[9].

Ciò premesso, nessuno ovviamente dubita che possa fruire del rifiuto chi vanti la cittadinanza dello Stato di esecuzione. La possibilità di evitare la consegna dei propri cittadini, già da tempo rinvenibile nella disciplina dell’estradizione[10], per il nostro paese compariva nell’originaria formulazione della lett. r dell’art. 18 l. n. 69 del 2005, ed ora, come abbiamo visto, è pacificamente ribadita dall’art. 18 bis lett c.

Più articolato il discorso relativo a chi non possiede lo status in questione. A tale riguardo, è difficile negare che la normativa eurounitaria intenda comunque proteggere il diritto al reinserimento sociale. In rapporto al MAE esecutivo[11], l’art. 4.6 della decisione-quadro sul mandato di arresto europeo concede la possibilità di rifiutare la consegna “qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso” la pena “conformemente al suo diritto interno”. Similmente, in rapporto al MAE processuale[12], l’art. 5.3 prevede che, se la persona è “cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione”, la consegna può essere subordinata alla condizione che essa, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata in quello Stato per scontarvi la pena eventualmente pronunciata nei suoi confronti nello Stato di emissione.

Nella visione dell’Unione, dunque, conta non solo il dato formale della “cittadinanza”, ma anche quello, sostanziale, della “residenza” o della “dimora”. La Corte di giustizia, dal canto suo, non ha mancato di definire il significato di questi termini con la sentenza Kozlowski del 2008, giustamente sottolineando che, per evitare difformità applicative, esso non potrebbe essere lasciato al margine di apprezzamento dei singoli Stati, ma vada inteso in modo uniforme in tutto il territorio dell’Unione.

Ebbene, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che una persona “risiede” nello Stato di esecuzione “qualora abbia ivi stabilito la propria residenza effettiva”, mentre “dimora” in tale Stato qualora, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata nel medesimo, abbia acquisito esso legami “di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza”.

Tale livello di connessione con lo Stato di esecuzione va accertato caso per caso dall’autorità di esecuzione, alla quale spetta “una valutazione complessiva di un certo numero degli elementi oggettivi caratterizzanti la situazione della persona in questione, tra i quali, segnatamente, la durata, la natura e le modalità del suo soggiorno, nonché i legami familiari ed economici che essa intrattiene con lo Stato membro di esecuzione”.

In questo modo, nel caso Kozlowski la Corte di giustizia ha potuto escludere che “dimorasse” in Germania un cittadino polacco che viveva saltuariamente in territorio tedesco, senza rispettare pienamente le norme in materia di ingresso e di permanenza[13].

 

4. Sulla base di questa cornice, la Corte costituzionale aveva già risolto la questione dell’esclusione dei cittadini di altri Stati dell’Unione dal motivo di rifiuto di cui si discute nel testo originario dell’art. 18 lett. r l. n. 69 del 2005.

È vero, in linea generale, che può ritenersi accettabile un certo grado di differenziazione fra i cittadini dello Stato di esecuzione e i cittadini di altri Stati dell’Unione. Lo ha detto la stessa Corte di giustizia con la sentenza Wolzenburg, in cui si legge che, in rapporto ai secondi, lo Stato di esecuzione potrebbe subordinare il rifiuto della consegna a requisiti più stringenti, in particolare legati al tempo di permanenza nel proprio territorio o, comunque, alla solidità dei legami creatisi[14]. È del tutto comprensibile – ha aggiunto la sentenza Da Silva Jorge – che fruisca del diritto al reinserimento sociale solo chi abbia “dimostrato un sicuro grado di integrazione nella società” dello Stato di esecuzione, “paragonabile a quello di un cittadino nazionale” [15].

Creerebbe un’irragionevole discriminazione, tuttavia, escludere completamente i cittadini di altri Stati dell’Unione dall’ambito operativo del motivo di rifiuto. Ed era proprio questo il difetto dell’art. 18 lett. r, nella misura in cui menzionava unicamente i cittadini italiani la cui pena potesse essere eseguita in Italia. Mancando una ragione idonea a giustificare la disparità di trattamento, la sentenza n. 227 del 2010, dunque, aveva potuto dichiararlo illegittimo per contrasto con il diritto dell’Unione e, quindi, con gli artt. 11 e 117 Cost.[16]. Ora, come si diceva, il dictum della Corte costituzionale è stato incorporato nel nuovo art. 18 bis lett. c l. n. 69 del 2005, il quale ha esteso il motivo di rifiuto anche ai cittadini di altri Stati dell’Unione che “legittimamente ed effettivamente” abbiano la loro residenza o dimora in Italia.

 

5. Questo è il background dell’ordinanza in commento, la quale vorrebbe che la Corte costituzionale completasse il lavoro di allineamento della nostra disciplina a quella europea aggiungendo un ultimo tassello: quello relativo agli extracomunitari che dimorino stabilmente in Italia o, comunque, abbiano solidi legami con il nostro paese.

Di qui l’indicazione delle numerose ragioni per cui l’omessa menzione degli extracomunitari da parte dell’art. 18 bis lett. c l. n. 69 del 2005 risulta incostituzionale.

a) La Corte di cassazione anzitutto ricorda come la “cittadinanza europea” non possa più essere intesa come una prerogativa esclusiva dei cittadini degli Stati membri, ma integri un insieme di diritti di alcuni dei quali, a certe condizioni, devono poter fruire anche i cittadini di paesi terzi. Si tratta di una conseguenza della globalizzazione, che stimola una concezione sempre più universalistica dei diritti fondamentali, da collegare non tanto alla nazionalità quanto, sempre di più, alla territorialità[17].

A questo trend non si sottrae il divieto di discriminazione, il quale, sebbene formalmente riconosciuto a favore dei soli cittadini dell’Unione, possiede delle potenzialità applicative anche nei confronti degli extracomunitari. Del resto, non è estraneo ai trattati eurounitari il valore dell’equità di trattamento “dei cittadini dei paesi terzi” (art. 66.2 TFUE), specie se “regolarmente soggiornanti negli Stati membri” (art. 79 TFUE).

Ora, è vero che le persone che non vantano lo status formale della cittadinanza europea non fruiscono della c.d. libertà di stabilimento (art. 49 TFUE)[18]. Nondimeno, in attuazione dell’equità di trattamento, nella misura in cui esse abbiano solidi legami con gli stati dell’Unione, cementando il tessuto sociale e contribuendo al benessere economico di questi ultimi, le norme eurounitarie prevedono a loro favore non poche forme di tutela. Basti pensare alla già menzionata direttiva 2004/38 sui familiari dei cittadini dell’Unione, nonché alla direttiva 2003/86 sul ricongiungimento dei familiari[19], e alla direttiva 2003/109 sui soggiornanti di lunga durata[20].

In un quadro del genere, appare difficile assicurare il diritto al reinserimento sociale ai soli cittadini dell’Unione[21], senza tenere nel minimo conto la posizione di chi, nella sostanza, contribuisce con continuità alla vita dell’Unione pur senza esserne cittadino. Sarebbe una tutela incompleta, in contrasto con l’obbligo di proteggere i diritti fondamentali che, previsto in via generale dagli artt. 6 TUE e 696 ter c.p.p., è richiamato anche dall’art. 1.3 della decisione-quadro sul MAE, e costituisce un freno ai danni che deriverebbero da un’attuazione illimitata del principio del mutuo riconoscimento in campo penale.

 b) La Corte di cassazione pone in luce, altresì, l’incompatibilità dell’attuale normativa interna con la normativa eurounitaria, tale da portare ad una violazione degli artt. 11 e 117 Cost. Se, infatti, l’art. 4.6 della decisione-quadro ricomprende nel motivo di rifiuto chiunque risieda o dimori stabilmente nell’Unione, l’art. 18 bis lett. c l. n. 69 del 2005 tuttora vi esclude i cittadini di paesi terzi, a prescindere dal loro legame sostanziale con lo Stato di esecuzione.

c) La cassazione ricorda, infine, come l’art. 18 bis lett. c produca delle disparità di trattamento persino a livello interno, determinando una violazione dell’art. 3 Cost.

Ciò avviene, anzitutto, in rapporto alla disciplina del MAE processuale, posto che l’art. 19 comma 1 lett. c l. n. 69 del 2005 prescrive che, se il ricercato è “cittadino” o anche solo “residente” in Italia, la consegna è subordinata alla condizione che egli, in caso di condanna nello Stato di emissione, sia rinviato nello Stato di esecuzione per scontarvi la pena[22].

Di qui un evidente paradosso: ad oggi, l’extracomunitario stabilmente residente in Italia fruisce di una tutela più forte laddove potrebbe bastarne una più debole. In caso di MAE processuale, la consegna e il processo in un altro Stato potrebbero allentare i vincoli con il nostro paese e, quindi, giustificare una protezione inferiore del diritto al reinserimento sociale, al più anche permettendo l’esecuzione della condanna nello Stato di emissione.

Similmente, i giudici di legittimità riscontrano una distonia con la disciplina del c.d. transito, ossia il passaggio nel territorio di uno Stato di un ricercato che debba essere consegnato ad un altro Stato. A questo riguardo, l’art. 27 l. n. 69 del 2005, in linea con l’art. 25 della decisione-quadro, correttamente non distingue fra i cittadini italiani e le persone residenti in Italia, prevedendo per entrambe le categorie la possibilità che il transito sia condizionato al rinvio in Italia per l’esecuzione della pena.

L’ordinanza richiama, poi, la disciplina del riconoscimento delle sentenze penali straniere, anche essa finalizzato a favorire l’esecuzione della pena e il conseguente reinserimento sociale in Italia di chiunque abbia un solido legame con il nostro paese: un obiettivo che – come osserva pure la Corte di giustizia – va perseguito “nell’interesse non solo della persona condannata, ma anche dell’Unione Europea in generale”[23]. Ed infatti l’art 10 d.lgs. 7 settembre 2010, n. 161, conformemente alla decisione-quadro 2008/909[24], consente il riconoscimento, date certe condizioni, delle condanne pronunciate nei confronti di chiunque abbia “la residenza, la dimora o il domicilio nel territorio dello Stato”.

 

6. In definitiva, l’art. 18 bis lett c l. n. 69 del 2005 suscita dubbi di legittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla legislazione dell’Unione, quando a quelli tutelati dalla nostra Costituzione. In questi casi di “doppia pregiudizialità” si pone il problema più generale – che l’ordinanza non ha omesso di considerare – relativo agli spazi di manovra del giudice ordinario.

La Corte costituzionale lo ha affrontato, di recente, con la sentenza n. 269 del 2017, osservando che in ipotesi del genere “dovrebbe”, di norma, essere sollevata una questione di legittimità costituzionale, “fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione”[25].

È chiaro, però, che adottare l’una o l’altra soluzione non sarebbe indifferente: anche se si presentano con nomi simili nella Costituzione e nelle fonti eurounitarie, i diritti fondamentali hanno uno specifico contenuto che viene declinato in modo non sempre conforme dalla Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia. Le affermazioni della sentenza n. 269 del 2017, per di più, potrebbero essere travisate, rischiando di cementare l’idea che il controllo di costituzionalità sia, in ogni caso, la strada da preferire.

 È opportuno, invece, distinguere a seconda della situazione. In presenza di dubbi sul significato delle norme dell’Unione rilevanti nel caso specifico, va ribadito che la via maestra resta il rinvio pregiudiziale, al limite proposto anche dalla stessa Corte costituzionale qualora il giudice ordinario si fosse prima rivolto a quest’ultima.

Diverso il discorso quando il giudice ordinario ritenga che la portata del diritto dell’Unione, in sé considerato o, comunque, tenendo conto del case-law della Corte di giustizia, sia sufficientemente chiara. Qui egli potrebbe addirittura disapplicare le norme nazionali in conflitto con la Costituzione e con norme dell’Unione, ma solo nella misura in cui queste ultime fossero dotate di efficacia diretta (come i regolamenti e le direttive)[26]. Dovrebbe, invece, rivolgersi alla Corte costituzionale qualora le norme nazionali fossero in conflitto con la Costituzione e con norme dell’Unione non dotate di efficacia diretta (è, per l’appunto, il caso delle decisioni-quadro), e non apparisse praticabile un’interpretazione conforme.

Alla luce di queste considerazioni, appare corretta la scelta della Corte di cassazione di imboccare la via dell’incidente di costituzionalità.

Anzitutto perché almeno tre ragioni, nel nostro caso, consentono di eliminare ogni dubbio in merito alla portata del diritto dell’Unione:

in primis, il chiaro riferimento da parte dell’art. 4.6 della decisione-quadro non solo ai cittadini ma a chiunque “risieda” o, addirittura, “dimori” nello Stato di esecuzione, valorizzando una situazione fattuale, da accertare caso per caso, anziché un mero status formale;

in secondo luogo, il fatto che l’art. 4.6 e, di conseguenza, la sentenza Kozlowski, nell’individuare la condizione della residenza o della dimora, si riferiscano non, specificamente, ai “cittadini” dell’Unione, ma, genericamente, alla persona “ricercata” o “oggetto di un mandato di arresto europeo”;

in terzo luogo, il fatto che, pur tenendo conto delle peculiarità dei singoli casi considerati, la giurisprudenza della Corte di giustizia abbia ribadito in più di un’occasione una concezione antiformalistica del diritto al reinserimento sociale.

Opportuno, dunque, non rivolgersi in via pregiudiziale ai giudici di Lussemburgo, i quali con ogni probabilità avrebbero affermato che la totale esclusione degli extracomunitari, decretata a prescindere da ogni accertamento in concreto del loro grado di radicamento in Italia, si trova in contrasto con la decisione-quadro e con il divieto di discriminazione.

Si aggiunga che non era possibile – come invece aveva provato a fare la Corte di appello di Genova – un’interpretazione conforme alla decisione-quadro. Un approccio del genere avrebbe portato a forzare la lettera dell’art. 18 bis lett. c, il quale indica tassativamente chi può fruire del motivo di rifiuto e continua, tuttora, a non menzionare i cittadini dei paesi terzi. Considerato che la norma è stata introdotta dal nostro legislatore dopo le pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale che hanno allargato la portata del divieto di discriminazione, l’omissione è senz’altro voluta; tuttavia, come ha ben argomentato la Corte di cassazione, essa risulta costituzionalmente indifendibile.

 

 

[1] Per un primo commento, v. C. Pinelli, Dubbi di legittimità circa l’omessa previsione, in sede di attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, della facoltà del giudice di rifiutare la consegna del cittadino di uno Stato terzo che risieda o dimori in Italia, in www.giustiziainsieme.it.

[2] Contenuta nella l. 22 aprile 2005, n. 69.

[3] Infra, § 4.

[4] La norma è stata introdotta dal l. 4 ottobre 2019, n. 117, che ha recepito le indicazioni di Corte cost., 21 giugno 2010, n. 227, ed ha così sostituito il previgente art. 18 lett. r.

[5] In questo senso v. anche Cass., sez. VI, 14 febbraio 2019, n. 7214; Id., 5 novembre 2019, n. 45190.

[6] Cfr. Corte giust., 17 luglio 2008, Kozlowski, C-66/08, § 45.

[7] Cfr. M. Pisani, “Reinserimento” del condannato e cooperazione giudiziaria internazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 513 s.

[8] Cfr. Corte cost., n. 227 del 2010.

[9] Decisione-quadro 2002/584 del 13 giugno 2002.

[10] Art. 6.1. lett. a Convenzione europea di estradizione del 1957.

[11] Cioè finalizzato all’esecuzione di una pena a seguito di una condanna.

[12] Ossia finalizzato all’esercizio dell’azione penale e allo svolgimento del giudizio nei confronti del ricercato.

[13] Corte giust., 17 luglio 2008, Kozlowski, cit., § 30 s. V. anche Corte giust., 6 ottobre 2009, Wolzenburg, C-123/08, § 42 s., la quale ha affermato che possa costituire una valida ragione di rifiuto della consegna di un cittadino dell’Unione ai sensi dell’art. 4.6 della decisione quadro la permanenza continuativa per almeno cinque anni nello Stato di esecuzione. Del resto, tale periodo di tempo – hanno notato i giudici di Lussemburgo – conferisce il diritto al soggiorno permanente in quello Stato in base all’art. 16 della direttiva 2004/38 del 29 aprile 2004.

[14] Corte giust., 6 ottobre 2009, Wolzenburg, cit., § 54 s.

[15] Corte giust., 5 settembre 2012, Da Silva Jorge, C-42/11, § 33, 51.

[16] Corte cost., n. 227 del 2010. Al riguardo v. M. Bargis, Libertà personale e consegna, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, IV ed., Giuffrè, 2019, 420 s.; B. Piattoli, Mandato d’arresto esecutivo e motivi di rifiuto alla consegna: l’illegittimità costituzionale della mancata estensione della disciplina italiana dell’art. 18, comma 1, lett. r), l. 22 aprile 2005, n. 65, al cittadino di un altro Paese UE residente nello Stato, in Giur. cost., 2010, 2630 s.

[17] Cfr. E. Triggiani, I residenti provenienti da paesi terzi: cittadini senza cittadinanza?, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2017, n. 2, 52 s. V. anche B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione Europea, in Dig. disc. pubbl., Utet, 2012, § 30, il quale richiama, a tale proposito, il concetto di cittadinanza “civile”.

[18] Cfr. Cass., sez. VI, 14 febbraio 2019, n. 7214, la quale per questa ragione aveva ritenuto di non proporre la questione di illegittimità sollevata dall’ordinanza in commento.

[19] Direttiva 2003/86 del 22 settembre 2003.

[20] Direttiva 2003/109 del 25 novembre 2003.

[21] In questo senso v. E. Calvanese – G. De Amicis, Mandato d’arresto europeo e consegna “esecutiva” del cittadino nell’interpretazione della Corte di Giustizia: verso la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18, lett. r, della l. n. 69/2005?, in Cass. pen., 2010, 1207 s.; M. Guidi, La rilevanza della cittadinanza ai fini dell’esecuzione del mandato d’arresto europeo, in E. Triggiani (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Cacucci, 2011, 203 s.; L. Pulito, La destatualizzazione delle garanzie nello spazio giudiziario europeo, in Dir. pen. proc., 2010, 895 s.

[22] Per un approfondimento del punto v. A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010, 260 s.; G. Colaiacovo, Il “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e il residente al vaglio della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 2010, 676 s.

[23] Corte giust., 11 marzo 2020, SF, C-314/18, § 51.

[24] Decisione-quadro 2008/909 del 27 novembre 2008.

[25] Corte cost., 7 novembre 2017, n. 269; v. anche Id., 20 febbraio 2019, n. 63.

[26] Resterebbe, comunque, salva la possibilità di proporre una questione di illegittimità costituzionale nei confronti delle stesse norme dell’Unione incompatibili con la nostra Costituzione, venendo in gioco i c.d. controlimiti: v., sul punto, R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamentali, in Id. (a cura di), Manuale, cit., 83 s.