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17 Luglio 2024


Le sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite sui criptofonini

La mappa del controllo giurisdizionale quando l’OEI ha ad oggetto prove già in possesso dell’autorità straniera



Contributo redatto nell’ambito del progetto MEIOR (Mould EIO Review), finanziato dal Justice Programme (Just) 2021-2027 dell’Unione Europea, Project ID: 101046446.

 

1. Due “gemelle” (e una “cugina”). Sono state depositate le motivazioni delle due decisioni delle Sezioni Unite in merito al caso dei c.d. criptofonini Sky ECC[1].

Non è detto che queste sentenze “gemelle”, redatte dal medesimo estensore e perfettamente sovrapponibili quanto ai principi di diritto enunciati, siano in grado di risolvere tutte le implicazioni che discendono dalle complesse problematiche sottese alla materia. Di certo, non si potrà fare a meno di leggerle congiuntamente alla decisione “cugina” del 30 aprile 2024 con cui la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito all’analoga vicenda dei messaggi criptati scambiati attraverso la piattaforma Encrochat[2]. E, comunque, un ulteriore tassello al mosaico verrà aggiunto dalla Corte europa dei diritti dell’uomo, anch’essa chiamata ad esprimersi al riguardo[3].

La diatriba, come è ormai ben noto, concerne la natura e le conseguenti garanzie procedimentali applicabili all’acquisizione delle conversazioni via chat intercorse fra alcuni esponenti di associazioni criminali dedite al traffico di stupefacenti attraverso piattaforme online di tipo criptato, che avevano loro consentito di comunicare in modo riservato mediante smartphone appositamente modificati.

Nei casi affrontati dalle Sezioni Unite, si trattava delle comunicazioni che le autorità giudiziarie francesi erano riuscite a carpire dai server della piattaforma Sky ECC attraverso apposite attività di hacking[4]: attività che, a quanto pare, erano consistite sia nella raccolta in tempo reale di comunicazioni in corso di svolgimento, attraverso operazioni di intercettazione e di acquisizione di dati esterni alle comunicazioni (i c.d. tabulati), sia nella raccolta di comunicazioni già avvenute e conservate nei server (c.d. “dati freddi”), attraverso atti di perquisizione e sequestro.

Le autorità italiane avevano chiesto alla Francia la trasmissione delle comunicazioni così ottenute tramite lo strumento dell’ordine europeo di indagine penale (OEI), regolamentato dalla direttiva n. 41 del 2014 (trasposta, a livello nazionale, dal d.lgs. n. 108 del 2017).

La peculiarità di tali OEI italiani, dunque, era quella di avere ad oggetto comunicazioni già autonomamente acquisite dalle autorità francesi in funzione di propri procedimenti nazionali. Le Sezioni Unite, di conseguenza, si sono dovute confrontare con il tema dell’impiego dell’OEI ai fini della raccolta di prove già in possesso dell’autorità di esecuzione: un’eventualità espressamente prevista sia dalla direttiva[5] sia dal d.lgs. n. 108 del 2017[6], e che, come ora vedremo, determina non poche complicazioni.

 

2. L’equivalenza con la disciplina nazionale sulla circolazione delle prove fra procedimenti diversi. Un primo, importante, approdo raggiunto dalle Sezioni Unite concerne l’individuazione della natura delle operazioni istruttorie in questione, le quali non consistono in un’“acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero” ai sensi dell’art. 234 bis c.p.p.[7]. Quest’ultima, osserva giustamente la Corte di cassazione, è una disciplina “alternativa e incompatibile” rispetto a quella dettata in tema di OEI; essa “prescinde” “da forme di collaborazione con l’autorità giudiziaria di altro Stato”, laddove il Considerando 35 della direttiva qualifica l’OEI come prevalente su tutti gli altri pertinenti strumenti internazionali che dovessero concorrere in materia[8].

Venendo in gioco l’OEI, dunque, operano le garanzie che devono assistere la raccolta delle prove tramite questo strumento. In particolare, il principio di equivalenza, ai sensi di cui l’atto di indagine richiesto nell’OEI dovrebbe poter essere emesso “alle stesse condizioni in un caso interno analogo”[9]; e il principio di proporzionalità, il quale esige che le eventuali compressioni dei diritti fondamentali originate dalle attività istruttorie siano contenute nello stretto necessario, e comunque non intacchino i nuclei essenziali dei medesimi[10].

Il problema, qui, è comprendere come tali principi operino rispetto a prove che, in quanto autonomamente raccolte dalle autorità straniere, sono già state preformate sulla base della lex loci, a prescindere dalle regole previste dalla lex fori.

Siccome la direttiva e il d.lgs. n. 108 del 2017 si disinteressano della questione, non resta che prendere le mosse dall’art. 78 disp. att. c.p.p., relativo all’acquisizione della “documentazione di atti di un procedimento penale compiuti da autorità giudiziaria straniera”: una prescrizione concepita in un momento storico in cui l’unico strumento di raccolta transnazionale delle prove era rappresentato dalle rogatorie, ma che può senz’altro essere ritenuta applicabile anche all’OEI.

Vi si prevede, al comma 1, che la documentazione in questione “può essere acquisita” nei procedimenti penali nazionali “a norma dell’articolo 238 del codice”: vale a dire, delle prescrizioni che, in ambito nazionale, regolano la circolazione delle prove da un procedimento penale ad un altro.

Le Sezioni Unite ne traggono un criterio generale, tale da plasmare l’intero loro ragionamento: venendo in gioco prove già autonomamente raccolte dalle autorità straniere prima dell’emissione dell’OEI, l’equivalenza con in casi interni analoghi va parametrata in rapporto non alla disciplina nazionale della “formazione”, ma a quella della “circolazione” delle prove fra procedimenti diversi.

Ciò significa che, nella visione della Corte di cassazione, in questi casi le sole regole probatorie rilevanti ai fini dell’acquisizione in Italia delle prove già raccolte all’estero sono quelle rinvenibili nell’art. 238 c.p.p., a cui l’art. 78 disp. att. rinvia; nonchè, qualora le prove fossero state acquisite con le forme delle intercettazioni di comunicazioni, quelle rinvenibili nell’art. 270 c.p.p.[11], il quale, sebbene non espressamente richiamato, può ritenersi applicabile in virtù della logica sottesa all’art. 78 disp. att.[12].

 

3. Nessun controllo giurisdizionale anticipato nello Stato di emissione. Ciò consente alle Sezioni Unite di rispondere negativamente al quesito se, per l’emissione di un OEI finalizzato all’acquisizione di comunicazioni criptate già autonomamente raccolte all’estero, sia necessaria l’autorizzazione preventiva di un giudice dello Stato di emissione.

Se la circolazione di prove del genere da un procedimento ad un altro avvenisse a livello nazionale, tale autorizzazione preventiva non servirebbe, in quanto non richiesta nè dall’art. 238, nè dall’art. 270 c.p.p.

In applicazione del principio di equivalenza, pertanto, la Corte di cassazione ritiene che pure il corrispondente OEI possa essere emesso direttamente da un pubblico ministero. Ciò, si badi bene, anche quando le prove richieste fossero già state raccolte all’estero attraverso intercettazioni o acquisizione di tabulati: vale a dire, operazioni istruttorie che, a differenza delle perquisizioni e dei sequestri, a livello nazionale[13] non potrebbero essere disposte direttamente dal pubblico ministero, ma necessiterebbero di una preventiva autorizzazione giurisdizionale[14].

È una conclusione su cui si può convenire, e che trova una conferma anche nella più sopra menzionata sentenza della Corte di giustizia relativa al caso Encrochat.

Il pubblico ministero, osservano i giudici di Lussemburgo, figura tra i soggetti che, ai sensi dell’art. 2 lett. c della direttiva, possono costituire un’autorità di emissione dell’OEI. L’unica condizione è che l’organo di accusa sia competente, in un caso interno analogo, “ad ordinare un atto di indagine diretto alla trasmissione di prove già in possesso delle autorità nazionali competenti”.

Di conseguenza, un OEI finalizzato ad ottenere prove già raccolte dalle competenti autorità dello Stato di esecuzione non dovrebbe “essere adottato necessariamente da un giudice quando, in forza del diritto dello Stato di emissione, in un procedimento puramente interno a tale Stato, la raccolta iniziale di tali prove avrebbe dovuto essere ordinata da un giudice, ma competente ad ordinare l’acquisizione di dette prove è il pubblico ministero”[15].

 

4. Il controllo giurisdizionale posticipato. Il fatto che ai fini dell’emissione degli OEI di cui si discute non sia necessaria l’autorizzazione preventiva di un giudice, tuttavia, non significa che nello Stato emissione sia possibile prescindere da un vaglio giurisdizionale tout court.

Quest’ultimo, nel sistema dell’OEI, costituisce un tassello ineludibile. Lo si ricava in primis dal già ricordato obbligo di rispettare i diritti fondamentali nei limiti del principio di proporzionalità, rispetto a cui il controllo giurisdizionale rappresenta un prerequisito essenziale.

Neppure va trascurata l’esigenza di assicurare che agli atti istruttori richiesti nell’OEI siano applicabili “mezzi d’impugnazione equivalenti a quelli disponibili in un caso interno analogo”, tali da permettere, nell’ambito dello Stato di emissione, di contestare le “ragioni di merito dell’emissione dell’OEI”[16].

Nè va dimenticato lo Stato di emissione dovrebbe assicurare un mezzo di impugnazione nei confronti dell’OEI perfino quando questo non fosse contemplato in rapporto ad un caso interno analogo: un dovere non statuito dalla direttiva, ma introdotto dalla sentenza Gavanozov II della Corte di giustizia dell’Unione Europea in applicazione del diritto ad un ricorso effettivo previsto dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), al fine di assicurare uno standard di tutela unitario indipendente dalle caratteristiche degli ordinamenti dei singoli Stati[17].

Ciò comporta, nell’ambito dello Stato di emissione, la presenza di un controllo giurisdizionale perlomeno di tipo posticipato. Le Sezioni Unite non lo negano di certo. Nondimeno, esse ritengono di attribuire tale vaglio al giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove autonomamente raccolte all’estero e trasmesse tramite l’OEI: in particolare, al giudice di merito o al giudice chiamato ad applicare una misura cautelare, i quali conservano “integro il potere di valutare se vi siano i presupposti” per “ammettere” ed “utilizzare” tali prove ai fini delle decisioni di loro spettanza”[18].

Il controllo in questione, osserva la Corte di cassazione, equivale ad assicurare il diritto all’impugnazione nello Stato di emissione previsto, come si è detto, dall’art. 14 della direttiva[19].

Si potrebbe obiettare che così non si garantirebbe il diritto al controllo giurisdizionale attraverso un mezzo specifico di impugnazione, postulato dalla sentenza di Gavanozov II della Corte di giustizia a prescindere dalla sua previsione da parte dell’ordinamento dello Stato di emissione in un caso interno analogo.

Ma possibile ribattere che tale diritto, in quella sentenza, non è identificato in modo così netto. Per quanto, infatti, la Corte di giustizia richieda che le persone coinvolte dagli atti istruttori disposti con l’OEI dispongano di “mezzi di impugnazione appropriati”[20], essa comunque non esclude che si possa equiparare a questi ultimi il vaglio di ammissibilità operato dal giudice dello Stato di emissione chiamato ad utilizzare le prove.

Se, del resto, così non fosse, l’intera disciplina italiana delle intercettazioni da svolgere all’estero tramite l’OEI sarebbe da ritenere in contrasto con la sentenza Gavanozov II. Il d.lgs. n. 108 del 2017, infatti, simmetricamente a quanto fa il codice di procedura penale in ambito nazionale, in questi casi richiede l’autorizzazione preventiva di un giudice, ma non prevede, altresì, un mezzo di impugnazione apposito[21]; effettuate le intercettazioni, dunque, non resta che il vaglio svolto dal giudice chiamato ad utilizzarle.

Di per sè, insomma, il controllo giurisdizionale ex post esercitato dal giudice deputato ad utilizzare le prove già autonomamente raccolte all’estero può risultare sufficiente. Il problema, piuttosto, è un altro, e riguarda i limiti di tale controllo.

Esso deve senz’altro avvenire sulla base delle norme che disciplinano l’utilizzabilità nei processi nazionali delle prove acquisite con l’OEI. Ma si tratta di norme che, purtroppo, non brillano per chiarezza, a causa dell’incapacità degli Stati dell’Unione di accordarsi sulla previsione di regole comuni di ammissibilità in materia probatoria che da sempre contraddistingue la cooperazione giudiziaria, e che l’introduzione dell’OEI non è riuscita a superare.

Piuttosto laconico risulta, al riguardo, l’art. 14 § 7 della direttiva, che si limita a richiedere il rispetto dei “diritti della difesa” e delle “garanzie del giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’OEI”.

A livello nazionale, non è molto più preciso l’art. 36 del d.lgs. n. 108 del 2017, che ripropone la medesima regola prevista dall’art. 431 comma 1 lett. d c.p.p. per l’utilizzabilità delle prove raccolte tramite le rogatorie: sono ammissibili i “verbali degli atti” “assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana”.

Tutto ciò rende i contorni del controllo esercitato dal giudice chiamato ad utilizzare le prove piuttosto sfumati; e le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite a questo riguardo, come ora vedremo, meritano talune puntualizzazioni.

 

5. Quali regole probatorie previste dalla lex fori? La Corte di cassazione avanza una lettura di queste prescrizioni tale da condurre a risultati simili a quelli già raggiunti in tema di rogatorie.

Ai fini dell’utilizzabilità nello Stato di emissione di atti acquisiti mediante OEI, si legge nelle due sentenze, “è necessario garantire il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo”; “ma non anche l’osservanza, da parte dello Stato di esecuzione, di tutte le disposizioni previste dall’ordinamento giuridico italiano in tema di formazione ed acquisizione di tali atti”, considerato che nessuna norma della direttiva e del d.lgs. n. 108 del 2017 “prevedono, ai fini dell’utilizzabilità degli atti formati all’estero, la necessità di una puntuale applicazione di tutte le regole che l’ordinamento giuridico italiano fissa, in via ordinaria, per la formazione degli atti corrispondenti formati sul territorio nazionale”[22].

Com’è facile comprendere, si tratta di un’indicazione piuttosto ambigua: esattamente quali, tra le innumerevoli regole probatorie statuite a livello nazionale, integrano il diritto di difesa e le garanzie del giusto processo, e sono quindi da considerare rilevanti ai fini dell’utilizzabilità delle prove raccolte all’estero?

 

6. Il pericolo dell’appiattimento sulla lex loci. Nel tentativo di rispondere a questa domanda, va detto che le Sezioni Unite sembrano delineare almeno due specifici requisiti di utilizzabilità, sebbene essi non figurino nei principi di diritto elencati dalle due sentenze, ma emergano dalle pieghe delle motivazioni.

Anzitutto, quando vengano in gioco prove raccolte autonomamente all’estero tramite atti che, come le intercettazioni o l’acquisizione di tabulati, a livello nazionale richiederebbero l’autorizzazione preventiva di un giudice, la Corte di cassazione pare richiedere una condizione ben precisa: il fatto che l’acquisizione delle suddette prove fosse a suo tempo stata autorizzata ex ante da un giudice nello Stato di esecuzione[23].

Tale presupposto, perlomeno nel caso esaminato dalla sentenza Giorgi, poteva ritenersi integrato, se si considera che le comunicazioni criptate erano state acquisite a seguito di provvedimenti motivati emessi da juges d’instruction francesi[24].

In secondo luogo, la sentenza Giorgi aggiunge che, qualora le comunicazioni fossero state autonomamente acquisite all’estero con la forma delle intercettazioni, sarebbe necessaria la loro rilevanza per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, così come previsto dall’art. 270 comma 1 c.p.p.[25].

Qualora, poi, tali intercettazioni fossero state eseguite all’estero in rapporto ad indirizzi di comunicazione situati in Italia, opererebbe senz’altro l’obbligo di notifica delle operazioni alle competenti autorità italiane in forza degli artt. 31 della direttiva e 24 del d.lgs. n. 108 del 2017. In questi casi, le intercettazioni diverrebbero inutilizzabili qualora non fossero ammissibili in un caso interno analogo[26]: vale a dire, per quanto concerne l’Italia, se fossero state disposte in rapporto a reati per i quali non sarebbero consentite secondo l’ordinamento interno[27].

In ogni caso, concludono le Sezioni Unite, nelle vicende considerate pure tali condizioni potevano dirsi rispettate, se si tiene conto del fatto che le accuse avevano ad oggetto il grave reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti[28].

Al di là di queste considerazioni, tuttavia, al momento di tracciare gli ulteriori contenuti del vaglio operato dal giudice chiamato ad utilizzare le prove nello Stato di emissione, le indicazioni delle Sezioni Unite si fanno più evanescenti.

Da un lato, la Corte di cassazione statuisce esplicitamente il principio di diritto in base al quale “l’utilizzabilità del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, e trasmessa sulla base di ordine Europeo di indagine, deve essere esclusa se il giudice italiano rileva che il loro impiego determinerebbe una violazione dei diritti fondamentali[29].

D’altro lato, le Sezioni Unite si premurano di puntualizzare che il sistema dell’OEI è ispirato al principio di “presunzione relativa” di conformità ai diritti fondamentali delle attività istruttorie svolte dalle autorità giudiziarie degli altri Stati dell’Unione[30].

Se ne può ricavare che “l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire la violazione di diritti fondamentali grava sulla difesa, quando è questa a dedurre l’inutilizzabilità o l’invalidità di atti istruttori acquisiti dall’autorità giudiziaria italiana mediante OEI”[31]: un principio, quest’ultimo, anch’esso operante nel settore delle rogatorie[32], e comunque in linea con quanto avviene a livello nazionale, laddove spetta a chi afferma l’esistenza di un’invalidità processuale addurre i fatti che ne sono a fondamento.

Considerazioni non molto diverse sono, del resto, rinvenibili nella sentenza Encrochat della Corte di giustizia, laddove si legge che l’autorità di emissione, quando intenda ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle competenti autorità dello Stato di esecuzione, “non è autorizzata a controllare la regolarità del distinto procedimento con il quale lo Stato membro di esecuzione ha raccolto le prove di cui essa chiede la trasmissione”. Diversamente, si correrebbe il rischio di condurre ad un “sistema più complesso e meno efficace”, in violazione dei principi del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca che connotano il sistema della cooperazione giudiziaria nell’ambito dell’Unione Europea[33].

Rivive, in questo modo, la vecchia logica del criterio di “no inquiry nei confronti delle attività istruttorie compiute negli altri Stati, tradizionalmente operante in tema di rogatorie. Il pericolo, però, è che ne derivino prassi eccessivamente lassiste; che si consolidi, cioè, l’idea per cui le prove già autonomamente raccolte all’estero sulla base della lex loci potrebbero essere automaticamente ed acriticamente recepite nel nostro sistema, fidandosi ciecamente dell’operato delle autorità straniere.

 

7. Il controllo sulle ragioni di merito dell’emissione dell’OEI. Va, invece, ricordato che il controllo operato dal giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove, anche se già autonomamente raccolte all’estero, non può prescindere da un vaglio del rispetto dei presupposti di merito di emissione dell’OEI stabiliti dalla lex fori[34].

Si tratta di un controllo che, specie laddove la lex loci non fosse contraddistinta da adeguati standard di garanzia, costituisce un passaggio indispensabile per assicurare che le attività istruttorie, nel comprimere i diritti fondamentali e, in particolare, la garanzia di riservatezza (artt. 8 CEDU e 7 Carta di Nizza) di cui godono le comunicazioni di cui di discute, rispettino il principio di proporzionalità.

In particolare, laddove le operazioni istruttorie fossero avvenute all’estero con le forme delle intercettazioni o dell’acquisizione di tabulati, tale vaglio, sia pure nel rispetto dell’onere di allegazione a carico di chi proponga eventuali contestazioni, non potrebbe trascurare i requisiti la cui inosservanza, a livello nazionale, determinerebbe l’inutilizzabilità delle prove raccolte: si pensi alla presenza di indizi dei reati elencati dal codice e, per quanto concerne le intercettazioni, all’assoluta indispensabilità[35].

Nè si potrebbe sostenere che il giudice nazionale non avrebbe i mezzi per assolvere a tale compito. Basti ricordare che il vaglio di cui si discute va imperniato sulle “ragioni” che l’OEI dovrebbe indicare: un adempimento previsto in generale dagli artt. 5 § 1 lett. b della direttiva e 30 lett. b del d.lgs. n. 108 del 2017, e che non potrebbe essere omesso solo perchè l’OEI abbia ad oggetto prove già in possesso dell’autorità di esecuzione.

Qualche accenno in questo senso è, peraltro, rinvenibile nella decisione Encrochat della Corte di giustizia, laddove si afferma che “il carattere necessario e proporzionato” dell’emissione dell’OEI deve essere “valutato unicamente” alla luce del diritto dello Stato di emissione[36], e si ribadisce la necessità di evitare che l’impiego dell’OEI ai fini della trasmissione di prove già autonomamente raccolte all’estero abbia l’effetto di eludere le condizioni previste dalla lex fori[37].

“Di conseguenza”, concludono i giudici di Lussemburgo, “se l’acquisizione di prove già in possesso delle autorità competenti di un altro Stato membro dovesse o apparire sproporzionata ai fini dei procedimenti penali avviati a carico dell’interessato nello Stato di emissione, ad esempio in ragione della gravità della violazione dei diritti fondamentali di quest’ultimo, oppure essere stata disposta in violazione del regime giuridico applicabile a un caso interno analogo, l’organo giurisdizionale investito del ricorso contro l’ordine europeo di indagine che dispone tale trasmissione dovrebbe trarne le conseguenze che si impongono in base al diritto nazionale[38]. Ossia, verrebbe da dire, dovrebbe applicare i divieti probatori che, a parità di condizioni, opererebbero in casi interni analoghi.

Si deve però notare che, nei principi di diritto elencati nella parte finale della decisione della Corte di giustizia, queste indicazioni non compaiono, lasciando senza risposta l’interrogativo se, nella visione dei giudici di Lussemburgo, l’inosservanza della lex fori generi un divieto di utilizzare le prove, specie laddove quest’ultimo fosse previsto a livello nazionale[39].

 

8. Il controllo sulle modalità di raccolta delle prove da parte dell’autorità straniera. Si aggiunga che il controllo operato dal giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove, sempre in osservanza dell’onere di allegazione a carico di chi eccepisca una violazione, deve riguardare anche le modalità con cui esse sono state raccolte all’estero, specie laddove queste fossero tali, in ambito nazionale, da originare un divieto probatorio.

Qui viene in gioco un problema connesso alla peculiare natura delle operazioni istruttorie di cui si discute, le quali consistono in sofisticate attività di acquisizione e di decriptazione da svolgere attraverso idonee tecniche informatiche e specifici algoritmi. Il pericolo, se non vengano compiute in modo corretto, è che diano origine ad esiti falsati, e non siano quindi in grado di rappresentare fedelmente il contenuto delle comunicazioni.

Al fine di scongiurare questo rischio, l’ideale sarebbe che la difesa della persona sotto procedimento potesse venire a conoscenza delle modalità di acquisizione delle comunicazioni e, in particolare, degli algoritmi utilizzati per decriptarle. In questo modo, anche attraverso la nomina di consulenti tecnici di parte, si realizzerebbe un pieno contraddittorio di tipo tecnico, prezioso per la corretta valutazione del peso probatorio delle comunicazioni acquisite.

Il problema, tuttavia, è che spesso la trasmissione di tali informazioni da parte delle autorità straniere non avviene[40]: vuoi per esigenze di segretezza dei metodi di indagine impiegati, al fine di non consentire agli esponenti della criminalità di prendere contromisure volte a nascondere le proprie comunicazioni attraverso tecniche informatiche ancora più efficaci; vuoi, addirittura, per esigenze di sicurezza nazionale, magari tali da giustificare l’apposizione del segreto di Stato.

In casi del genere, non ne deriverebbe l’inutilizzabilità delle prove[41]: tale esito non si verificherebbe neppure a livello nazionale, non essendo rinvenibile nel nostro sistema un divieto probatorio volto a sanzionare questo tipo di situazioni. È chiaro, tuttavia, che il contraddittorio ne risulterebbe depotenziato, potendo conseguirne una distorsione dell’accertamento dei fatti[42]. Ed è essenziale che il giudice chiamato ad utilizzare le prove ne sia ben consapevole, in modo tale da andare alla ricerca di adeguati elementi di riscontro alle prove così ottenute.

Le Sezioni Unite, nondimeno, liquidano la questione con troppa disinvoltura, affermando che l’impossibilità per la difesa di conoscere gli algoritmi utilizzati dall’autorità giudiziaria straniera per la decriptazione delle comunicazioni “non determina, almeno in linea di principio, una violazione di diritti fondamentali”. Se è vero, ammette la Corte di cassazione, che la disponibilità di tale algoritmo è “funzionale al controllo di affidabilità del contenuto delle comunicazioni”, deve però osservarsi che “il pericolo di alterazione dei dati non sussiste, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, per cui una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo, anche solo parzialmente”[43].

Tale statuizione, inclusa fra i principi di diritto delle due decisioni della Corte di cassazione, appare criticabile nella sua astrattezza, per quanto non escluda la possibilità della prova contraria. Non è detto che l’intellegibilità delle comunicazioni sia sempre un segno sicuro della correttezza delle tecniche informatiche utilizzate per ottenerle. Tutto dipende dalle specificità di ciascuna situazione concreta; in certi casi, è opportuno che il giudice disponga una perizia al riguardo, in modo tale da rafforzare la propria motivazione in merito al valore delle comunicazioni.

Tanto è vero che la Corte di giustizia, nella sentenza Encrochat, richiede espressamente, ai fini del rispetto del diritto di difesa e delle garanzie del giusto processo, la possibilità per le parti di “svolgere efficacemente le proprie osservazioni” in merito alle prove così ottenute, laddove queste appaiano idonee “ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti”[44].

Tale condizione minimale, che postula un contraddittorio argomentativo sul valore delle prove, è elevata dai giudici di Lussemburgo addirittura a requisito di utilizzabilità[45]. Ma è chiaro che essa potrebbe venire depotenziata laddove il giudice nazionale, applicando rigidamente il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, muova dal preconcetto per cui le comunicazioni, solo perchè risultano comprensibili, non possano per definizione essere state alterate, ed ometta di dare il giusto peso alle considerazioni in senso contrario offerte dalle parti.

 

 

 

[1] Ossia la sentenza Gjuzi e la sentenza Giorgi (29 febbraio-14 giugno 2024). Per un primo commento, v. G. Spangher, Criptofonini: le sentenze delle Sezioni Unite, in giustiziainsieme.it, 20 giugno 2024.

[2] Corte giust., 30 aprile 2024, M.N., C-670/22.

[3] Procedimenti n. 44715/20 e 47930/21.

[4] V., al riguardo, la Memoria presentata dalla Procura Generale della Corte di cassazione ai fini dell’udienza di fronte alle Sezioni Unite, p. 23 s., in sistemapenale.it, 1° marzo 2024.

[5] Considerando 7 e artt. 1 § 1 e 10 § 2 lett. a.

[6] Artt. 2 comma 1 lett. a e 9 comma 5 lett. a.

[7] Nello stesso senso v. già M. Daniele, Ordine europeo di indagine penale e comunicazioni criptate: il caso Sky ECC/Encrochat in attesa delle Sezioni Unite, in sistemapenale.it, 11 dicembre 2023; E. Lorenzetto, L’acquisizione all’estero di comunicazioni digitali criptate nella fucina dell’ordine europeo di indagine penale, in Cass. pen., 2024, p. 182 s.

[8] Sentenza Gjuzi, § 6 s; sentenza Giorgi, § 9 s.

[9] Art. 6 § 1 lett. b direttiva.

[10] Artt. 1 § 4 e 6 § 1 lett. a direttiva; art. 7 d.lgs. n. 108 del 2017.

[11] Relativo alla circolazione delle intercettazioni fra i procedimenti nazionali.

[12] Sentenza Gjuzi, § 9 s.; sentenza Giorgi, § 12 s.

[13] Si vedano gli artt. 267 c.p.p. e 132 comma 3 d.lgs. n. 196 del 2003.

[14] Sentenza Gjuzi, § 9 s., la quale aggiunge che i tabulati, in quanto già acquisiti in un precedente procedimento penale, sarebbero “già a disposizione di un’autorità pubblica”, non ponendosi più, di conseguenza, “la questione dell’autorizzazione all’accesso di un’autorità pubblica” (§ 12.2); sentenza Giorgi, § 12 s. 

[15] Corte giust., M.N., cit., § 69 s.

[16] Art. 14 § 1 e 2 direttiva.

[17] Corte giust., 11 novembre 2021, Gavanozov II, C-852/19.

[18] Sentenza Gjuzi, § 9.4 s.; sentenza Giorgi, § 12.4 s. Nello stesso senso, si veda la Memoria della Procura Generale, cit., p. 35 s.

[19] Sentenza Gjuzi, § 9.4; sentenza Giorgi, § 12.4

[20] Corte giust., Gavanozov II, cit., § 33 s.

[21] L’art. 28 d.lgs. n. 108 del 2017 si limita a prevedere il riesame nei confronti degli ordini europei di sequestro probatorio emessi dal pubblico ministero.

[22] Sentenza Gjuzi, § 7.5 s.; sentenza Giorgi, § 10.5 s. Nello stesso senso, rispetto alle rogatorie, v. Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2010, Mills, n. 15208.

[23] Sentenza Gjuzi, § 12.4; sentenza Giorgi, § 18.5.1.

[24] Ossia organi che, per quanto dotati anche di poteri investigativi, in quel sistema sono indipendenti dal Governo, e possono essere considerati veri e propri giudici. V. la sentenza Giorgi, § 18.5.1.

[25] Sentenza Giorgi, § 15 s., 18.2.

[26] Art. 31 § 3 direttiva.

[27] Art. 24 comma 2 d.lgs. n. 108 del 2017. Così la sentenza Giorgi, § 15.5.2.

[28] Sentenza Gjuzi, § 15.3; sentenza Giorgi, § 18.5.4.

[29] Sentenza Gjuzi, § 13. Di tenore analogo il principio di diritto enunciato dalla sentenza Giorgi, § 16, relativo al caso in cui le comunicazioni fossero state acquisite all’estero tramite intercettazioni.

[30] Considerando 19 della direttiva. V. anche Corte giust., Gavanozov II, cit., § 54.

[31] Sentenza Gjuzi, § 7.6; sentenza Giorgi, § 10.6.

[32] Fra le molte, v. Cass., Sez. II, 18 maggio 2010, n. 24776.

[33] Corte giust., M.N., cit., § 99 e 100. Similmente, v. S. Ragazzi-F. Spiezia, Decifrare, acquisire e utilizzare le comunicazioni criptate in uso alla criminalità organizzata: uno sguardo europeo, in attesa del count-down italiano, in sistemapenale.it, 26 febbraio 2024, f. 2, p. 223 s.

[34] In senso analogo, cfr. F. Nicolicchia, A passi incerti nel solco di categorie evanescenti: riflessioni a partire dalla querelle giurisprudenziale sull’acquisizione di messaggistica criptata dall’estero, in sistemapenale.it., 2024, f. 2, p. 195 s., il quale richiama il principio di “autonoma acquisibilità” di matrice tedesca.

[35] Artt. 271 c.p.p. e 132 comma 3 quater d.lgs. n. 196 del 2003.

[36] Corte giust., M.N., cit., § 88 e 89.

[37] Corte giust., M.N., cit., § 97 e 98.

[38] Corte giust., M.N., cit., § 102 e 103.

[39] Critica giustamente tale ambiguità L. Bernardini, On Encrypted Messages and Clear Verdicts - the EncroChat Case before the Court of Justice (Case C-670/22, MN), in eulawlive.com, 21 maggio 2024.

[40] I casi sottoposti alle Sezioni Unite, sotto questo profilo, non hanno fatto eccezione.

[41] Nel senso, invece, dell’inutilizzabilità v. L. Filippi, Criptofonini SKY-ECC e messaggi criptati: la Corte di cassazione attua i principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite, in penaledp.it, 11 aprile 2024.

[42] Cfr. A. Gaito, Comunicazioni criptate ed esigenze difensive (da Blackberry a Sky-ECC), in archiviopenale.it, 2024, n. 1, p. 3 s.

[43] Sentenza Gjuzi, § 12.4; sentenza Giorgi, § 18.5.3.

[44] Corte giust., M.N., cit., § 105, 130-131.

[45] Cfr. L. Bernardini, On Encrypted Messages, cit., il quale osserva come tale esplicita statuizione rappresenti un passo in avanti rispetto a precedenti più timide affermazioni, emancipandosi dal più cauto approccio adottato sul punto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.