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13 Luglio 2023


Estradizione e diritti fondamentali: due recenti pronunce della Cassazione

Cass., Sez. VI, sent. 26 aprile 2023 (dep. 6 giugno 2023), n. 24348, Pres. Di Stefano, Rel. Paternò Ragusa; Cass., Sez. VI, sent. 1° marzo 2023 (dep. 17 maggio 2023), n. 21125, Pres. Calvanese, Rel. Di Geronimo



*Il presente contributo è pubblicato bel fascicolo n. 7-8/2023.

 

1. Si segnalano due recenti sentenze, emesse a breve distanza di tempo l’una dall’altra, con cui la Cassazione si sofferma sul rapporto tra estradizione, dal lato “passivo” della procedura (artt. 697-719 c.p.p.)[1], e tutela dei diritti fondamentali, lasciandosi guidare dalle fonti sovranazionali e soprattutto dalla giurisprudenza della Corte Edu.

Le pronunce suscitano particolare interesse poiché, pur coinvolgendo Paesi profondamente diversi – rispettivamente, Giordania e Cina – e inserendosi in contesti e vicende differenti, sono legate da un unico filo conduttore: la necessità di accordare prevalenza alle garanzie della persona, di cui è richiesta la consegna all’estero, rispetto alle istanze di cooperazione sottese alla mutua assistenza giudiziaria.

Per chiarezza espositiva, si ritiene opportuno illustrare separatamente il contenuto delle due sentenze, con l’obiettivo di coglierne i profili di maggiore rilevanza. 

 

2. Con la prima pronuncia indicata in epigrafe[2], i giudici della Sesta Sezione sono chiamati a sindacare la legittimità della decisione, adottata dalla Corte d’appello di Milano, che ha dato seguito alla richiesta del Governo del Regno di Giordania di estradare un cittadino condannato alla pena di tre anni di lavori forzati, per il reato di tratta di esseri umani. Accogliendo le doglianze del ricorrente, il quale deduceva il contrasto con l’art. 4 § 2 Cedu – che proibisce la sottoposizione a lavori forzati – e con l’art. 705 co. 2 lett. b) e c) c.p.p., relativo ad alcune condizioni preclusive della consegna, la Cassazione osserva come la Corte territoriale abbia omesso di svolgere qualsiasi indagine sull’effettiva natura dei lavori forzati, invero da ritenersi indispensabile «al fine di escludere che gli stessi si sostanzino in un trattamento destinato a violare i diritti fondamentali della persona»[3]. In particolare, rileva la S.C., la Corte d’appello si è limitata a recepire le informazioni, considerate comunque insufficienti, provenienti dall’autorità giordana, la quale avrebbe assicurato che il contenuto della pena irrogata sarebbe stato modulato in ragione dell’età e dello stato di salute del condannato, senza però fornire ulteriori dettagli. Di conseguenza, il provvedimento che ha acconsentito alla consegna a fini esecutivi risulta inficiato nella sua parte motivazionale, considerata inadeguata e al limite dell’apparenza[4].

Se è infatti vero che l’art. 4 § 3 Cedu sottrae al divieto di lavori forzati od obbligatori, previsto dalla medesima norma, «il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta», si dà atto tuttavia che tale nozione è priva di un significato preciso e univoco a livello sovranazionale. Spetta, pertanto, alle autorità giudiziarie degli Stati membri del Consiglio d’Europa tracciarne i confini e accertare in concreto le caratteristiche della prestazione lavorativa che assurge a pena, valorizzando alcuni criteri individuati dalla Corte Edu[5], quali gli orari e la natura delle mansioni da svolgere, nonché l’età e le condizioni di salute del condannato.

Alla stregua di tali premesse, la Cassazione annulla con rinvio la decisione della Corte milanese, invitando a compiere i dovuti accertamenti sulla natura e sui contenuti della pena inflitta all’estradando[6] onde verificare, in concreto, che il lavoro obbligatorio che gli sarebbe imposto al suo rientro in Giordania «risulti comunque imprescindibilmente pervaso da istanze rieducative e orientato alla reintegrazione sociale del condannato»[7], in ossequio a quanto previsto dall’art. 27 co. 3 Cost.

 

3. Più dirompenti appaiono gli effetti che potrebbero discendere, sul piano nazionale, dalla seconda pronuncia sopra citata[8], che richiama e si conforma a un’importante sentenza, Liu c. Polonia, riguardante un cittadino cinese indagato per reati ordinari, con cui la Corte di Strasburgo ha scosso il terreno della cooperazione giudiziaria penale tra gli Stati del Consiglio d’Europa e la Cina[9].

Sulla scia di questa pronuncia, la S.C. annulla, questa volta senza rinvio, il provvedimento con cui la Corte d’appello di Ancona aveva accolto la richiesta dell’autorità cinese di disporre la consegna di una persona ritenuta responsabile del reato di «assorbimento illecito di depositi pubblici», per il quale è prevista una pena detentiva peraltro non determinata nel massimo edittale. Si ravvisa, infatti, il concreto rischio, evidentemente sottovalutato dalla Corte territoriale, «di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti nel caso in cui la ricorrente fosse consegnata e sottoposta al regime detentivo in Cina», desumibile in particolare dagli atti sovranazionali, puntualmente riportati dalla pronuncia recentemente resa dalla Corte Edu, attestanti le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani «all’interno del circuito penitenziario cinese», nonché «il tollerato ricorso a forme di tortura»[10].

L’impianto motivazionale della sentenza di annullamento della S.C. si erge infatti – e questo la rende peculiare – su molteplici fonti sovranazionali (tra cui le osservazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, i rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch, il più recente rapporto di Freedom House del 2022), già ampiamente prese in considerazione – come anticipato – dalla Corte di Strasburgo, che fotografano un’allarmante situazione carceraria in Cina, in cui l’uso abituale di maltrattamenti e tortura come strumento per estorcere confessioni dagli imputati rappresenta una pratica «ancora profondamente radicata nel sistema di giustizia penale»[11].

Da tali atti sono inoltre emerse l’opacità e l’inattendibilità delle (scarse) informazioni messe a disposizione dalle autorità cinesi, non inclini alla collaborazione e alla condivisione con le autorità estere.

Un altro dato estremamente preoccupante che si evidenzia attiene alla mancata ratifica del Protocollo addizionale alla Convenzione della Nazioni Unite contro la tortura, cui la Cina ha aderito, con la conseguenza, da un lato, di impedire regolari controlli in loco da parte di organismi indipendenti e, dall’altro, di precludere il ricorso a forme di protezione internazionale ai detenuti che lamentino una violazione dei diritti umani[12].

 

4. Proprio sulla base della cospicua documentazione internazionale sulle condizioni di detenzione in Cina, la Corte di Strasburgo, nella già citata sentenza Liu c. Polonia, ha esonerato il ricorrente dall’onere di provare il pericolo, individuale e concreto, di subire, se estradato, tortura e maltrattamenti, essendo sufficiente accertare che egli fosse destinato a espiare la pena presso un istituto penitenziario del Paese. È stata, in altri termini, superata la necessità di dimostrare la sussistenza di un pregiudizio esclusivamente relativo alla sfera individuale dell’estradando.

Alle medesime conclusioni cui sono giunti i giudici europei perviene, come si anticipava, la Cassazione, la quale afferma che le «criticità» che affliggono il sistema di giustizia e di esecuzione penale cinese «costituiscono di per sé un motivo ostativo alla consegna»[13]. Del resto, precisa la Sesta Sezione, «le carenze evidenziate dalla Corte Edu in ordine al rispetto dei diritti umani hanno una valenza sistemica e, quindi, [sono] valevoli anche nei confronti di altri soggetti di cui si richieda l’estradizione in Cina». Pertanto, le argomentazioni che sorreggono la pronuncia sovranazionale «s[o]no pienamente valide anche nel procedimento in esame, stante la loro portata generale»[14].

Nel caso di specie, il rimprovero che la S.C. muove alla Corte d’appello consiste nel non aver adeguatamente valorizzato i plurimi atti internazionali, pur richiamati dalla difesa della ricorrente, e nell’essersi accontentata delle generiche rassicurazioni fornite dall’autorità richiedente, risoltesi nella «mera allegazione del corpus normativo astrattamente idoneo a fungere da garanzia avverso il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti e di per sé insufficiente in assenza, in concreto, dell’accertata effettività di tali forme di tutela e prevenzione»[15]. I giudici chiamati a decidere sulla domanda di estradizione avrebbero, al contrario, dovuto svolgere «un’indagine mirata», «da compiersi utilizzando elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente»[16].

Nondimeno, l’esito della vicenda, rappresentato dall’annullamento senza rinvio, si giustifica alla luce della comprovata impossibilità di ottenere ulteriori informazioni dall’autorità richiedente, già peraltro sollecitate invano dalla Corte d’appello, in grado di sgretolare il fondato motivo di ritenere che la ricorrente, una volta estradata, sia esposta al rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali

 

***

 

5. Le pronunce, sin qui brevemente ricostruite, rivelano un approccio fortemente garantista, da accogliere con favore in quanto perfettamente in linea con il dettato normativo che, in particolare agli artt. 698 co. 1 e 705 co. 2 c.p.p., impone di rifiutare l’estradizione a fronte del pericolo concreto che le garanzie fondamentali della persona siano messe a repentaglio nello Stato di destinazione. L’insegnamento che se ne può trarre è che, al cospetto dell’accertata inosservanza dei diritti fondamentali, l’autorità richiesta della cooperazione non dovrebbe esitare a opporre il proprio diniego, superando il timore di alterare l’equilibrio dei rapporti con lo Stato estero e di andare incontro, a sua volta, al rigetto di un’eventuale richiesta di collaborazione “a parti invertite”. Occorre, in definitiva, arginare prassi rispondenti alla logica utilitaristica del do ut des, pronte ad assecondare le altrui pretese, ma indifferenti ai risvolti negativi che ne derivano sul piano delle garanzie delle persone coinvolte.

Si auspica, dunque, che questo spirito possa pervadere i futuri approdi giurisprudenziali nel contesto della cooperazione giudiziaria in materia penale: non soltanto nel campo dell’estradizione e, più in generale, della mutua assistenza, ma anche in quello governato dal principio del mutuo riconoscimento (art. 82 TFUE), entro i confini euro-unitari.

 

 

Il presente contributo è stato realizzato nell’ambito dell’attività di ricerca finanziata da una borsa di studio della Fondazione F.lli Confalonieri

 

 

 

[1] Sull’argomento, v. M Chiavario - A. Perduca, Cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, Giappichelli, Torino, 2022, p. 33 ss.; M.R. Marchetti, L’estradizione, in M.R. Marchetti - E. Selvaggi (a cura di), La nuova cooperazione giudiziaria penale, Wolters Kluver Cedam, Milano Padova, 2019, p. 23 ss.; G. Ranaldi, Il procedimento di estradizione passiva, Utet Giuridica, Torino, 2012. Per le novità apportate dal d.lgs. 3 ottobre 2017, n. 149, cfr. S. Marcolini, Le modifiche in tema di estradizione, in F. Ruggieri (a cura di), Processo penale e regole europee, vol. II, Giappichelli, Torino, 2018, p. 108 ss.

[2] Cfr. Cass., Sez. VI, sent. 26 aprile 2023 (dep. 6 giugno 2023), n. 24348.

[3] V. § 3.1 della sentenza.

[4] V. § 3.2 della sentenza.

[5] V., in particolare, C. eur. dir. uomo, Sez. III, 9 febbraio 2016, Meier c. Svizzera, § 62 ss. Non si è invece attribuito rilievo alla mancata remunerazione della prestazione lavorativa svolta durante il periodo di detenzione. A questo proposito, v. C. eur. dir. uomo, Sez. III, 12 marzo 2013, Floroiu c. Romania, § 33, nonché Sez. IV, 9 ottobre 2012, Zhelyazkov c. Bulgaria, § 36.

[6] Cfr. Cass., Sez. VI, 30 gennaio 2020 (dep. 30 marzo 2020), n. 8618, Pres. Costanzo, Rel. Calvanese. In quell’occasione, nell’ambito di una vicenda originata dalla domanda di estradizione avanzata dalla Russia, finalizzata a sottoporre il condannato alla pena dei lavori forzati e indirizzata alla Corte d’appello di Milano, si è affermato che «ai fini dell'accertamento della condizione ostativa prevista dall'art. 698 co. 1 c.p.p., la Corte di appello è tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, al di là della sua denominazione formale, consista effettivamente in un trattamento che violi i diritti fondamentali della persona».

[7] Cfr. § 3.4 della sentenza.

[8] Cfr. Cass., Sez. VI, sent. 1 marzo 2023 (dep. 17 maggio 2023), n. 21125.

[9] V. C. eur. dir. uomo, Sez. I, 6 ottobre 2022, Liu c. Polonia, che ha ravvisato la violazione degli artt. 3 e 5 § 1 Cedu.

[10] V. § 3 della sentenza.

[11] Cfr. § 2.1 della sentenza.

[12] A sostegno delle proprie argomentazioni, la S.C. evoca anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 5 maggio 2022, che riporta numerose e preoccupanti segnalazioni relative all’espianto coatto di organi ai danni di detenuti in Cina.

[13] V. § 3 della sentenza.

[14] V. § 2 della sentenza.

[15] Cfr. § 2.3 della sentenza.

[16] Cfr. Cass., sez. VI, 30 marzo 2022 (dep. 5 maggio 2022), Pres. Ricciarelli, Rel. De Amicis, ove si è precisato che «l’autorità giudiziaria dello Stato richiesto, anche in mancanza di allegazioni difensive, in conformità all’art. 4 CDFUE, è tenuta a verificare, in base ad elementi oggettivi ed aggiornati, l’affidabilità della garanzia proveniente dallo Stato richiedente [nel caso di specie, la Russia] circa il rispetto degli standard convenzionali relativi al trattamento dei detenuti durante l’intero percorso rieducativo seguito negli istituti penitenziari».