Cass., Sez. VI, 21 novembre 2024 (dep. 26 novembre 2024), n. 42987, Pres. De Amicis, Rel. Villoni
*Contributo pubblicato nel fascicolo 4/2025.
Frustra fit per plura quod fiieri potest per pauciora. «È inutile fare con più ciò che si può fare con meno»: può sintetizzarsi così il “rasoio di Occam”, un principio metodologico che, tra più soluzioni ad un problema, suggerisce di percorrere quella più semplice e meno dispendiosa di risorse.
1. Quale strumento di cooperazione deve adottare l’autorità giudiziaria di uno Stato dell’Unione che necessiti della presenza di una persona indagata o imputata in un procedimento penale la quale, al momento della richiesta, si trovi nel territorio di un altro Stato membro? Il mandato d’arresto europeo c.d. “processuale” oppure l’ordine europeo d’indagine penale? [1]
Tale quesito, in apparenza di semplice soluzione, lungi dal sollevare una questione puramente teorica o classificatoria, è ricco di implicazioni pratiche e rappresenta soltanto la punta dell’iceberg della profonda tensione tra le esigenze di celerità e semplificazione connesse all’attuazione del principio del mutuo riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali, leitmotiv della cooperazione giudiziaria europea in materia penale[2]. Ed è proprio da questa domanda che origina la vicenda culminata con la sentenza indicata in epigrafe: una sentenza che, prendendo le distanze da alcune pronunce di poco precedenti, strizza l’occhio al riconoscimento reciproco dei provvedimenti giudiziari (artt. 82 TFUE e 696-bis ss. c.p.p.), architrave del sistema di cooperazione interstatuale, a scapito dell’osservanza del principio di proporzionalità e, inevitabilmente, della salvaguardia della libertà personale.
2. All’interno dello spazio giuridico europeo, la scelta se avvalersi dell’uno o dell’altro strumento dipende invero unicamente dalla finalità che sorregge l’istanza di trasferimento di una persona da uno Stato all’altro.
Come noto, e come può agevolmente ricavarsi dalla definizione fornita dall’art. 1 DQ 2002/584/GAI, attuata in Italia con legge n. 69/2005, il mandato d’arresto europeo (d’ora in avanti, m.a.e.), al pari dell’estradizione, è preordinato all’arresto o alla consegna di una persona al fine di esercitare nei suoi confronti l’azione penale (m.a.e. c.d. “processuale”, che interessa ai nostri fini) ovvero di eseguire una pena o una misura di sicurezza restrittiva della libertà personale (m.a.e. c.d. “esecutivo”). L’ordine europeo d’indagine (di seguito, o.e.i.) – regolato dalla direttiva 2014/41/UE, recepita a livello interno attraverso il d.lgs. n. 108/2017 – mira, invece, all’acquisizione della prova al di fuori dei confini nazionali e, tra le varie attività lato sensu probatorie in esso ricomprese, consente il trasferimento temporaneo di una persona detenuta «ai fini del compimento di un atto d’indagine» (artt. 22 e 23 Dir.) quale, ad esempio, l’interrogatorio o il confronto.
Mediante l’o.e.i. si può altresì disporre l’audizione in videoconferenza dell’indagato o imputato (art. 24 § 2 Dir.), in luogo del suo trasferimento ultra fines, alternativa da prediligere, ove possibile, in nome del principio del minor sacrificio non solo (e soprattutto) della libertà personale, ma anche dei costi legati alla consegna, di regola a carico dello Stato di esecuzione (art. 21 Dir.).
Si comprende, dunque, l’importanza della distinzione tra purpose of prosecution, caratteristico del m.a.e. c.d. “processuale”, e purpose of evidence gathering, che connota l’o.e.i., rimarcata da Eurojust in un report del 2020 che affronta le incertezze emerse dalle prime esperienze applicative dell’ordine investigativo nel tentativo di diffondere alcune best practices[3].
Peraltro, già il considerando n. 25 della direttiva del 2014, poc’anzi citata, suggerisce del resto l’utilizzo del m.a.e., anziché dell’o.e.i., nel caso in cui la persona «debba essere trasferita in un altro Stato membro ai fini di un procedimento penale, anche per comparire dinanzi a un organo giurisdizionale per essere processata»; mentre il successivo considerando n. 26, accennando al tema della proporzionalità, su cui si tornerà nel prosieguo, invita l’autorità di emissione a valutare con attenzione se la presenza fisica del detenuto possa essere ottenuta mediante un o.e.i. (o se, addirittura, possa essere del tutto evitata ricorrendo all’audizione a distanza), onde «garantire un uso proporzionato del m.a.e.» che, in quanto strumento maggiormente coercitivo, dovrebbe rappresentare l’extrema ratio.
Anche il manuale sull’emissione ed esecuzione del m.a.e., elaborato dalla Commissione, sottolinea che, «considerate le gravi conseguenze dell'esecuzione di un m.a.e. sulla libertà del ricercato e le restrizioni alla sua libertà di movimento, le autorità giudiziarie emittenti dovranno valutare una pluralità fattori al fine di determinare se l'emissione del m.a.e. sia giustificata» e che «lo scopo del m.a.e. non è il trasferimento di persone affinché siano semplicemente sentite in quanto indagate»[4]: tale finalità, infatti, deve essere soddisfatta mediante l’impiego dell’o.e.i., concepito proprio per offrire alle autorità un’alternativa meno intrusiva del m.a.e., qualora la consegna sia diretta a «raccogliere elementi di prova».
Le distinte funzioni dei due strumenti sono state inoltre ribadite in occasione di una pronuncia con cui la Corte di giustizia[5], seppure ad altri fini, ha posto l’accento sul minor grado di compressione della libertà personale che il compimento degli atti indicati nell’o.e.i. determina rispetto all’esecuzione del m.a.e.
Più di recente, i giudici di Lussemburgo[6], chiamati a definire i contorni applicativi dell’o.e.i., hanno in definitiva chiarito che «una decisione con la quale un’autorità giudiziaria di uno Stato membro richieda (…) di collocare una persona in custodia cautelare per fini diversi da quelli previsti agli articoli 22 e 23» – relativi al trasferimento temporaneo di detenuti «ai fini del compimento di un atto d’indagine» – esula dalla sfera operativa della direttiva del 2014.
Sulla base di quanto esposto, si può allora con certezza affermare, rispondendo così al quesito iniziale, che 1) il trasferimento del detenuto mediante o.e.i. si contraddistingue per la sua finalità probatoria e, di riflesso, che 2) l’emissione di un m.a.e. non può essere giustificata da esigenze esclusivamente investigative.
3. Se, a questo punto, la linea di confine tra o.e.i. e m.a.e. c.d. “processuale” appare nitida, perlomeno in linea teorica, la prassi applicativa rivela tuttavia che, nella prospettiva dell’autorità destinataria della richiesta, la conoscenza dello scopo per cui l’autorità straniera intende ottenere la presenza di una determinata persona sul proprio territorio non sempre è agevole e immediata.
La «obiettiva incertezza» circa le ragioni poste a fondamento di un m.a.e., spesso imprecise o del tutto omesse, costituisce il punto di partenza che accomuna diverse pronunce con cui la Corte di cassazione, facendo leva sulla definizione legislativa del m.a.e. e sul contenuto dei consideranda nn. 25 e 26 della direttiva o.e.i., ha escluso che il m.a.e. possa perseguire finalità «investigative, disancorate dall’esercizio dell’azione penale», essendo a tale scopo previsti «strumenti alternativi», in specie l’o.e.i.[7]
A fronte di una motivazione carente sul punto, la sola via che, ad avviso della Corte, permette all’autorità di valutare la correttezza giuridica dello strumento di cooperazione prescelto dall’autorità estera – e quindi la sua proporzionalità rispetto alle finalità avute di mira – consiste nel formulare una richiesta di informazioni integrative ex art. 16 l. 69/2005, al fine di appurare se il trasferimento sia funzionale al compimento di atti istruttori specifici ovvero ad assicurare la comparizione personale dell’imputato dinnanzi all’autorità giurisdizionale nel processo a suo carico.
La possibilità di attivare le consultazioni con il precipuo intento di colmare il deficit motivazionale originario, accordata a livello normativo e sollecitata dalla giurisprudenza ora richiamata, apre uno spiraglio a favore di un controllo sulla proporzionalità del m.a.e. da parte dell’autorità richiesta della consegna, sulla scia di quanto già previsto nell’ambito della disciplina relativa all’o.e.i., di cui si dirà a breve.
4. Nondimeno, il timore che il sindacato sulla proporzionalità rischi di trasformarsi in un’indebita ingerenza nella sfera dei poteri decisionali dell’autorità richiedente e di provocare il rifiuto dell’esecuzione, ponendo un freno al funzionamento del mutuo riconoscimento, ha determinato una battuta d’arresto nella Sesta sezione della Cassazione.
Come si anticipava, con una recente pronuncia (n. 42987 del 2024) è stato rigettato il ricorso presentato dalla difesa dell’imputato contro la sentenza con cui la Corte d’appello di Venezia aveva dato seguito alla richiesta di consegna avanzata dal Tribunale di Anversa, lamentando in particolare la violazione del principio di proporzionalità da parte dell’autorità belga derivante dall’omessa indicazione delle ragioni che avrebbero legittimato l’emissione del m.a.e.
Se in base al filone interpretativo che sembrava in via di consolidamento le censure mosse dal ricorrente avrebbero verosimilmente comportato un annullamento con rinvio per consentire al giudice di merito di ottenere ulteriori informazioni e verificare così se la richiesta di consegna fosse sorretta da finalità processuali ovvero meramente istruttorie, nel caso di specie la Corte ha adottato un approccio differente.
Nello specifico, due sono i passaggi argomentativi che esauriscono l’impianto motivazionale della sentenza de qua.
In primo luogo, si rileva che l’esternazione delle ragioni a sostegno della richiesta di trasferimento di una persona non è imposta a livello normativo e che l’ingresso dell’o.e.i. sul panorama della cooperazione giudiziaria, «per quanto ponga in astratto e in alcuni limitati casi in concreto il tema dell’uso proporzionale dell’euromandato», non ha modificato le condizioni di emissione del m.a.e.
In secondo luogo, a supporto della valutazione di infondatezza del ricorso, si sostiene che «non compete allo Stato di esecuzione la verifica della necessità o meno della presenza della persona richiesta al processo in corso di svolgimento nei suoi confronti davanti all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, perché, altrimenti opinando, verrebbe minato alla base il principio del mutuo riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali».
Questa affermazione coglie nel segno, in termini essenziali, la problematica che affligge i moderni strumenti di cooperazione nello spazio euro-unitario e scoperchia il vaso di pandora, portando alla luce le complesse e delicate tematiche relative alla insindacabilità del “merito” dei provvedimenti giurisdizionali stranieri e al vaglio sulla proporzionalità, quale strada che conduce ad apprestare effettiva tutela alle garanzie fondamentali inerenti alla persona, spesso oscurate dalle istanze efficientiste legate al mutuo riconoscimento.
5. Le argomentazioni con cui la Corte perviene al rigetto del ricorso non paiono condivisibili in ragione delle osservazioni di seguito illustrate.
Occorre anzitutto prendere atto che se è vero che né la disciplina sul m.a.e. né quella in materia di o.e.i. incaricano l’autorità richiedente dell’onere motivazionale, nell’ottica di implementare il favor cooperationis, nulla però impedisce di esporre le ragioni per cui si è interessati alla consegna. Anzi, è proprio l’astratta previsione di due strumenti alternativi e idonei a realizzare il medesimo risultato – il trasferimento di una persona da uno Stato all’altro – che dovrebbe incentivare l’autorità ad esternare, in modo pur conciso, le finalità che intende perseguire con tale richiesta, evitando che una mancanza motivazionale sia avvertita come spia di sproporzionalità.
Del resto, qualsiasi decisione che opti per l’adozione di una misura coercitiva in luogo dell’alternativa meno lesiva deve essere motivata, e ciò non può che valere anche quando la scelta ricade sul m.a.e., anziché sull’o.e.i. A tal proposito, è da notare che, nel contesto della disciplina dell’ordine investigativo, l’autorità che richiede il trasferimento del detenuto allo scopo, ad esempio, di effettuare un interrogatorio è tenuta a spiegare le ragioni per cui non ritiene di procedervi mediante audizione da remoto: lo impone il principio di proporzionalità, cardine del sistema giuridico europeo[8] ed elevato a condizione di legittimità dell’o.e.i. (art. 6 § 2 Dir.), da ritenersi non integrata qualora «dalla sua esecuzione p[ossa] derivare un sacrificio ai diritti e alle libertà dell’imputato (…) non giustificato dalle esigenze investigative o probatorie del caso concreto, tenuto conto della gravità dei reati per i quali si procede e della pena per essi prevista» (art. 7 D.lgs. 108/2017)[9].
Per ciò che concerne l’asserzione, per vero alquanto lapidaria, secondo cui le condizioni di emissione del m.a.e. non hanno risentito dell’avvento dell’o.e.i., è evidente che tale affermazione, oltre a essere smentita dalla prassi che – come dimostra il caso in esame – si è più volte confrontata con la questione legata ai rapporti tra i due strumenti, appare contraria tanto al dato normativo, quanto alla volontà del legislatore sovranazionale: l’ampliamento del ventaglio degli strumenti di cooperazione conseguente alla creazione dell’o.e.i. e l’espressa previsione del requisito della proporzionalità all’interno della disciplina di quest’ultimo sono state dettate anche dalla necessità di scoraggiare un utilizzo smisurato (sproporzionato, per l’appunto) di uno strumento di forte impatto sulla libertà personale, quale il m.a.e., spesso impiegato in relazione a procedimenti per reati di scarsa gravità[10]. A ritener diversamente, sarebbe stato sufficiente un unico strumento per conseguire entrambi gli obiettivi (processuali e probatori) e la distinzione tra purpose of prosecution e purpose of evidence gathering non avrebbe senso di essere tracciata.
Perché, dunque, legittimare l’utilizzo ostinato di uno strumento preesistente, più invasivo, nonostante sia stata appositamente escogitata un’alternativa per soddisfare esigenze squisitamente probatorie?
6. Restando sul terreno della proporzionalità, bisogna poi rilevare che quando l’autorità di esecuzione dell’o.e.i. ravvisa il mancato rispetto del canone di proporzione può (e dovrebbe) consultare l’autorità di emissione (artt. 6 § 3 Dir. e 6 co. 2 d.lgs.), «la quale può decidere di ritirare o integrare l’o.e.i.» (art. 10 § 4 Dir. e 6 co. 3 d.lgs.), ovvero – il che è più auspicabile – di ricorrere al compimento di un atto alternativo, anche su suggerimento dell’autorità di esecuzione, in grado di assicurare «lo stesso risultato dell'atto richiesto nell’o.e.i. [ma] con mezzi meno intrusivi» (art. 10 §§ 3, 4 Dir. e 9 co. 2 d.lgs.): è il caso, ad esempio, dell’ordine di esibizione in luogo della perquisizione locale o dell’audizione in videoconferenza in sostituzione del trasferimento temporaneo della persona.
Dalla ricostruzione del quadro normativo si evince, dunque, che il sindacato sulla proporzionalità da parte dell’autorità di esecuzione, lungi dall’assumere il ruolo di antagonista del mutuo riconoscimento, stimola le autorità coinvolte nelle procedure di cooperazione al confronto reciproco, guidate dall’obiettivo comune di approdare a una soluzione condivisa, che sia al contempo idonea a salvaguardare i diritti fondamentali della persona interessata[11].
La duplicazione del controllo sulla proporzionalità dell’o.e.i. – che in prima battuta spetta all’autorità emittente e successivamente a quella di esecuzione – deve a fortiori ritenersi applicabile anche al m.a.e., trattandosi di uno strumento coercitivo ben più invasivo del primo.
Trasferendo il discorso sul piano pratico, l’autorità destinataria di un m.a.e., qualora non disponga di elementi sufficienti per prendere una decisione, dovrebbe domandare informazioni ulteriori o disporre accertamenti integrativi, come espressamente consentito dall’art. 16 l. 69/2005, e, nel caso in cui si renda conto che la richiesta di consegna è diretta unicamente allo svolgimento di attività istruttoria, dovrebbe comunicare all’autorità estera che lo strumento più appropriato, o meglio più proporzionato, al caso concreto è l’o.e.i.
La Corte, tuttavia, nega la configurabilità di questo secondo passaggio, ravvisandovi un ostacolo nella insindacabilità, da parte del giudice dello Stato di esecuzione, delle ragioni poste a fondamento dell’emissione del m.a.e. Si ritiene, infatti, che le questioni sollevate dalla difesa – ossia la violazione del principio di proporzionalità “a monte” della procedura – siano «semplicemente improponibili», potendo essere conosciute soltanto dall’autorità giudiziaria dello Stato di emissione.
Il riferimento, benché implicito, è rivolto al “merito” del provvedimento emesso dall’autorità straniera, da identificarsi con l’insieme dei presupposti dell’atto regolati, sul piano interno, dalla lex fori e la cui osservanza è presidiata da apposite sanzioni processuali[12]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla valutazione in ordine alla sussistenza di gravi indizi di reato quale requisito per l’autorizzazione delle operazioni di intercettazione o alla presenza di esigenze cautelari per disporre una misura cautelare personale.
Nel sistema della cooperazione giudiziaria alimentato dal mutuo riconoscimento è pacifico che il sindacato giurisdizionale incontri un preciso limite nel merito del provvedimento: è questo un portato della fiducia reciproca che gli Stati membri nutrono nei rispettivi ordinamenti giuridici, sviluppata dalla condivisione di valori quali il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani[13].
Nondimeno, come può leggersi nel considerando n. 19 della direttiva o.e.i., la conformità degli ordinamenti di ciascuno Stato membro ai diritti fondamentali, che funge, come si è detto, da presupposto della reciproca fiducia, è oggetto di una presunzione soltanto relativa, come tale superabile in concreto. Per questo motivo, l’insindacabilità delle “ragioni di merito” del provvedimento è soppesata dalla presenza di clausola di salvaguardia che consente all’autorità di verificare, caso per caso, l’effettivo rispetto dei principi fondamentali che delineano il volto dello Stato, tra cui rientra, nella prospettiva italiana, l’inviolabilità della libertà personale ex art. 13 Cost.
A livello generale, la clausola di salvezza è contemplata espressamente dagli artt. 696-quinquies («l’autorità giudiziaria riconosce ed esegue le decisioni e i provvedimenti giudiziari degli altri Stati membri senza sindacarne le ragioni di merito (…). È in ogni caso assicurato il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato») e 696-nonies co. 3 c.p.p. («non è ammessa l’impugnazione per motivi di merito, salvo quanto previsto dall’art. 696-quinquies c.p.p.», il cui raggio applicativo si estende a tutti gli strumenti di cooperazione europea animati dal principio del riconoscimento reciproco.
Una disposizione analoga è poi contenuta nell’art. 14 § 2 della direttiva o.e.i., ove si specifica che «le ragioni di merito dell'emissione dell'o.e.i. possono essere impugnate soltanto mediante un'azione introdotta nello Stato di emissione, fatte salve le garanzie dei diritti fondamentali nello Stato di esecuzione». Nell’ambito della disciplina del m.a.e., invece, un sicuro appiglio normativo è dato dall’art. 2 l. 69/2005 nella versione modificata dal d.lgs. 10/2021[14], secondo cui «l'esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell'ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione (…)».
È chiaro, allora, che una cosa è il merito del provvedimento, definito nei termini di cui sopra, la cui insindacabilità non è in discussione; altro è il fondato e serio sospetto che l’esecuzione della richiesta di consegna si traduca in una violazione dei diritti fondamentali della persona. In altri termini, la proporzionalità del provvedimento non può considerarsi parte del “merito” ed essere così sottratta al sindacato giurisdizionale. Il controllo sulla proporzionalità, quale strumento che consente di accertare se la compressione della libertà personale sia o meno legittima nel caso concreto, deve poter essere esercitato (anche) dall’autorità di esecuzione[15]. L’esito di tale controllo – preme ribadirlo – non coincide necessariamente con il diniego dell’exequatur, sintomo di chiusura dell’ordinamento, rappresentando piuttosto l’occasione di apertura a un dialogo proficuo tra le autorità, eventualmente con la mediazione di Eurojust, nell’interesse sia della buona riuscita della cooperazione sia dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali.
7. Alla luce delle riflessioni sin qui svolte, pare dunque che una possibile soluzione risieda nel promuovere un atteggiamento flessibile e collaborativo da parte dell’autorità di esecuzione, che presuppone la condivisione degli elementi posti a fondamento della richiesta di consegna, anche tramite successive interlocuzioni e scambi di informazione. Questo non implica, però, un’acritica adesione alle pretese avanzate dell’autorità estera, incurante degli effetti sfavorevoli che si ripercuotono sulle garanzie fondamentali protette dall’ordinamento di appartenenza.
L’insindacabilità delle ragioni di merito, quale corollario del mutuo riconoscimento, non può spingersi sino a legittimare forme di cooperazione basate su valutazioni superficiali e frettolose: la “reciproca fiducia” non può, in definitiva, dar vita ad automatismi e tramutarsi in una fiducia “a occhi chiusi”, che rischia di rivelarsi un pretesto per evitare di addossare sull’autorità di esecuzione il peso di controlli minuziosi e di alterare l’equilibrio dei rapporti tra le autorità, secondo la logica del do ut des.
[1] Sull’argomento, cfr. O. Calavita, L’ordine europeo di indagine penale. Presente e futuro della cooperazione probatoria nell’Unione europea, Wolters Kluwer Cedam, 2024, p. 321 ss.; A. Marabini, Il m.a.e. c.d. processuale: una lettura tra esigenze di sistema, principi e diritti fondamentali, in Cass. pen., 2024, n. 10, p. 3207 ss.; R. Belfiore, I confini applicativi tra il mandato d’arresto europeo e l’ordine europeo di indagine penale in una pronuncia della Corte di cassazione, in Cass. pen., 2022, n. 12, p. 4419 ss.
[2] A tal proposito, v. E. Lorenzetto, L’ordine europeo di indagine penale: efficienza a garanzie per le acquisizioni probatorie in ambito euro-unitario, in Cass. pen., 2020, n. 3, p. 1302 ss.; R. E. Kostoris, Ordine di investigazione europeo e tutela dei diritti fondamentali, in Cass. pen., 2018, n. 5, p. 1437 ss.; nonché, volendo, C. de Luca, Ordine europeo d’indagine penale e profili impugnatori: recenti orientamenti giurisprudenziali, in L. Camaldo (a cura di), Questioni attuali di giustizia penale europea e internazionale, Torino, Giappichelli, 2024, p. 203 ss.
[3] Si tratta del Report on Eurojust’s casework in the field of the European Investigation Order del novembre 2020, consultabile all’indirizzo www.eurojust.europa.eu.
[4] Cfr. Comunicazione della Commissione - Manuale sull'emissione e l'esecuzione del mandato d'arresto europeo, in G.U.U.E., 6 ottobre 20017, C 335/01.
[5] Cfr. C. giust. UE, Grande Sezione, 8 dicembre 2020, A. e altri, C-584/19. Per un commento, v. G. Borgia, Mandato d’arresto europeo e ordine europeo di indagine penale a confronto: così simili (?), eppure così diversi, in Arch. pen., 2021, n. 1, p. 1 ss.
[6] V. C. giust. UE, Sez. IV, 9 gennaio 2025, AK, C-583/23.
[7] Cfr., in particolare, Cass., Sez. VI, 14 aprile 2022 (dep. 15 aprile 2022), n. 14937; Cass., Sez. VI, 21 febbraio 2023 (dep. 22 febbraio 2023), n. 7861; Cass., Sez. VI, 8 agosto 2023 (dep. 9 agosto 2023), n. 34815; Cass., Sez. VI, 28 maggio 2024 (dep. 29 maggio 2024), n. 21324; Cass., Sez. VI, 20 agosto 2024 (dep. 22 agosto 2024), n. 32999.
[8] V. art. 5 § 4 TUE, artt. 6, 7 e 52 CDFUE e artt. 5, 8 CEDU.
[9] Sui rapporti tra o.e.i. e principio di proporzionalità, v. in particolare M. Daniele, I chiaroscuri dell’OEI e la bussola della proporzionalità, in M. Daniele - R. E. Kostoris (a cura di), L’ordine europeo di indagine penale. Il nuovo volto della raccolta transnazionale delle prove nel d.lgs. n. 108 del 2017, Torino, Giappichelli, 2018, p. 55 ss.
[10] A tal riguardo, v. la Risoluzione del Parlamento europeo del 27 febbraio 2014, recante Raccomandazioni alla Commissione sul riesame del mandato d'arresto europeo, in cui si sollevano preoccupazioni in ordine all’«uso sproporzionato del mandato d'arresto europeo per reati minori o in circostanze in cui potrebbero essere utilizzate alternative meno invasive, il che porta (…) a un'ingerenza sproporzionata con i diritti fondamentali degli imputati».
[11] Sul punto, v. R. E. Kostoris, L’attuazione italiana dell’ordine investigativo europeo, in A. Giarda - F. Giunta - G. Varraso (a cura di), Dai decreti attuativi della legge “Orlando” alle novelle fine legislatura, Wolters Kluwer Cedam, 2018 p. 505. L’A. osserva che, se si accogliesse una diversa soluzione, «bisognerebbe riconoscere che la mancanza di un requisito essenziale dell’o.e.i. come la sua proporzionalità non determini alcuna conseguenza nel caso limite in cui fossero percorribili alternative virtuose, obbligando conseguentemente l’autorità di esecuzione a dar comunque corso all’ordine».
[12] V. E. Lorenzetto, L’assetto delle impugnazioni, in M. Daniele - R. E. Kostoris (a cura di), L’ordine europeo di indagine penale, cit., p. 162.
[13] Così le Conclusioni del Consiglio sul reciproco riconoscimento in materia penale: «Promuovere il riconoscimento reciproco rafforzando la fiducia reciproca», in G.U.U.E., 13 dicembre 2018, C 449/02.
[14] Per una prima analisi della riforma, cfr. M. Bargis, Meglio tardi che mai. Il nuovo volto del recepimento della decisione quadro relativa al m.a.e. nel d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10: una prima lettura, in questa Rivista, 2021, n. 3, p. 63 ss.
[15] In questo senso E. Lorenzetto, L’assetto delle impugnazioni, cit., p. 164.