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27 Maggio 2020


La tempesta emotiva e il giudice cartesiano

Cass., Sez. I, sent. 8 novembre 2019 (dep. 24 gennaio 2020), n. 2962, Pres. Boni, Est. Aliffi



1. Alla ricerca di una nuova razionalità. – A un anno di distanza dall’immenso clamore mediatico suscitato dalla sentenza della Corte d’assise d’appello di Bologna[1] sulla “tempesta emotiva” arriva, in sordina, la pronuncia della Corte di Cassazione che offre uno spunto per riaprire il dibattito, sia pure confinato nell’ambito delle circostanze del reato, sulla rilevanza delle alterazioni emotive nel diritto penale. La Corte annulla la tanto discussa e criticata sentenza, affinché un nuovo giudice di merito possa ristabilire un percorso motivazionale logico e coerente relativo alla concessione (o meno) delle circostanze attenuanti generiche.

Si tratta di un compito che – vale la pena di metterlo subito in rilievo – si prospetta tutt’altro che semplice, in relazione all’aspetto che, in questa sede, si ritiene maggiormente interessante: il rilievo attribuito alla tempesta emotiva. E ciò perché per disinnescare il cortocircuito argomentativo sui rapporti tra alterazioni emotive e colpevolezza, anche solo in relazione alle circostanze del reato, sarebbe quanto meno necessario disporre di linee guida chiare. Chiarezza che purtroppo sembra mancare alla giurisprudenza formatasi sui rapporti tra gelosia e circostanze (aggravanti e attenuanti).

Ancor prima di analizzare le censure della Cassazione nella sentenza qui annotata, sembra opportuno fissare alcune premesse minime, che possono risultare utili per affrontare la questione.

Che gli stati emotivi e passionali possano assumere rilievo nell’ambito della commisurazione della pena costituisce un dato giurisprudenziale acquisito. Questa concezione minimalista dei rapporti tra colpevolezza e sfera emotiva, che marginalizza la rilevanza di quest’ultima nell’individuazione del quantum di pena, fa ormai parte di un consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale la sentenza in commento non si discosta[2]. Anzi: è proprio questo il punto di partenza dell’argomentazione della Corte.

La Cassazione si uniforma ai capisaldi della giurisprudenza circa il significato multiforme e disomogeneo che può essere attribuito alla gelosia. Quest’ultima, ribadisce la Corte, «può essere presa in considerazione dal giudice ai fini della concessione delle attenuanti generiche, soprattutto in presenza di circostanze di natura ambientale e sociale che abbiano influito negativamente sullo sviluppo della personalità del reo»[3].

Per altro verso, la stessa giurisprudenza di legittimità afferma che la gelosia può essere considerata motivo abietto e futile, come ritenuto nel caso di specie, qualora la condotta tenuta sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, che viene considerata come propria appartenenza. L’aggravante potrebbe invece essere esclusa laddove la gelosia, nell’essere collegata a un abnorme desiderio di vita in comune, abbia indotto a gesti del tutto inaspettati e illogici[4].

È questo il trittico sulla gelosia che, in estrema sintesi, fa da sfondo alla sentenza in commento. Una gelosia multiforme e sempre in bilico tra la qualificazione in termini di estremo disvalore, quando la si utilizza per motivare l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 1 c.p., e la valorizzazione nel senso di minore rimproverabilità, quando la gelosia diviene motivo per concedere le attenuanti generiche. Sebbene la questione oggetto di impugnazione fosse esclusivamente relativa alla concessione delle attenuanti generiche, la sentenza annotata sembra condividere questa concezione della gelosia.

Vi è un’ulteriore premessa alla quale pare utile fare cenno perché si tratta di un aspetto che sembra assumere importanza determinante non solo nel dialogo tra le corti, ma anche nella divulgazione del messaggio della sentenza al vasto ed eterogeneo pubblico dei non addetti ai lavori. In questo come in altri casi, l’intero dibattito sulla rilevanza degli stati emotivi e passionali sulla misura della pena sembra (fittiziamente) incentrato su un’unica emozione: la gelosia. In realtà, come si cercherà di mettere in rilievo, questa è una componente (forse neppure la più rilevante) di una situazione emotiva ben più complessa. Ed è proprio questo monopolio distorcente della gelosia che sembra alimentare fraintendimenti e contraddizioni.

 

2. Il giudizio della Cassazione: una decisione d’appello contraddittoria, apodittica e illogica. – A viziare la sentenza d’appello sarebbero, secondo i Giudici di legittimità, la contraddittorietà, l’apoditticità e l’illogicità della motivazione relativa al riconoscimento delle attenuanti generiche. Come si ricorderà, la Corte d’assise d’appello aveva indicato tre diversi elementi a sostegno della propria decisione: sarebbero state le dichiarazioni confessorie dell’imputato a fornire la prova dell’aggravante dei motivi abietti e futili; la soverchiante tempesta emotiva avrebbe inciso sulla condotta dell’imputato; quest’ultimo avrebbe tentato di risarcire i danni.

Le argomentazioni svolte dal giudice d’appello per attribuire rilevanza a questi tre elementi vengono censurate dalla Suprema Corte.

In relazione al primo aspetto, la Corte ritiene che il Giudice di merito non abbia fornito una spiegazione congrua, in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., della rilevanza delle dichiarazioni confessorie per la concessione delle attenuanti generiche. A tal riguardo, la scelta del giudice di merito di attribuire rilievo probatorio a tali dichiarazioni esclusivamente in relazione alla contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p., anziché in riferimento alla responsabilità per l’omicidio, sarebbe incoerente sotto due differenti profili. Non solo il giudizio sul rilevo delle dichiarazioni auto-accusatorie per l’applicazione dell’aggravante sarebbe stato formulato «in termini di mera probabilità» (il giudice di merito aveva, infatti, ritenuto che quest’ultima verosimilmente non sarebbe stata contestata), ma sarebbe contraddetto da elementi probatori indicati dal giudice di primo grado, che avrebbero consentito comunque di contestare l’aggravante prima dell’interrogatorio dell’imputato.

Contraddittorietà e illogicità viziano la motivazione del giudice d’appello anche in relazione al secondo elemento rilevante per la concessione delle attenuanti generiche: la soverchiante tempesta emotiva.

Gli oneri motivazionali da soddisfare in caso di riconoscimento delle attenuanti generiche impongono, come ritiene la Cassazione, un inquadramento dello specifico stato emotivo e passionale all’interno (alternativamente) di due categorie: la gravità del reato e, in particolare, l’elemento psicologico di cui all’art. 133, c. 1 c.p.; oppure la capacità a delinquere qualora la componente emotiva (nel nostro caso la gelosia) abbia influito sul processo motivazionale, «condizionando la capacità dell’imputato di reagire e di controllare i freni inibitori». In questo secondo caso, devono essere doverosamente presi in considerazione anche fattori, come lo stato di ubriachezza, che non sono altrettanto meritevoli di considerazione favorevole.

Secondo la Corte questi oneri motivazionali sarebbero stati violati. Il giudice di merito avrebbe attribuito due significati inconciliabili e contraddittori alla gelosia: espressione di un intento puramente punitivo quando ha motivato l’applicazione dell’aggravante dei motivi abietti e futili e, al contempo, rivelatrice di una soverchiante tempesta emotiva idonea ad attenuare la misura della responsabilità penale. A ciò si aggiunge che la Corte distrettuale avrebbe ignorato le conclusioni del giudice di primo grado, il quale avrebbe invece collegato l’impulso violento ai fumi dell’alcol, anziché alla gelosia.

Per quanto riguarda, invece, il terzo argomento a sostegno della concessione delle attenuanti generiche, ossia il tentativo di risarcimento del danno nei confronti della figlia minore della vittima, la Corte censura l’assertività della motivazione: oltre a non aver chiarito in modo del tutto intellegibile le ragioni che avrebbero reso questo un elemento favorevole ai fini della concessione dell’attenuante, il giudice di merito non avrebbe esplicitato le modalità e la misura del risarcimento, nonché le ragioni della mancata riuscita.

Ricostruiti, in estrema sintesi, i rilievi demolitori della Suprema corte, vale innanzitutto la pena di precisare i limiti tematici di questo commento. Poiché si ritiene che il tema della tempesta emotiva sia l’unico aspetto meritevole di essere approfondito, si tralascerà l’analisi degli altri due elementi posti a fondamento del riconoscimento delle attenuanti generiche, che sono stati, a loro volta, censurati dalla Cassazione.

 

3. Il vizio d’origine: il monopolio della gelosia. – Lo si è già messo in rilievo in apertura: l’intero dibattito è monopolizzato dalla gelosia. Quello della gelosia è un comodo luogo retorico che rischia tuttavia di essere fuorviante, perché non sembra in grado di spiegare, da solo, il vissuto psicologico al quale si vorrebbe attribuire significati, per giunta opposti, in base ai quali misurare la (maggiore o minore) rimproverabilità del fatto. È difficile ritenere che la gelosia possa di per sé essere, al contempo, un motivo abietto e futile e un fattore di minore disvalore soggettivo perché in grado di inquinare i processi cognitivi e decisionali.

In realtà, come emerge dagli scarni passaggi della sentenza impugnata, gli elementi che si potrebbero (o vorrebbero nella prospettiva del giudice d’appello) tenere in considerazione vanno oltre l’asfittico argomento della gelosia, che assume spesso i caratteri della categoria di sintesi rispetto a emozioni, passioni e stati d’animo che la oltrepassano.

Per apprezzare il rilievo complessivo dell’alterazione emotiva e dei suoi effetti, nonché la tenuta dei meccanismi di autocontrollo e dei freni inibitori dell’agente in concreto, vi è un dato che non sembra poter essere completamente trascurato: sebbene gli esperti abbiano escluso la presenza di patologie psichiatriche e di disturbi della personalità, all’imputato era stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento con sintomi ansiosi, per il quale gli era stata prescritta una terapia farmacologica, ed era stato sottoposto a TSO in seguito alla reazione minacciosa nei confronti del personale sanitario che lo aveva soccorso dopo un tentativo di suicidio.

Tenendo conto di questo dato generale, che offre uno sguardo sia pure parziale sulla personalità dell’imputato, occorre considerare che la reazione impulsiva sembra scaturire da diversi fattori ulteriori rispetto alla gelosia. Non solo il timore dell’imputato che la relazione potesse finire, ma anche la riemersione dei precedenti fallimenti relazionali; a ciò si aggiungono l’insicurezza e la fragilità dell’imputato dinanzi alle quali la donna aveva mostrato (comprensibile) insofferenza.

È la relazione del perito chiamato a valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato a mettere in rilievo che «le esperienze di vita potevano aver amplificato il tratto della personalità relativo alla gelosia e alla diffidenza verso le donne e aver rinforzato, nella sua percezione, la paura di un possibile imminente abbandono o tradimento, al punto da doversi far rassicurare da una figura come quella della cartomante». Oltre a questi aspetti, si mette altresì in rilievo che «il gesto omicida era scaturito da una crescente sensazione di impotenza e dall'incapacità di accettare la fine del rapporto [ed] era frutto di uno stato d'animo turbato, tormentato dal dubbio, provato dalle precedenti esperienze di vita e sfociato in una reazione rabbiosa di fronte all'atteggiamento di chiusura della donna»[5].

Che siano questi ultimi fattori (in modo ben più determinante della gelosia) ad aver contribuito a innescare la reazione violenta è suffragato anche da dato cronologico: l’aggressione non avviene a seguito del moto di gelosia derivante dalla ricezione dei messaggi da parte della donna, in relazione ai quali si verificano litigi e ripetuti allontanamenti dall’abitazione della donna; l’omicidio è, invece, immediatamente collegato con il momento in cui si mette in dubbio la prosecuzione della relazione e riemerge il vissuto delle precedenti esperienze relazionali fallimentari dell’imputato.

Insomma: la situazione psicologica dell’imputato pare davvero difficilmente riducibile alla gelosia. Se si attribuisse significato anche all’impotenza, all’insicurezza, alla rabbia, alla fragilità, si potrebbe riconsiderare sotto una luce diversa la contraddittorietà, l’apoditticità e l’illogicità di una motivazione (apparentemente) incentrata solo sulla gelosia, ma che in realtà sta considerando una condizione emotiva ben più frastagliata.

 

4. La rilevanza della gelosia: quando la contraddittorietà è di principio. – A ben vedere, il monopolio della gelosia è stato in qualche modo agevolato dalla contraddittoria elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione. Per un verso, l’argomentazione ha trovato sostegno in precedenti arresti che hanno attribuito significato giuridico alla gelosia in relazione ai reati violenti contro la persona commessi nell’ambito delle relazioni affettive. Per altro verso è la stessa giurisprudenza di legittimità a contenere il germe della contraddizione.

Come accennato in precedenza, il rilievo attribuito alla gelosia rimane in sospeso tra motivi abietti e futili e attenuanti generiche. In relazione ai primi si fa una distinzione di dubbia solidità e capacità selettiva. La giurisprudenza differenzia i casi in cui la gelosia è espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima che viene considerata come propria appartenenza, da quelli in cui la gelosia è invece collegata a un abnorme desiderio di vita in comune. Solo nel primo caso saremmo nell’ambito dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 1 c.p.

Questa differenziazione non può che sollevare qualche perplessità. Pare, innanzitutto, difficile ritenere compatibile la gelosia collegata a un abnorme desiderio di vita in comune con la volontaria causazione della morte della persona con la quale si vorrebbe condividere l’esistenza. L’atto vanifica e contraddice un desiderio peraltro difficilmente ricostruibile sul piano probatorio. Poco dirimente sembra il riferimento allo spirito punitivo che è inestricabilmente legato alla commissione, per gelosia, del reato nei confronti della persona alla quale si è legati da una relazione affettiva. Altrettanto scarsamente selettivo è il parametro del senso di appartenenza dell’altra persona, perché la gelosia pare implicare un’affermazione di possesso e la reificazione della persona per la quale la si nutre. Di più: l’abnorme desiderio di vita comune è strettamente legato all’idea che l’altro ci appartenga.

In tal modo questa distinzione finisce, nella stragrande maggioranza dei casi, per confermare, anziché confutare, la sussistenza dell’aggravante dei motivi abietti e futili. Ed allora, in questa prospettiva, gelosia e motivo abietto e futile finiscono per combaciare quasi perfettamente, lasciando spazi davvero esigui per argomentare coerentemente e logicamente un apprezzamento della gelosia in chiave di attenuazione della colpevolezza per il fatto.

Gli standard di razionalità richiesti dalla Corte nella sentenza in commento, che vengono utilizzati per scardinare la motivazione del giudice di merito, soffrono limiti di coerenza interni alle stesse indicazioni che dovrebbero guidare il giudizio. Il giudice d’appello è rimasto imprigionato in questa rete di segnali discordanti e forse, nel rendersene conto, è andato alla ricerca di elementi ulteriori a sostegno del riconoscimento delle attenuanti generiche. Come spesso accade in questi casi, la moltiplicazione degli argomenti finisce per produrre effetti controproducenti: anziché rafforzare la tesi sostenuta, si acuisce il dubbio circa la debolezza degli argomenti utilizzati.

A prescindere da quest’ultima considerazione, la contraddittorietà di principio sulla rilevanza da attribuire alla gelosia nel reato circostanziato è destinata a rimanere silente fintantoché i binari delle due circostanze di segno opposto sono destinati a non incrociarsi. Con ogni probabilità, la rilevanza attribuita alla gelosia si è sviluppata autonomamente in relazione all’aggravante dei motivi abietti e futili e le attenuanti generiche. È l’incontro tra i due orientamenti giurisprudenziali a decretare un’impasse argomentativa non facilmente risolvibile.

 

5. Un possibile via d’uscita? – Per scampare i pericoli insiti in questa strettoia argomentativa, senza cadere in affermazioni contraddittorie, apodittiche o illogiche, e facendo salvo il rispetto delle indicazioni di orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati, non resta che uscire dalla trappola cognitiva della gelosia. Si tratta di un argomento retorico facilmente e pigramente adducibile, che risulta al contempo molto insidioso e delicato perché, al di là della logicità argomentativa, evoca una distorta concezione dei rapporti uomo-donna che dovrebbe essere consegnata definitivamente alla storia. Introdotta spesso dalle argomentazioni difensive, alle quali la giurisprudenza ha dato talvolta seguito, il riferimento alla gelosia potrebbe forse essere messo da parte, per dare invece rilievo a un catalogo diverso e più ampio di emozioni che, come si avrà modo di precisare a breve, possono trovare migliore apprezzamento.

Dopo essersi liberati della gelosia, sembra auspicabile un serio confronto con il dibattito scientifico che offre preziose indicazioni sugli effetti che le emozioni hanno sui processi cognitivi e decisionali[6].

Come emerge dalle ricerche nel campo della psicologia, della psichiatria (e in particolare di quella forense) e delle neuroscienze, le emozioni svolgono un ruolo motivazionale per il comportamento umano. I meccanismi d’interazione tra emozioni e comportamento, pur dipendendo dalla situazione contestuale e dalle caratteristiche individuali (di autocontrollo e inibizione), sono in grado di sovvertire la psicologia ingenua che governa (anche) il sistema penale: razionalità e sfera emotiva, anziché essere contrapposte, sono strettamente interdipendenti.

L’interpretazione, la valutazione della realtà esterna, la capacità di scelta, di ragionamento logico e di ricordare i fatti dipendono, in modo rilevante, dallo stato emotivo di un individuo. Senza poter qui approfondire la questione, sarà sufficiente svolgere qualche considerazione sugli aspetti che sembrano assumere particolare rilievo in questa sede.

Come è stato messo in rilievo nella letteratura psichiatrico-forense, le relazioni affettive assumono un significato determinante nel definire e percepire sé stessi, le proprie qualità, la propria autostima e il proprio ruolo nell’ambiente sociale. La crisi del rapporto affettivo può destabilizzare l’equilibrio psicologico personale. Tale squilibrio sarà tanto più intenso, quanto più elevati sono: il grado di rilevanza dell’altro nella costruzione della propria identità; la disparità di investimento emotivo nella relazione; il livello di complementarità all’interno della coppia e l’esistenza di risorse alternative nella costruzione dell’immagine di sé e della propria autostima[7].

Il progressivo indebolimento della percezione di sé e della propria autostima, derivante dalla crisi della relazione affettiva, può manifestarsi con l’insorgenza di stati depressivi, disperazione, paura, insicurezza, ferite narcisistiche, sfiducia verso sé stessi e gli altri, nonché attraverso disturbi del sonno e fantasie di agiti violenti. Tale situazione non fa altro che aumentare il rischio di fallimento dei meccanismi di adattamento e d’inibizione. Possono insorgere emozioni steniche, come la rabbia, oppure asteniche come la paura, il timore o la disperazione, che sfuggono al “normale” potere di autocontrollo dell’individuo, ossia rispetto a quanto accadrebbe in condizioni “normali”.

A ciò si aggiunga che questa situazione di disequilibrio psicologico individuale derivante dalla crisi della relazione affettiva agevola il superamento della soglia d’inibizione che ogni individuo possiede in relazione alle questioni oggetto del più radicato tabù, come la morte e il precetto “non uccidere”. Vi è in questi casi una maggiore facilità che si generino reazioni violente auto- e etero-lesive.

È tutt’altro che infrequente le aggressioni alla vita e all’integrità fisica, in presenza di intense alterazioni emotive, che vengano realizzate nell’ambito delle relazioni familiari e affettive. Gli uomini uccidono la propria partner, quando quest'ultima decide di interrompere la relazione o a poca distanza di tempo dalla conclusione del rapporto di coppia oppure quando c'è un altro uomo nella vita della loro partner. Spesso il fatto è accompagnato da uno stato di forte alterazione emotiva nella quale si mescolano emozioni prevalentemente steniche o forti, come la rabbia derivante dalla sensazione di impotenza e dalla ferita narcisistica, ma anche di disperazione, paura e insicurezza legate alla possibile perdita della relazione affettiva.

Anche se molto meno frequentemente rispetto agli uomini, le donne uccidono il proprio partner in preda ad emozioni asteniche (come la paura, il timore e il turbamento)[8], per la ragione diametralmente opposta: perché sono rimaste intrappolate in una relazione con un uomo che le ha sottoposte, per lungo tempo, a violenze fisiche e psicologiche, fino al punto di minacciare la loro vita e quella dei propri figli.

All’interno della prima costellazione si inserisce agevolmente la valutazione, riportata in precedenza, del perito nel caso di specie. È quello il possibile ritratto di una dimensione emotiva che travalica il riferimento alla gelosia e potrebbe offrire un percorso argomentativo alternativo per motivare il riconoscimento delle attenuanti generiche, al netto del riferimento ai due ulteriori elementi citati dalla sentenza impugnata. Ampi sono gli spazi per valorizzare, in base ai criteri descritti dall’art. 133 c.p., i fattori descritti dal perito in relazione al loro influsso sul processo motivazionale individuale e, dunque, in termini di ridotta colpevolezza.

Quello delle circostanze è il livello minimo di riconoscimento dei meccanismi d’interazione tra cognizione ed emozione. Si potrebbe (e dovrebbe) andare oltre alla rilevanza meramente circostanziale, nella quale il gioco del bilanciamento rischia di far evaporare il faticoso ingresso della dimensione emotiva nel diritto penale. Si potrebbe riflettere sul più generale impatto di quest’ultima sulla colpevolezza, superando quel marchio di ingestibile soggettivismo e, conseguentemente, di pericoloso indulgenzialismo che è storicamente legato all’universo delle emozioni.

Negare rilevanza a questa interazione significherebbe proporre una concezione di un diritto penale completamente «“disincarnato”»[9] che non solo sarebbe il frutto di una mistificatoria semplificazione, ma che relegherebbe la sfera emotiva ai margini della teoria del reato fino a farci perdere il senso della dimensione umana che il diritto (e soprattutto quello penale) è chiamato a regolare[10].

 

 

[2] Ampiamente sul tema v. D. Piva, Le componenti impulsive della condotta. Tra imputabilità (pre)colpevolezza e pena, Napoli, 2020, p. 1 ss. e 341 ss.

[3] Il precedente che riguarda più in generale la rilevanza degli stati emotivi e passionali nella concessione delle circostanze attenuanti generiche è Cass., 5 aprile 2013, n. 7272, CED 259160.

[4] Diffusamente sul punto, di recente, v. Cass., 1 ottobre 2019, n. 49673, in DeJure, § 2.1. ss. della sentenza, nella quale si osserva che «la gelosia, in questa prospettiva, può ben integrare una spinta a delinquere futile in relazione al delitto di omicidio. Ciò accade in tutti i casi in cui essa non sia connotata dalla sola abnormità dello stimolo possessivo che si rivolge verso la persona che diventa vittima del reato o verso un terzo ad ella legata, ma nei casi in cui risulta espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive che inducono al delitto. In questi casi la gelosia si pone come una condizione di pura abnormità in cui la persona umana è percepita in una dimensione oggettuale e in cui prevale un senso di appartenenza a fronte del quale ogni gesto della vittima o del terzo è percepito dall'autore del delitto come un comportamento di insubordinazione da punire secondo logiche aberranti».

[5] Entrambi i passaggi sono tratti da p. 2 della sentenza qui annotata.

[6] Si utilizza il termine emozione come categoria di sintesi di passioni, sentimenti, stati d’animo così come viene impiegato da almeno una parte dei saperi scientifici che trattano il tema.

[7] Sul punto sia consentito il rinvio a M. Dova, Alterazioni emotive e colpevolezza, Torino, 2019, p. 21 ss. e ivi agli ulteriori riferimenti bibliografici. Istruttivo a tal riguardo è, ad esempio, un passaggio di una consulenza tecnica sulla capacità di intendere e di volere di un imputato in un caso di omicidio realizzato nell’ambito di una relazione affettiva (G.u.p. Pavia, 6 settembre 2017, n. 545, inedita); nel ricondurre il caso alla disciplina degli stati emotivi e passionali, il consulente osserva che «le difficoltà che si sono verificate all’interno della relazione hanno prodotto un innalzamento del livello di stress commisurato con l’intensità delle aspettative che andavano deluse; per [l’imputato] la sensazione era di una sempre minore capacità e possibilità di incidere sul deterioramento del legame. Il senso di impotenza, la percezione di sé come inadeguato, probabilmente un’immagine sociale che egli sentiva sminuita hanno concorso a sviluppare risentimento e rabbia nei confronti di chi, secondo il suo punto di vista, lo aveva portato ad abbassare le difese, avvicinarsi al punto da costruire aspettative significative e stava facendogli sperimentare frustrazioni non tollerabili. L’inutilità dei tentativi di ricomposizione della relazione e la percezione di sé come impotente a trovare soluzioni hanno portato a tentativi di fuga dalla realtà o di anestesia del dolore attraverso l’utilizzo dell’alcol […]. In un soggetto generalmente piuttosto distanziato dalle proprie emozioni, il meccanismo di abbassamento delle difese che gli ha permesso di investire maggiormente nella reazione, lo ha privato, però di quegli argini che lo distanziavano dall’intensità delle emozioni […]. Quindi l’intensità della frustrazione, la rabbia, il risentimento, l’aggressività hanno incontrato meno filtri e hanno impattato più direttamente sulla consapevolezza e sulle percezioni [dell’imputato]» (p. 10 della sentenza).

[8] Sulla distinzione tra emozioni steniche e asteniche, a seconda che l’emozione sia connotata dall’impiego della forza o meno cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, P. Chiodi (a cura di), 2006, Torino, 2006, p. 676 ss., il quale basava la distinzione in base al rapporto esistente tra espressioni (ad es. quelle del volto automaticamente legate ad uno stato emotivo) e reazioni muscolari; la distinzione risiederebbe nell’effetto prodotto dall’emozione sull’innervazione del cuore e sul tono muscolare: di rafforzamento nel caso delle emozioni steniche (o forti); di paralisi o indebolimento nel caso delle reazioni asteniche (o deboli). Si tratta di una distinzione che sembra poco rilevante nell’ambito delle scienze psicologiche, poiché le due categorie (emozioni steniche e asteniche) sono in buona parte sovrapponibili in relazione agli effetti. Basti pensare che la paura è spesso associata, sul piano della reazione, al binomio “fight or flight”, al quale deve aggiungersi anche la paralisi. Vale, tuttavia, la pena di conservare questa distinzione perché può tuttavia conservare un significato sul piano politico-criminale. Si pensi a tal riguardo al recente riferimento, sul modello del § 33 c.p. tedesco, al grave turbamento nella disciplina dell’eccesso colposo di legittima difesa domiciliare.

[9] L’efficace espressione è di G. Fiandaca, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali, in O. Di Giovine (a cura di), Diritto penale e neuroetica. Atti del Convegno 21-22 maggio 2012. Università di Foggia, Padova, 2013, p. 215.

[10] Cfr. O. Di Giovine, Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuretica, Torino, 2009, p. 130; Id., Ripensare il diritto penale attraverso le (neuro-)scienze?, Torino, 2019, passim.