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  Scheda  
08 Ottobre 2020


A volte ritornano. Prime riflessioni sulla problematica reintroduzione del tentativo nei reati fiscali a seguito dell’attuazione della Direttiva PIF


1. Premessa. Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 15 luglio 2020 (oltre un anno dopo la scadenza del termine del 06 luglio 2019 originariamente previsto) è stato pubblicato il Decreto Legislativo 14 luglio 2020, n. 75 approvato in attuazione della Direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla “Lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”, cd. Direttiva PIF.

Con quest’ultimo atto, le Istituzioni europee hanno dato avvio ad una serie di interventi in ambito penale volti alla tutela degli interessi finanziari dell’UE, tutela che “riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o che minacci di incidere negativamente sul suo patrimonio e su quello degli Stati membri, nella misura in cui è di interesse per le politiche dell’Unione” (Considerando n. 1).

In attuazione della Direttiva, il nuovo testo normativo italiano ha modificato l’art. 6 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in materia di IVA reintroducendo nel sistema penale tributario, seppur a determinate condizioni, l’istituto del tentativo.

L’innovazione operata mediante l’inserimento di un nuovo comma 1bis nel testo originario della norma reca con sé non solo problematiche di compatibilità con il principio costituzionale di offensività, ma si scontra con un sistema che ha fatto del superamento del tentativo uno dei principi cardine dell’allora riforma dei reati tributari.

Obiettivo del presente lavoro è, dunque, dare conto, ad una prima lettura, di tali antinomie ed offrire una base di discussione e condivisione per rimeditare l’innovazione introdotta e valutarne, de iure condendo, il superamento.

 

2. L’ambito di intervento della Direttiva in ambito penale tributario.Prima di affrontare il tema oggetto di approfondimento, vale la pena ripercorrere brevemente, per quanto qui di interesse, i confini entro cui gli Stati nazionali avrebbero dovuto muoversi nell’attuazione dell’articolato europeo.

Innanzitutto, il § 2 dell’art. 2 della Direttiva stabilisce che la disciplina da essa sancita si applica esclusivamente con riguardo ai «casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA», intendendo come tali quelli caratterizzati, per un verso, dalla natura transfrontaliera delle condotte illecite e, per altro, da una capacità lesiva quantitativamente individuata nel «danno complessivo pari ad almeno 10 000 000 EUR».

L’art. 3 introduce la nozione di frode e ne individua quattro «(sotto)ipotesi» in ragione della pertinenza alle “spese” [le uscite non relative agli appalti ex § 2 a), e quelle relative agli appalti ex § 2 b)] ovvero alle “entrate” [le risorse diverse da quelle derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA ex § 2 c), e quelle derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA ex § 2 d)].

In quest’ultimo caso, definisce frode «l’azione od omissione commessa in sistemi fraudolenti transfrontalieri in relazione: i) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all’IVA, cui consegua la diminuzione di risorse del bilancio dell’Unione; ii) alla mancata comunicazione di un’informazione relativa all’IVA in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; ovvero iii) alla presentazione di dichiarazioni esatte relative all’IVA per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell’IVA».

L’art. 5 reca l’obbligo, con riferimento ai suddetti reati, di penalizzazione dell’istigazione, del favoreggiamento, del concorso di persone e – per quanto di maggiore interesse dal punto di vista del nostro ordinamento – del tentativo.

Sotto il profilo psicologico, l’art. 3.1 della Direttiva impone, quale criterio di imputazione della responsabilità, l’intenzionalità. Pare, dunque, che il legislatore europeo, dal punto di vista soggettivo, richieda, perché le condotte di frode possano essere destinatarie del rimprovero penale, il dolo intenzionale, alias dolo diretto di primo grado. Tuttavia, l’intenzionalità pare potersi ritenere compatibile anche con il dolo eventuale, con quella forma cioè di volontà delittuosa in cui la previsione dell’evento non si presenta in termini di certezza, bensì di possibilità, sempreché la condotta dell’agente sia idonea a realizzare il fine preso di mira[1].

Sotto il profilo sanzionatorio, per quanto concerne le persone fisiche, l’art. 7 sancisce l’obbligo per i legislatori nazionali di prevedere sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive.

Per i reati di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva si richiede una pena massima comportante la reclusione quantificata in almeno quattro anni ove dalla loro commissione derivi un danno o un vantaggio considerevole. Si prevede inoltre: che il danno (o il vantaggio) si presume considerevole qualora abbia un valore superiore ad € 100.000, ove derivante da tutte le condotte di frode – ad eccezione di quelle relative alle entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA (art. 3.2 d)), per le quali, invece, tale danno (o vantaggio) si presume sempre considerevole – nonché dagli “altri reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” ex art. 4; che gli Stati membri possono altresì prevedere una pena massima di almeno quattro anni di reclusione per altre circostanze gravi definite nel loro diritto nazionale e che, sempre con riferimento a tali categorie di reato, ove il danno (o il vantaggio) sia inferiore a € 10.000, gli Stati membri possono prevedere sanzioni di natura diversa da quella penale.

Merita infine di essere segnalata la previsione contenuta nell’art. 10, in ragione della quale i legislatori domestici sono obbligati ad adottare le misure necessarie per consentire il congelamento e la confisca degli strumenti e dei proventi degli illeciti rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva. In particolare, si prevede che gli Stati membri vincolati dalla direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio a tal fine provvedono conformemente a quest’ultima.

 

3. La reintroduzione del tentativo nei reati fiscali. – Come anticipato, a fronte della Direttiva, l’art. 2 del D.Lgs. n. 75/2020, con decorrenza dal 30 luglio 2020, ha innovato l’art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000 introducendo, dopo il comma 1 che recita «I delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo», il nuovo comma 1-bis: «Salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8, la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro».

Salvo, quindi, che il fatto integri il reato di «emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» (art. 8), la disciplina del tentativo si applica ai delitti di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» (art. 2), «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici» (art. 3) e «dichiarazione infedele» (art. 4) purché coinvolgano altri Stati membri e riguardino IVA evasa per più di dieci milioni di euro.

Nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 75/2020, il Governo, dopo aver spiegato il motivo per il quale non ha ritenuto di introdurre nuove figure criminali ad hoc, ma di integrare le esistenti, rileva come «la necessità di un adeguamento dei limiti edittali, ove il fatto sia commesso anche in parte in altro Stato e l’imposta sul valore aggiunto evasa superi l’importo di dieci milioni di euro, è stata superata dalla recente approvazione di disposizioni che hanno provveduto ad aumentare le pene detentive per i reati dichiarativi, contemplati dalla direttiva. È stato necessario, invece, intervenire sull’articolo 6 del decreto legislativo n. 74 del 2000 per introdurre, relativamente ai delitti tributari in materia di dichiarazione compresi nell’ambito di applicazione della direttiva, la punibilità del tentativo altrimenti esclusa dal primo comma della disposizione nazionale (articolo 3, comma 1 lettera c), della legge delega)».

 

3.1. Un ritorno al passato. – La reintroduzione del tentativo nell’ambito dei reati tributari costituisce un arretramento concettuale rispetto alla riforma intervenuta con il D.Lgs. n. 74/2000 che aveva inteso eliminare, in conformità all’allora legge delega, le aporie di un sistema tacciato di anticipare eccessivamente la soglia di punibilità della condotta fraudolenta o evasiva[2].

La Legge n. 516/1982[3], infatti, riformando la Legge n. 4/1929, aveva disposto (art. 2 comma 1), per i contribuenti tenuti alle scritture contabili, un’anticipazione della punibilità a tutti quei comportamenti prodromici e strumentali alla dichiarazione infedele; essa aveva di fatto equiparato il tentativo alla consumazione del reato stesso andando a configurare una fattispecie di attentato. «L’attentato rappresenta un’ipotesi di reato di pericolo del tutto particolare caratterizzata essenzialmente da una struttura che sotto molti profili si avvicina in maniera notevole a quella del tentativo». L’ulteriore distinzione da quest’ultimo è «data dal fatto che il contenuto dell’incriminazione in questi casi non si determina in relazione a una norma speciale; una caratteristica dei delitti di attentato è l’autonomia dell’incriminazione nel senso che manca una corrispondente ipotesi di danno cui far riferimento ai fini della determinazione del fatto tipico»[4].

L’anticipazione eccessiva della tutela penale aveva, all’epoca, una sua ragione che consisteva nell’offrire al giudice penale gli strumenti per intervenire prontamente nel campo dell’illecito penal-tributario, senza dover “dipendere” dagli accertamenti degli Uffici finanziari[5]. Si trattava di sgomberare dal campo di applicazione la c.d. “pregiudiziale tributaria”, che spesso rischiava di comportare la paralisi dell’azione giudiziaria fino alle risultanze degli accertamenti amministrativi.

Il meccanismo della pregiudiziale, introdotto dall’art. 56 del D.P.R. n. 600/1973 abrogato dalla Legge n. 516/1982, se da un lato era stato ispirato da un’esigenza di maggiore precisione nella determinazione dei redditi e dell’imposta (rectius della relativa ricostruzione), delegando la funzione ispettiva esclusivamente all’Amministrazione finanziaria, dall’altro lato rinviava eccessivamente nel tempo la celebrazione dei processi penali, causando un dispendio inutile di risorse ed una perdita dell’efficacia ed effettività della sanzione penale.

La Legge n. 516/1982 non aveva risolto l’inconveniente della eccessiva lungaggine dei procedimenti penali, poiché i giudici si erano trovati sommersi da un’impressionante mole di lavoro costituito, soprattutto da reati bagatellari, che solo in rari casi, venivano regolarmente sanzionati, a discapito di quella “attenzione dovuta” verso le forme gravi di criminalità tributaria.

Il D.Lgs. n. 74/2000 aveva scongiurato il ritorno al passato della pregiudiziale tributaria, confermando il principio dell’autonomia (o del doppio binario) tra il procedimento penale e processo tributario (art. 20).

La riforma intendeva concentrare il potere sanzionatorio penale sulle fattispecie “effettivamente” lesive dell’interesse fiscale ed attribuire all’esclusiva competenza dell’autorità amministrativa, con la tecnica della depenalizzazione, le ipotesi di violazioni formali, “prodromiche” cioè preparatorie alla dichiarazione e, quindi, all’evasione fiscale (per es. omessa fatturazione, omessa registrazione dei corrispettivi, irregolare tenuta delle scritture contabili, omesso versamento di ritenute, etc…. che non concretizzano evasione fiscale, ma mere irregolarità formali, lesive dell’“interesse alla trasparenza tributaria”).

Nell’allora relazione illustrativa al D.Lgs. n. 74/2000, infatti, il Governo chiariva che «la ratio è di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante, di bandire il modello del "reato prodromico", risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’articolo 56 del codice penale: si potrebbe sostenere, difatti, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti e le omesse o sottofatturazioni, scoperte nel corso del periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato».

La Circolare del Ministero delle Finanze dell’epoca (n. 154E del 4 agosto 2000) confermava che «la scelta legislativa si conforma ai principi ispiratori della riforma del sistema penale tributario, che ha eliminato le fattispecie di reato di pericolo ricollegate a situazioni prodromiche rispetto all’evasione d’imposta. In effetti, la mera registrazione di una fattura passiva o di altro documento emesso a fronte di operazioni inesistenti o l’omessa fatturazione rilevate nel corso del periodo d’imposta, ai sensi del generale precetto di cui all’articolo 56 c.p., potrebbero astrattamente qualificarsi come atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele».

Il tema, quindi, non era estraneo al legislatore del duemila che aveva scientemente ritenuto di evitare ambiguità o rischi di penalizzazioni anticipate eliminando una possibile fonte d’incertezza normativa e stabilendo nella dichiarazione il momento consumativo dei reati de quo.

 

3.2. I rapporti con il principio di offensività. – L’odierna reintroduzione del tentativo, seppur nei soli casi di reati transnazionali e correlati ad un’evasione di rilevante importo, si scontra con la scelta di campo operata dal legislatore del 2000, che trova supporto e conferma, oggi come allora, nel rispetto del principio costituzionale di offensività.

L’anticipazione della soglia di punibilità nei reati dichiarativi presenta, infatti, problematiche sotto tale ultimo aspetto, non costituendo normalmente le condotte cd. preparatorie un quantum punibile se non tradotto in una dichiarazione di scienza a valenza tributaria qual è quella a cui sono tenuti annualmente i contribuenti secondo i dettami del D.P.R. n. 322/1998.

Come più volte affermato dalla Corte Costituzionale[6] il principio di offensività opera su due piani distinti. Il primo, quello dell’offensività in astratto, obbliga il legislatore a reprimere penalmente solo fatti che nella configurazione astratta presentano un contenuto offensivo di beni e interessi ritenuti meritevoli di protezione. Il secondo, quello dell’offensività in concreto, vale come criterio interpretativo-applicativo per il giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, deve evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva. Il giudice delle leggi ribadisce che il principio di offensività non implica che l’unico paradigma costituzionalmente legittimo sia il reato di danno in quanto “rientra nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva”. Non è precluso al legislatore, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto[7], ma la Corte Costituzionale chiarisce che, in quest’ultimo caso, occorre “che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit”[8].

Sia il reato di cui all’art. 2 che quello di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000, hanno una struttura bifasica, comprendente due momenti diversi. Vi è una prima fase preparatoria, in cui la condotta ha natura propedeutica e strumentale, che è caratterizzata, nell’art. 2, dalla registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o dalla detenzione a fini di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e, nell’art. 3, dalla falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e dalla circostanza che il soggetto si avvalga di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di tale falsità. Vi è poi una seconda e successiva fase in cui si richiede che le fatture o documenti per operazioni inesistenti ovvero che il falso contabile e la condotta fraudolenta che lo ha accompagnato si traducano, per avere rilevanza penale, nella indicazione, in una delle dichiarazioni dei redditi o dell’IVA, di elementi attivi inferiori od elementi passivi fittizi. L’indicazione mendace nella dichiarazione costituisce il momento di perfezionamento e di consumazione del reato, che ha natura istantanea[9].

Come chiarito dalla Suprema Corte in una sentenza emblematica sul punto[10], «la condotta integrativa dei due reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, è una condotta progressiva, che non si esaurisce nell’utilizzazione e nell’inserimento in contabilità della falsa fatturazione o della falsa rappresentazione con l’uso di mezzi fraudolenti, ma completa il suo iter (da potenzialmente ad effettivamente offensivo) incidendo sul contenuto della dichiarazione, sicché la condotta stessa viene punita solo se ed in quanto la prima fase viene completata con la seconda, mediante la dichiarazione dell’elemento passivo fittizio. È dunque pacifico, in giurisprudenza, che ai fini della punibilità sono congiuntamente necessarie entrambe le condotte (Sez. 3, n. 14855 del 19/12/2011). Questa interpretazione è stata del resto adottata sia dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro, e con la sentenza n. 1235 del 28/10/2010, Giordano, sia dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 2002».

La richiamata sentenza Di Mauro rilevava come la normativa del duemila segnasse una netta inversione di rotta rispetto alla precedente disciplina, imperniando l’intervento repressivo su un più ristretto catalogo di fattispecie delittuose, connotate da rilevante offensività degli interessi connessi al prelievo fiscale. La scelta di quel modello normativo, secondo la Cassazione, portava a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale quale momento essenziale di disvalore del fatto. Il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi, «si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito, e perciò non punibile».

La sentenza n. 49 del 2002 della Corte costituzionale sottolineava come, con la riforma del duemila, il legislatore avesse «inteso abbandonare il modello del c.d. reato prodromico a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario», negando rilevanza penale autonoma alle violazioni a monte della dichiarazione. In particolare, la Corte osservava come la disposizione dell’art. 6 del D.lgs. n. 74 del 2000, «mira[sse] - oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta - ad evitare che violazioni preparatorie, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato».

Le medesime considerazioni venivano ribadite dalle Sezioni Unite Giordano del 2010, nonché dalle numerosissime ed uniformi sentenze emanate dalla Terza Sezione Penale[11].

Come ribadito, dunque, dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale, il diritto penale tributario ruota(va!) intorno alla dichiarazione quale atto dovuto, finale e, laddove previsto, consumativo della condotta illecita.

Nel nostro ordinamento tributario, anche sotto il profilo prettamente amministrativo[12], la dichiarazione rappresenta la base fattuale su cui poggia l’intero sistema sanzionatorio erariale che dev’essere governato da regole certe e tassative in termini di violazioni ed adempimenti. Non appare condivisibile, a giustificazione della reintroduzione del tentativo nel caso di specie, l’eventuale richiamo all’id quod plerumque accidit[13], in quanto la mera annotazione o il solo possesso di una fattura per operazioni inesistenti non può costituire indicatore univoco e certo di una volontà delittuosa poiché non lascia spazio ad intenzioni riparative dell’attore che ben potrebbe, anche per mero calcolo, non addivenire alla consumazione del reato.

Appare non coerente anticipare la punibilità di condotte che, isolatamente considerate, non costituirebbero che antecedenti privi di rilevanza ai fini di evasione in quanto solo la dichiarazione concretizza una effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla norma e materializza quella intenzionalità che la direttiva impone quale principio ispiratore relativamente all’elemento soggettivo.

D’altra parte, il sistema tributario italiano è imperniato amministrativamente fin dalla sua origine sulla dichiarazione (D.P.R. n. 322/1998) costituendo essa il fulcro di ogni contestazione non rilevando comportamenti estranei ad essa.

Alla luce di quanto esposto rimane da chiedersi allora quale sia la soluzione adottabile per far fronte a tale violazione del principio costituzionale di offensività e la risposta, anche alla luce della posizione assunta dalla Corte Costituzione[14], non può che essere l’attivazione dei cd. controlimiti. Un controllo di legittimità costituzionale fortemente garantista dei principi costituzionali identitari rappresenta l’unico rimedio praticabile rispetto alle norme interne, che, in sede di recepimento di quelle europee, ne abbiano mutuato da queste ultime le suddette deroghe[15].

 

3.3. L’incompatibilità strutturale con i reati fiscali. – La novella legislativa presenta problematiche anche in merito all’ammissibilità giuridica del tentativo sotto il profilo strutturale.

I reati fiscali richiamati dal comma 1-bis dell’art. 6 D.lgs. n. 74/2000, infatti, hanno «natura di reati di pericolo e di mera condotta, che si perfezionano nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescindono dal verificarsi dell’evento di danno, per cui, ai fini dell’individuazione della data di consumazione dell’illecito, non rileva l’effettività dell’evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l’accertamento della frode»[16].

La dottrina penalistica ritiene che non sia ammissibile l’applicazione del tentativo nei delitti di pericolo, non potendosi configurare un pericolo (consistente nel tentativo) di un reato di pericolo, in quanto porterebbe conseguenze nefaste in termini di certezza del diritto e di ragionevolezza del sistema penale[17]; si è comunque consapevoli che vi è chi ha sostenuto il contrario[18], ritenendo che l’art. 56 c.p., per come è formulato, non potrebbe condurre ad un simile esito interpretativo.

D’altra parte anche la giurisprudenza appare divisa sul punto tra favorevoli[19] e contrari[20] all’esclusione tanto da non rinvenire un criterio uniforme che possa costituire elemento dirimente.

 

3.4. Il mancato richiamo all’art. 56 c.p. – La reintroduzione del tentativo non è stata attuata mediante il richiamo all’art. 56 c.p. o il riferimento nominale all’istituto, ma introducendo la dizione di «atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4».

Il delitto tentato rappresenta una fattispecie autonoma di reato, che si innesta sulla fattispecie di parte speciale mai giunta a consumazione, creando una nuova fattispecie di reato solo tentata. Due sono gli elementi oggettivi necessari a integrare il tentativo di un delitto: l’idoneità degli atti e la direzione non equivoca dei medesimi.

Quanto al primo requisito, si considerano idonei gli atti che abbiano creato la «probabilità della consumazione del reato, e quindi la messa in pericolo del bene tutelato dalla norma incriminatrice del corrispondente reato consumato»[21]. Idoneità degli atti, dunque, significa implicitamente pericolosità degli atti stessi. Il giudizio di idoneità degli atti va effettuato ponendosi in una prospettiva ex ante, cioè retroagendo al momento della condotta, ed in concreto[22]: è necessario, dunque, accertare che gli atti abbiano in concreto messo in pericolo il bene giuridico protetto dal reato.

Il secondo requisito concerne la non equivocità degli atti stessi: in sé, significa che gli atti «devono far comprendere di essere indirizzati al compimento di una, e una sola, specifica ed individuabile, fattispecie incriminatrice»[23].

La dizione del nuovo comma 1-bis dell’art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000 tralascia il requisito dell’idoneità richiamando solo quello della direzione, ma senza fornire alcuna connotazione di non equivocità. Nel silenzio della relazione non è facile comprendere se si tratti di deroga ai normali criteri di imputazione del tentativo indicati dall’art. 56 c.p. o di una voluta regressione anticipata della soglia di punizione ad atti addirittura preparatori prima ancora che esecutivi privi di qualsiasi qualificazione.

Se così fosse, però, la disciplina potrebbe difettare di determinatezza in quanto gli atti necessari ad integrare la fattispecie tentata di delitto devono essere diretti all’integrazione di una ben individuata fattispecie incriminatrice e non di una indefinita condotta illecita.

I requisiti richiamati dall’art. 56 c.p. sono essenziali per garantire il rispetto del già citato principio di offensività e di quello di materialità sanciti dalla Costituzione in quanto la condotta deve estrinsecarsi in un agere concreto tale da palesare un’intenzione esistente seppur in nuce. Diversamente si giungerebbe a punire la mera cogitatio che, ai sensi dell’art. 115 c.p., non ha alcuna rilevanza penale (salvo poi rilevare per l’applicazione di un’eventuale misura di sicurezza).

 

3.5. Sull’incompatibilità del tentativo con il dolo eventuale. – Il delitto tentato, contrapposto al delitto consumato, in diritto penale è un delitto che non è arrivato alla sua consumazione, in quanto non si è verificato l’evento voluto dal reo o perché, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, l’azione non è stata compiuta.

Dal punto di vista soggettivo, il delitto tentato si pone come fattispecie necessariamente dolosa. Ciò lo si evince, non soltanto dalla struttura dell’azione del “tentare”, che richiede un atto intenzionalmente volto al conseguimento di un risultato determinato, ma anche dalla lettera dell’art. 56 c.p., che implica la proiezione soggettiva degli atti verso la commissione del delitto.

Nell’elemento psicologico doloso si riscontra sia un carattere intellettivo, che è dato dalla previsione anticipata dell’autore delle possibili conseguenze di operare nel mondo esterno, sia un carattere volitivo, che consiste nell’atto di impulso con il quale l’autore mette in moto le energie idonee a produrre l’evento.

Poiché la giurisprudenza di Cassazione, nell’ambito dei reati fiscali, ha da sempre ritenuto compatibile il fine di evasione sancito dalle varie fattispecie delittuose con la previsione del dolo eventuale[24], anche sotto tale profilo si pone il problema della compatibilità con il tentativo.

Sebbene le Sezioni Unite[25] in varie occasioni ne abbiano sancito la compatibilità pur a fronte di innumerevoli arresti contrari delle Sezioni semplici[26], rimane difficile ricondurre un comportamento prodromico multivalente, anche se connotato da dolo eventuale, in una delle fattispecie concrete richiamate che hanno presupposti, condotte e soglie di punibilità diverse.

 

3.6. Alcuni casi problematici. – Il tentativo introdotto si presenta anche di difficile applicazione nella pratica in quanto conduce, in relazione ad alcune fattispecie, ad esiti controversi non risolvibili in via interpretativa se non negandone la sussistenza.

Ad esempio, tenuto conto che l’art. 2 comma 2 del D.Lgs. n. 74/2000 recita che «il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria», la mera detenzione di una fattura riferita ad operazioni oggettivamente inesistenti o la scoperta dell’autonoma redazione di una fattura di acquisto con intestazione di terzi ignari, non potendosi escludere essere un atto “diretto” a commettere i delitti di cui agli artt. 2, 3 o 4 del D.Lgs. n. 74/2000, può di per sé sola costituire atto punibile? E se sì, a quale delle fattispecie previste dovrebbe essere ricondotta?

La risposta a quest’ultima domanda non risulta del tutto peregrina, in quanto, la qualificazione nell’una o nell’altra fattispecie delittuosa comporta l’ipotetica irrogazione di pene con minimi e massimi edittali molto diversi tra loro[27].

Anche perché, come ricordato dalla Suprema Corte[28] «il dolo specifico del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti deve sussistere al momento della consumazione del reato, coincidente con la presentazione o la trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi, e non, invece, in quello, antecedente, dell’annotazione in contabilità della fattura falsa». Quid iuris in merito all’elemento soggettivo del delitto tentato che a termini di giurisprudenza non rileva in sede di atti preparatori?

In tale logica si pone di difficile soluzione anche la coerenza sistematica del tentativo nel caso di condotte non attribuibili al medesimo soggetto.

Se secondo la Cassazione[29] «il reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, caratterizzato da struttura bifasica, presuppone la compilazione e presentazione di una dichiarazione mendace nonché la realizzazione di una attività ingannatoria prodromica, purché di quest’ultima, ove posta in essere da altri, il soggetto agente abbia consapevolezza al momento della presentazione della dichiarazione», come dovrebbe essere inquadrata la posizione dell’amministratore di una società che inserisca in contabilità false fatture e si dimetta prima della presentazione della dichiarazione lasciando l’incombente al nuovo legale rappresentante che, ignorando l’inesistenza delle fatture o anche consapevole, presentasse la dichiarazione dei redditi conformemente alle risultanze contabili? Qualora la dichiarazione fosse fraudolenta il reato si sarebbe consumato. Se il nuovo amministratore fosse conscio della frode, il precedente dovrebbe rispondere in concorso con il successore. Ma se il secondo fosse ignaro e, quindi, non imputabile del reato, la condotta del precedente sarebbe punibile comunque? A quale titolo considerato che il reato si sarebbe consumato, ma non ad opera del precedente amministratore ed autore dell’illecito?

L’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, poi, prevede, affinché si concretizzi il reato, che l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila e che l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, sia superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore a euro due milioni. Com’è possibile valutare la sussistenza di tali parametri antecedentemente la presentazione della dichiarazione?

Vero è che il tentativo, così come configurato, nella concretezza, appare di difficile rilevazione e contestazione da parte dell’Autorità Giudiziaria o dalle Pubbliche Amministrazioni preposte al controllo in quanto presuppone l’interruzione, volontaria o forzata, della condotta illecita prima della presentazione della dichiarazione annuale poiché, a quel punto, il delitto dovrebbe dirsi consumato. Il delitto sarebbe, cioè, configurabile nel corso dell’anno d’imposta di riferimento fino alla scadenza del termine ultimo per la presentazione della relativa dichiarazione oltre il quale si realizzerebbe il reato di omessa dichiarazione ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000.

Occorre anche precisare che «in tema di reati tributari, per effetto della soppressione - operata dal D.Lgs. n. 158 del 2015 - del termine "annuali" riferito alle dichiarazioni fraudolente mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000, integra il delitto previsto da tale disposizione l’utilizzo di documentazione fraudolenta in dichiarazioni infraannuali che non abbiano natura "meramente comunicativa" ma "propriamente dichiarativa" e che comportino, quindi, direttamente la determinazione di un’imposta da versare»[30]. In tal senso, alla dichiarazione annuale IVA si aggiungono le varie liquidazioni periodiche inviate dai soggetti passivi IVA per comunicare i dati contabili riepilogativi delle liquidazioni periodiche dell’imposta (art. 21bis del D.L. n. 78/2010)[31] che potrebbero ritenersi rilevanti ai fini dell’integrazione del tentativo e della relativa consumazione.

 

4. Conclusioni. – Le perplessità evidenziate fanno emergere come la recentissima modifica dell’art. 6 D.Lgs. 74/2000 appaia il frutto di una mera traduzione acritica di una direttiva, più che di una ponderata e meditata decisione di politica penale tributaria che non tiene conto della sistematicità del nostro tessuto normativo penale, amministrativo e costituzionale.

La disciplina introdotta, a parere di chi scrive, pone questioni difficilmente risolvibili in via interpretativa per l’insuperabilità del dettato normativo che travalica i principi costituzionali ed innova senza intervenire un tessuto giuridico a cui era (e resta!) estraneo il tentativo.

È dunque auspicabile un intervento correttivo della Corte Costituzionale che, mediante applicazione dei controlimiti, ponga rimedio alle aporie sottolineate o che il legislatore, conscio delle antinomie create, ponga mano, se non ad un’opera di riforma sostanziale dei reati fiscali, quantomeno alla rimodulazione della norma introdotta al fine di renderla coerente con i principi costituzionali e con le fattispecie astratte richiamate dal comma 1-bis dell’art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000.

 

 

[1] La giurisprudenza di Cassazione, nell’ambito dei reati fiscali, ha da sempre ritenuto compatibile il fine di evasione sancito dalle varie fattispecie delittuose con la previsione del dolo eventuale affermando che la finalità (evasiva) ulteriore rispetto a quella diretta alla realizzazione dell’evento tipico (presentazione della dichiarazione) non esclude affatto, ma anzi presuppone, che il dolo richiesto per detta realizzazione sia invece quello generico, comprensivo, quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile appunto nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione materialmente posta in essere abbia ad oggetto fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, quindi, che detta azione sia finalizzata ad evadere le imposte dirette o l’Iva. La compatibilità del dolo eventuale con i reati a dolo specifico, è stata costantemente ribadita in tema di reati tributari (ex multis Cass. Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017; Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015; Sez. 3, n. 38687 del 04/06/2014; Sez. III, n. 52411 del 19/06/2018).

[2] Cfr. Assumma, La riforma del diritto penale tributario, Firenze, 1985, pag. 50.

[3] Sul sistema introdotto con la Legge n. 516/1982, v. Nuvolone, Nuovo diritto penale tributario, in Ind. pen., 1984, 449; Grosso, Commento al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, in. Legisl. pen., 1983, 19; Id. Osservazioni sui principi generali del diritto tributario dopo l’entrata in vigore della Legge 7 agosto 1982 n. 516, in Riv. it. dir. proc, pen., 1984, 35; Romano, Osservazioni sui nuovo diritto penale tributario, in Dir. Prat. trib., 1983, 738; Padovani, Itinerari della riforma penale tributaria, in Leg. pen., 1984, 297; Patrono-Tinti, Contravvenzioni e delitti tributari, Torino, 1988; AA.VV., I reati in materia fiscale, coordinati da Corso-Stortoni, Torino, 1990; Caraccioli-Giarda-Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria. Commentario alla Legge 7 agosto 1982, n. 516, modificata dalla Legge 15 maggio 1991, n. 154, Padova, 1994.

[4] Così V. Patalano, Significato e limiti della dogmatica del reato di pericolo, Napoli, 1975, pag. 27; sempre Patalano, Significato e limiti della dogmatica del reato di pericolo, Napoli, 1975, pag.28.

[5] La vecchia ed abrogata pregiudiziale tributaria, la quale imponeva alla causa di essere prima completamente definita in tutti e quattro i gradi di giudizio in sede tributaria per poi essere portata al giudizio del giudice penale, se da una parte dilazionava eccessivamente l’inizio del processo penale aveva però l’innegabile vantaggio di svolgere una funzione selettiva in ordine alle condotte di evasione. Infatti sotto la vigenza della Legge n. 4/1929 arrivavano all’attenzione del giudice penale solo «evasioni certificate» caratterizzate da una effettiva lesione del bene giuridico tutelato. Abrogata con la Legge n. 516/198 la pregiudiziale tributaria, la situazione divenne ben presto insostenibile per il giudice penale che si trovò a decidere su fattispecie, quasi tutte contravvenzionali, in cui oltre a non esserci effettiva lesione del bene giuridico tutelato non vi era a ben vedere nemmeno dolo nella sua forma più attenuata di dolo eventuale. Inevitabilmente queste cause terminavano con sentenze assai imiti, spesso definibili con l’oblazione, ma l’incidenza dei processi penali sul contenzioso nazionale salì in pochi anni al trenta per cento sul totale.

[6] Da ultimo Corte Costituzionale, Sentenza n. 141/2019.

[7] Corte Costituzionale, Sentenze n. 133/1992; n. 333/1991; n. 62/1986).

[8] Corte Costituzionale, Sentenze n. 225/2008; n. 333/1991; n. 109/2016.

[9] Nel senso che i reati in esame si consumano nel momento di presentazione della dichiarazione e non in quello della registrazione dei dati fittizi nella contabilità, ex multis Cass., Sez. 3, sent. n. 37848 del 29/03/2017.

[10] Cass., Sez. 3, sent. n. 8668 del 15/12/2015.

[11] Ex multis per esaustiva motivazione Cass., Sez. III, sent. n. 23229 del 27/04/2012.

[12] Vedasi, in tema di IVA, le sanzioni applicate in caso di utilizzo di fatture inesistenti indicate in dichiarazione ex art. 5 commi 4 e 4bis D. Lgs. n. 471/1997.

[13] Corte Costituzionale, Sentenza n. 141/2019.

[14] Corte Costituzionale, Sentenza n. 234/2014.

[15] Sul punto si veda l’approfondita analisi del tema in V. Masarone, Il “diritto penale europeo” al vaglio dell’offensività: fondamento ed esiti, in Archivio Penale 2019, n. 1.

[16] Cass. Sez. 3, sent. n. 16459 del 16/12/2016; Sez. U, sent. n. 1235 del 28/10/2010; Sez. 3, sent. n. 25808 del 16/03/2016; Sez. 2, sent. n. 42111 del 17/09/2010.

[17] Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte generale, 4° ed., Bologna, 2001; F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, 3° ed., Padova, 1992; Petrocelli, Il delitto tentato, Padova, 1955; RIZ, Lineamenti di diritto penale, parte generale, 4° ed., Padova, 2002.

[18] Antolisei – Conti, Manuale di diritto penale, parte generale, 16° ed., Milano, 2003; Siniscalco, voce “Tentativo”, in Enciclopedia Giuridica Treccani, p. 6; De Francesco, Il tentativo nei reati di pericolo. Prospettive di un dialogo ermeneutico, in Cass. Pen., 2013, fasc. 5.

[19] Cass. Sez. 3, sent. n. 41776 del 16/04/2013; Sez. 3, sent. n. 12562 del 25/02/2010; Sez. 1, sent. n. 6392 del 13/11/1997; Sez. 1, sent. n. 6004 del 22/11/1995; Sez. 1, sent. n. 24050 del 29/05/2012; Sez. 5, sent. n. 8605 del 27/05/1982.

[20] Cass. Sez. 1, sent. n. 40699 del 09/09/2015; Sez. 6, sent. n. 4062 del 07/01/1999; Sez. 6, sent. n. 4169 del 13/02/1995.

[21] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, settima edizione, 2018.

[22] da ultimo Cass. Sez. 2, sent. n. 36311 del 12/07/2019.

[23] C.F. Grosso – M. Pelissero – D. Petrini – P. Pisa, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, edizione 2020.

[24] Vedasi nota n. 1.

[25] Cass. Sez. Un., sent. n. 6309 del 18/06/1983.

[26] Cass., Sez. 6, sent. n. 14342 del 20/03/2012; Sez. 1, sent. n. 25114 del 31/03/2010; Sez. 1, sent. n. 44995 del 14/11/2007.

[27] L’art. 2 del D. Lgs. n. 74/2000, nella forma più grave, prevede una pena da 4 ad 8 anni di reclusione, l’art. 3 da 3 ad 8 anni e l’art. 4 da 2 anni a 4 anni e 6 mesi.

[28] Cass. Sez. 3, sent. n. 37848 del 29/03/2017.

[29] Cass. Sez. 3, sent. n. 15500 del 15/02/2019.

[30] Cass., Sez. 3, n. 18692 del 22/03/2016.

[31] La comunicazione relativa al secondo trimestre è presentata entro il 16 settembre e quella relativa al quarto trimestre può, in alternativa, essere effettuata con la dichiarazione annuale Iva, che, in tal caso, deve essere presentata entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta.