Corte di giustizia UE, sent. 22 novembre 2022, C-69/21
1. Con la sentenza in epigrafe[1], la Grande Sezione della Corte di giustizia si è pronunciata in ordine all’adozione di una decisione di rimpatrio o di un provvedimento di allontanamento di un cittadino di un Paese terzo, il cui soggiorno sia irregolare, assunti ai sensi della direttiva 2008/115/CE, recepita dall’Italia con d.l. 23 giugno 2011, n. 89. In particolare, i giudici di Lussemburgo sono stati investiti, da parte del Tribunale dell’Aia, di quattro questioni pregiudiziali, aventi ad oggetto nel complesso la compatibilità, in caso di rimpatrio, dell’interruzione delle terapie mediche alle quali si stia sottoponendo una persona gravemente malata, con gli art. 1, 4, 7 e 19 § 2 CDFUE. Il rinvio pregiudiziale ha rappresentato l’inedita occasione per approfondire il tema dello stato di salute quale condizione ostativa all’esecuzione di una decisione di rimpatrio o allontanamento, peraltro già affrontato in sede d’interpretazione della direttiva 2004/83/CE, relativa all’attribuzione di cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona bisognosa di protezione internazionale.
2. La vicenda prende avvio dal rifiuto delle autorità olandesi di riconoscere un diritto di soggiorno in favore di un cittadino russo, a fronte delle plurime domande di asilo e di rinvio dell’allontanamento presentate, in ragione dei suoi gravi problemi di salute. Il soggetto è affetto da una rara forma di tumore del sangue, per la quale era sottoposto, nei Paesi Bassi, a una terapia medica praticata con flebotomie e con la somministrazione della cannabis a fini di trattamento del dolore. Una simile terapia non è autorizzata in Russia.
Dopo una prima domanda di asilo, per la quale era stato ritenuto responsabile della trattazione il Regno di Svezia, una prima richiesta di rinvio dell’allontanamento e un’ulteriore domanda d’asilo, entrambe respinte, il Tribunale dell’Aia aveva parzialmente annullato la sentenza relativa a quest’ultima. Il richiedente aveva sostenuto che le cure che aveva ricevuto in Russia gli avevano provocato effetti secondari e che l’assunzione di cannabis a fini terapeutici rappresentava la terapia più indicata per le sue condizioni di salute. In riforma della decisione di rigetto, il Tribunale dell’Aia, pur confermando l’inidoneità del cittadino russo a reclamare lo status di rifugiato o di beneficiario della protezione sussidiaria, aveva ingiunto al Segretario di Stato di riesaminare la domanda d’asilo alla luce dell’art. 8 CEDU, nonché dell’art. 64 della legge sugli stranieri olandese[2]. Negata nuovamente la concessione di un permesso di soggiorno, il richiedente proponeva ricorso innanzi al giudice del rinvio, il quale – rilevato che non sussistono precedenti decisioni in merito – demandava alla Corte di giustizia l’interpretazione delle sopra menzionate disposizioni della CDFUE, rispetto alle seguenti questioni.
3. La prima questione verte sulla possibilità che un aumento significativo del dolore, causato dall’interruzione di cure mediche in una patologia invariata, configuri una violazione dell’art. 19 § 2, in combinato disposto con gli art. 1 e 4 CDFUE. La seconda questione investe la compatibilità con l’art. 4, in combinato disposto con l’art. 1 CDFUE, della fissazione, da parte degli Stati membri, di un termine prestabilito entro il quale devono concretizzarsi gli effetti di un simile deterioramento dello stato di salute.
Il carattere di originalità della sentenza qui esaminata si rinviene nell’analisi dell’ipotesi di una malattia che, seppur grave, non sia destinata a peggiorare gravemente, ma la cui terapia in corso implichi il mero trattamento del dolore. I giudici di Lussemburgo muovono da quella giurisprudenza – della stessa Corte di giustizia e della Corte EDU – relativa alla ipotesi, simile, del cittadino irregolare di uno Stato terzo, raggiunto da un provvedimento di espulsione, la cui condizione di salute, tuttavia, rischi un peggioramento a causa dell’interruzione delle cure.
La Corte di Strasburgo – che per prima si è espressa sul tema – ha ricondotto una simile cessazione della terapia medica, qualora imputabile allo Stato, all’ambito di tutela protetto dall’art. 3 CEDU, in quanto trattamento inumano e degradante. I criteri, volti a determinare la sussistenza della violazione, enucleati dalla propria giurisprudenza – da ultimo, con la sentenza Paposhvili c. Belgio[3] – sono richiamati nell’odierna sentenza e vengono impiegati per rispondere ai quesiti pregiudiziali; anche in quanto permettono, da un lato, di preservare il diritto generale per gli Stati di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non cittadini, dall’altro, di riconoscere la natura assoluta di tale garanzia[4].
Lo standard stabilito a livello convenzionale, fatto proprio dalla Corte di giustizia, si basa sulla premessa che, per l’applicazione dell’art. 3 CEDU – e, specularmente, dell’art. 4 CDFUE – la soglia di gravità richiesta dal trattamento, risultante da condizioni di detenzione, da un’espulsione o da altri provvedimenti, raggiunga un livello minimo di gravità[5]. La decisione della Grande Camera ha avuto il pregio di delineare, a fronte dell’incertezza residua, una guida dettagliata per l’individuazione degli altri “very exceptional cases”, nei quali il diritto fondamentale può essere violato. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che l’art. 3 CEDU osta all’allontanamento di una persona gravemente malata, qualora – oltre all’ipotesi della sussistenza di un rischio di decesso imminente[6] – si riscontrino seri motivi per ritenere che il cittadino, in assenza di trattamenti adeguati nel Paese di destinazione, o in mancanza di accesso ad essi, sia esposto a un declino grave, rapido e irreversibile delle sue condizioni di salute[7]. Il corollario è l’esposizione del soggetto a intense sofferenze o una significativa riduzione della sua speranza di vita[8].
Se, pertanto, la sentenza qui considerata riporta tali condizioni – già impiegate, in un momento precedente, nella sentenza MP del 2018[9], per la valutazione della situazione di un cittadino irregolare, vittima di atti di tortura nello Stato d’origine in passato – l’occasione è propizia per innalzare ulteriormente il livello di tutela. Il divieto di trattamenti inumani e degradanti, in relazioni a simili situazioni, viene così rinvenuto, dai giudici di Lussemburgo, in tutti quei casi in cui risultino gravi e comprovati motivi per ritenere che il rimpatrio esporrebbe la persona a un rischio reale di aumento del suo dolore, a causa dell’impossibilità di avvalersi, nel Paese di destinazione, dell’unica terapia analgesica efficace[10].
4. L’elemento innovativo di maggiore interesse è il rilievo da assegnare al dolore conseguente a una grave malattia, nel contesto dell’indisponibilità di proseguire la terapia analgesica nel Paese d’origine. La Corte di giustizia ha ritenuto che il peggioramento della condizione psico-fisica di una persona, causato dal negato accesso al trattamento del dolore, possa, a certe condizioni, integrare un motivo per non procedere al rimpatrio. L’Avvocato generale ha individuato efficacemente il metodo per superare i criteri utilizzati nella sentenza Paposhvili: il «deterioramento significativo e irrimediabile» – semanticamente differente dall’espressione «declino grave e irreversibile» – implica considerare «tutte le conseguenze significative e irrimediabili»[11]. Ne risulta un ampliamento delle situazioni di allontanamento idonee a ricadere nell’ambito della tutela contro i trattamenti inumani e degradanti.
Il giudizio è, dunque, analogico: come per le diverse ipotesi già vagliate dai giudici di Lussemburgo, gli Stati dovranno applicare alla situazione in esame i medesimi giudizi di gravità. Ebbene, non un qualunque rischio di aumento del dolore può integrare una violazione dell’art. 4 CDFUE: è necessario altresì che, in caso di rimpatrio, il cittadino incorra in un rischio reale che questo avvenga in modo rapido, significativo e irrimediabile[12].
Nella sentenza qui considerata, la Corte di giustizia afferma che l’impossibilità di somministrare legalmente al cittadino l’unica terapia analgesica efficace avrebbe l’effetto di sottoporlo a un dolore d’intensità tale da risultare contrario alla dignità umana, protetta dall’art. 1 CDFUE. Sicché, il giudice nazionale sarà chiamato a valutare, rispetto alle specificità del caso concreto, non solo gli effetti diretti di una simile interruzione del trattamento, ma anche delle conseguenze più indirette di siffatto aumento del dolore[13]. Nel rispondere, congiuntamente alla prima, anche alla seconda questione pregiudiziale, i giudici di Lussemburgo forniscono i criteri per il vaglio di quest’ultime. In particolare, l’apprezzamento nel merito dell’autorità competente non deve limitarsi a quanto può manifestarsi entro un termine predeterminato in modo assoluto, fissato dal diritto olandese in tre mesi. Si richiede, affinché la tutela dei diritti fondamentali sia effettiva, che il giudice abbia il potere di bilanciare la rapidità di tale aumento del dolore con il rispettivo grado di intensità, attraverso un esame concreto della situazione. Pertanto, se è vero che gli Stati membri sono liberi di fissare un termine, questo non potrà vincolare in modo assoluto il giudizio di merito.
5. Con la terza questione pregiudiziale, il giudice del rinvio si interroga sul momento da tenere in considerazione nel valutare la situazione appena esposta. Il Tribunale dell’Aia richiama la prassi dell’autorità nazionale competente, rinnegata dal governo dei Paesi Bassi, di circoscrivere l’esame delle condizioni di salute del cittadino unicamente al fine di attestare la sua idoneità a viaggiare.
Una simile lettura della direttiva 2008/115, in combinato disposto con gli art. 1, 4 e 19 CDFUE – anche alla luce delle risposte alle prime due questioni – implica che lo Stato interessato non può limitarsi a considerare il declino grave e irrimediabile delle condizioni di salute nel solo momento dell’allontanamento ma, in linea con le previsioni di cui agli art. 5 e 9, par. 1, lett. c della direttiva medesima, l’autorità nazionale deve assicurarsi che le cure necessarie siano garantite anche nel momento del rimpatrio nel Paese di destinazione[14].
6. La quarta ed ultima questione pregiudiziale verte sul riconoscimento di un diritto di soggiorno nel Paese interessato per il cittadino, in virtù del quadro complessivo delle condizioni così delineato. La domanda investe un profilo, estraneo al divieto di tortura o trattamenti inumani e degradanti, degno di nota. La premessa, sulla base della quale i giudici di Lussemburgo rispondono, è che l’ambito di applicazione della direttiva 2008/115, relativa solo al rimpatrio di cittadini irregolari, di Paesi terzi, non può essere esteso sino a coprire anche tale competenza, riservata al legislatore nazionale.
Tuttavia, il giudice del rinvio chiede alla Corte di giustizia se nella condizione, da valutare nell’applicazione della direttiva, di cui alla “vita familiare”, ex art. 5, par. 1, lett. b, rientri anche lo stato di salute del cittadino. La questione – è evidente – si discosta dall’ambito normativo finora preso in considerazione. Viene qui in rilievo la tutela del diritto fondamentale offerta dall’art. 7 CDFUE (e dall’omologo art. 8 CEDU) in vista di attuare la direttiva 2008/115. I giudici di Lussemburgo richiamano le conclusioni dell’Avvocato generale, secondo il quale l’integrità fisica e psichica di una persona partecipa al godimento della sua vita privata, sicché le cure di cui il cittadino fruisce nello Stato interessato rientrano nel diritto tutelato dalla Carta[15].
Ciononostante, dalla giurisprudenza della Corte EDU si ricava che l’autorità nazionale competente deve operare un giudizio di proporzionalità tra il diritto al rispetto della vita privata e familiare e i poteri statuali sulla regolamentazione dell’immigrazione irregolare. Di conseguenza, poiché alla portata del diritto di cui all’art. 7 CDFUE deve corrispondere quella garantita dall’art. 8 CEDU, tale giudizio dovrà essere effettuato anche nell’applicare la direttiva in discorso. Secondo l’interpretazione così offerta dalla Corte di giustizia, in conclusione, il bilanciamento si rinviene qualora la situazione medica del cittadino presenti le medesime circostanze eccezionali ostative a una decisione di rimpatrio o a un provvedimento di allontanamento[16].
7. Merita qui evidenziare, alzando lo sguardo, come lo stato di salute quale condizione ostativa per l’invio di soggetti destinatari di provvedimenti dell’autorità nazionale competente non abbia investito il solo ambito della normativa in tema di immigrazione. La Corte costituzionale italiana, con rinvio pregiudiziale del 22 novembre 2021, ha sollevato innanzi alla Corte di giustizia una questione analoga, relativa alle procedure di consegna innescate dall’emissione di mandato d’arresto europeo. In breve, i giudici delle leggi hanno chiesto se la tutela dei diritti fondamentali, tra i quali rientra anche il diritto alla salute – come si evince dall’art. 1, par. 3, decisione quadro 2002/584/GAI, nonché dall’art. 35 CDFUE e dagli art. 2 e 32 Cost. – possa costituire motivo di rifiuto, obbligatorio o facoltativo, dell’esecuzione del m.a.e., in quanto non previsto dagli art. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005.
Benché i giudici di Lussemburgo non si siano ancora pronunciati, sono state recentemente pubblicate le conclusioni dell’Avvocato generale. Quest’ultimo ricorda che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione ha l’obbligo di porre fine alla procedura qualora siffatta consegna esponga il soggetto a trattamenti inumani o degradanti, ai sensi dell’art. 4 CDFUE, garanzia strettamente connessa al rispetto della dignità umana ex art. 1 CDFUE[17]. Nondimeno, occorre rilevare che le pronunce della Corte di giustizia, in applicazione del c.d. principio Aranyosi e Căldăraru, hanno portato a motivi di rifiuto in presenza di carenze sistematiche e generalizzate nello Stato di emissione. Nel caso in esame, la situazione verte sulla condizione individuale di un soggetto, affetto da disturbi psichiatrici cronici e irreversibili, sottoposto a terapia farmacologica e psicoterapeutica, volta a evitare probabili episodi di scompenso psichico e prevenire un «forte rischio suicidario» connesso alla possibile incarcerazione[18].
Facendo leva sulla giurisprudenza Aranyosi e Căldăraru, l’Avvocato generale formula alcune linee-guida per applicare il principio in parola – volte a ottemperare all’interpretazione restrittiva da affidare alle eccezioni contenute nei motivi di rifiuto – in presenza di condizioni di salute assimilabili a quelle della sentenza qui in esame. Le presunzioni di fiducia reciproca tra gli Stati membri e di rispetto dei diritti fondamentali non permettono di estendere oltremisura, per via pretoria, l’elenco dei motivi di non esecuzione; di talché, qualora le circostanze del caso concreto lo permettano, si deve preferire il differimento della consegna, ai sensi dell’art. 23, par. 4 della decisione quadro, in luogo del rifiuto di eseguire il m.a.e.
Preso atto di tale prima considerazione, un ulteriore dubbio sorge nel momento in cui la patologia che impedisce la consegna allo Stato di emissione abbia natura cronica e irreversibile o, comunque, di carattere non meramente temporaneo. Nel rispondere, lo spunto – come suggerito dalla Corte costituzionale italiana – si rinviene all’interno della medesima disposizione, per la quale la necessità di esecuzione del m.a.e. si ripristina nel momento in cui «tali motivi cessano di sussistere». Di conseguenza, l’Avvocato generale sostiene che, affinché i «gravi motivi umanitari» – nel caso in esame, la salute del consegnando – possano venir meno, le autorità giudiziarie interessate possono proseguire a “dialogare”, fintantoché non si prospettino soluzioni specifiche che permettano la consegna, nel rispetto dei suoi diritti fondamentali[19].
In conclusione, dopo la sentenza resa nel caso Dorobantu[20], il dialogo tra la Corte di giustizia e la Corte EDU reca nuova linfa alla tutela dei diritti fondamentali, confermandone e rinvigorendone la progressiva attitudine espansiva, pur nell’ineludibile giudizio di bilanciamento con gli eventuali altri elementi da prendere, caso per caso, in considerazione.
[1] Cfr. C. giust. UE, Grande Sezione, 22 novembre 2022, X, C-69/21.
[2] Nel quale si prevede che «L’espulsione è rinviata finché lo stato di salute dello straniero o di un suo familiare non consente di viaggiare».
[3] Cfr. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 13 dicembre 2016, Paposhvili c. Belgio.
[4] V. § 64 della sentenza.
[5] Cfr. C. eur. dir. uomo, Paposhvili c. Belgio § 174 e §§ 61-62 della sentenza in commento.
[6] Cfr. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 27 maggio 2018, N. c. Regno Unito.
[7] Data la particolare tutela offerta all’individuo dalla disposizione – di non essere inviato in uno Stato nel quale possa incontrare un serio rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti – si parla di effetto extraterritoriale dell’art. 3 CEDU. In questi termini, A. Scutellari, Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, in I diritti fondamentali nell’Unione europea. La Carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, a cura di P. Gianniti, Zanichelli, 2013, p. 564.
[8] Nei medesimi termini, v. C. eur. dir. uomo, Paposhvili c. Belgio § 178 e § 183; altresì, v. § 63 della sentenza.
[9] C. giust. UE, Grande Sezione, 24 aprile 2018, MP, C-353/16, § 40.
[10] V. § 67 della sentenza.
[11] Cfr. Conclusioni dell’Avvocato generale, presentate il 9 giugno 2022, causa C-69/21, § 68.
[12] V. §§ 69-70 della sentenza. In tal modo, si risolve anche il dubbio sollevato in dottrina, riguardo alla formulazione dell’art. 19, par. 2 CDFUE. La disposizione – richiedendo un «rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti» – poteva avere l'effetto di restringere la portata della tutela, rispetto ai criteri elaborati dalla Corte EDU. Una proposta per superare questa limitazione, invero, era stata quella di invocare congiuntamente all'art. 19, par. 2, anche l'art. 4 CDFUE, che ha portata identica all'art. 3 CEDU. Così, B. Nascimbene - A. Di Pasquale, Art. 19. Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione, in Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di O. Pollicino - R. Mastroianni - F. Pappalardo - S. Allegrezza - O. Razzolini, Giuffré, 2017, p. 381.
[13] V. §§ 71-72 della sentenza.
[14] V. §§ 80-81 della sentenza.
[15] V. §§ 93-94 della sentenza.
[16] V. § 96 della sentenza. Sul punto, in ambito nazionale, v. Testo unico sull’immigrazione, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19.
[17] V. C. giust. UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, § 85.
[18] V. Corte cost., ord. n. 216/2021, punto 1.1.
[19] Conclusioni dell’Avvocato generale, presentate il 1° dicembre 2022, causa C-699/21, §§ 92-96.
[20] Cfr. C. giust. UE, Grande Sezione, 15 ottobre 2019, Dumitru-Tudor Dorobantu, C-128/18. Sul punto, v. V. Sirello, Violazione dell’art. 4 CDFUE e motivi di rifiuto del MAE, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2020, p. 385.