Scheda  
26 Marzo 2024


Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”


Gabriele Fazzeri

Cass., Sez. VI, sent. 16 novembre 2023 (dep. 18 gennaio 2024), n. 2319, Pres. De Amicis, Rel. Di Nicola Travaglini


1. Con la sentenza qui allegata la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione analizza il rapporto tra la normativa sovranazionale sulla non punibilità delle vittime di tratta e l’ordinamento italiano, al fine di accertare se vi sia una disposizione interna in forza della quale tale “principio” possa trovare applicazione.

Nell’ambito di una complessa vicenda di narcotraffico internazionale, i giudici di primo e di secondo grado hanno condannato per i delitti ex artt. 74-75 d.P.R. n. 309/1990, oltre all’organizzatore di un’associazione a delinquere dedita al traffico di stupefacenti, anche una donna ritenuta responsabile del trasporto di sostanze.

Quest’ultima era stata ridotta dal sodalizio criminale in stato di schiavitù[1], finalizzato al compimento di attività illecite (che, come è noto, rappresenta una delle condizioni che qualificano lo sfruttamento delle vittime ex artt. 600- 601 c.p.) per saldare l’oneroso debito contratto durante il viaggio dalla Nigeria[2] all’Italia.  Inoltre, la donna aveva subito violenze fisiche e sessuali, durante il viaggio e, una volta giunta in Italia, era stata privata di qualsiasi forma di autonomia.

 

2.  La Suprema Corte evidenzia che tra le fonti di rango sovranazionale emerge la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo e recepita dall’Italia con la legge 11 agosto 2003, n. 228, dove per la prima volta il delitto di tratta di persone è stato definito come una grave violazione dei diritti umani.

A questa si aggiunge la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, (cd. “Convenzione di Varsavia), ratificata dall’Italia con la legge 2 luglio 2010, n. 108 e fondamentale per aver introdotto il concetto di identificazione delle vittime di tratta (art. 10) e la causa di non punibilità per i reati commessi in condizione di costrizione (art. 26).

Alla normativa sovranazionale in oggetto, si deve accostare anche la giurisprudenza della Corte Edu che non solo ha ricondotto la tratta nell’art. 4 Cedu (divieto di schiavitù, servitù e lavoro forzato)[3], ma ha anche riconosciuto la non incriminazione delle vittime di tale reato[4].

Da ultimo, il contrasto alla tratta di esseri umani è disciplinato anche dal Trattato di Lisbona (art. 79, par. 1, lett. d TFUE) e dalla Carta di Nizza (art. 5, par. 3), dove la tratta è qualificata come violazione dei diritti umani fondamentali, come tale vietata in termini assoluti.

Oltre alle convenzioni internazionali, la sentenza dà atto anche di alcune direttive eurounitarie, rilevanti in materia sotto differenti profili.

La Direttiva 2011/36/UE non solo adotta una nuova e più ampia definizione di tratta (in cui si ricomprendono anche i nuovi tipi di sfruttamento, come lo “sfruttamento di attività illecite”), ma definisce anche la cd. “posizione di vulnerabilità”, intesa come la condizione in cui può trovarsi la vittima e di cui l’autore possa approfittare per porre in essere la condotta (art. 2, co. 2)[5].

In più, la Direttiva impone agli Stati membri precisi obblighi in materia, quali l’apprestare alle vittime una tutela adeguata attraverso misure specifiche di identificazione, assistenza e sostegno.

Destinatarie di questa forma di tutela non sono solo le vittime di tratta formalmente identificate, ma anche coloro che possano essere ritenute tali sulla base di ragionevoli motivi ed in presenza di elementi sintomatici dello stato di sfruttamento.

Alle vittime di tratta si deve così consentire di ristabilirsi e di sottrarsi ai loro trafficanti, a prescindere dalla loro volontà di collaborare con l’autorità giudiziaria nell’ambito del procedimento e del processo penale.

La Direttiva 2012/29/UE, invece, colloca il reato di tratta nel novero dei delitti di violenza di genere e qualifica le vittime come esposte a particolare rischio di vittimizzazione secondaria, previa valutazione individuale condotta da personale qualificato.

A queste si aggiungono le Direttive 2011/95/UE e 2013/33/UE, che qualificano le vittime di tratta come beneficiarie della protezione internazionale ed umanitaria, da cui il diritto, in quanto “vulnerabili”, al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 18 d.lgs. n. 286/1998.

 

3. La Cassazione, dopo aver ricostruito il sistema normativo di riferimento, evidenzia come la non punibilità della vittima di tratta per i delitti commessi a causa di tale condizione sia conseguenza del rispetto del principio di non contraddizione dell’ordinamento: sarebbe irragionevole punire chi abbia commesso un reato in una condizione di costrizione che lo stesso ordinamento riconduce alla violazione dei diritti umani fondamentali.

Non a caso, la Corte Edu ha enfatizzato come sugli Stati aderenti gravi l’obbligo positivo[6] di proteggere e di non perseguire le vittime di tratta[7], alla luce di una valutazione individualizzata del caso concreto e ferma l’adozione di tutte le misure di protezione necessarie; ancora, dal giudice che voglia discostarsi dalla non incriminazione, sebbene sia stata riconosciuta la specifica condizione di vittima di tratta, si esige una motivazione analitica delle sue ragioni.

È chiaro, pertanto, come le vittime in oggetto, per via della pressione psicologica ed economica subita, perdano in tutto o in parte sfere della propria autonomia decisionale, dovute al potere ricattatorio cui sono costrette.

Ne deriva l’insorgere di un meccanismo potenzialmente idoneo ad annientare la fiducia verso le autorità dello Stato ospitante, specie quando non vi siano concrete possibilità di sottrarsi al circuito dello sfruttamento: all’obbligo criminogeno così sorto si aggiunge, inoltre, il rischio di vittimizzazione secondaria, una volta instaurato il processo penale.

La Sesta sezione individua così tre diversi tipologie di delitti suscettibili di non essere puniti se commessi dalla vittima di tratta. Tra questi la Corte richiama: quelli strettamente collegati alla condizione di irregolarità nel territorio dello Stato; quelli in cui il trafficante si appropria del provento criminoso (furto, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione) e quelli cd. “di liberazione”, commessi per liberarsi dallo sfruttamento di terzi.

 

4. Individuati questi reati, si pone la questione se nell’ordinamento italiano vi sia una disposizione interna che preveda la non punibilità delle vittime di tratta per il loro coinvolgimento in attività illecite, riconducibili allo stato di costrizione cui siano sottoposte da altri soggetti.

In particolare, la Cassazione richiama il rapporto di valutazione sull’Italia, pubblicato nel 2019 dal Gruppo di Esperti GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) ed istituito ai sensi dell’art. 36 della Convenzione di Varsavia: in tale studio sono contenute alcune raccomandazioni rivolte al nostro Paese, tra cui formare adeguatamente il personale chiamato ad identificare la vittima di tratta e la piena attuazione dell’art. 26 della Convenzione, concernente l’adozione di una espressa causa di non punibilità delle vittime di tratta.

Pur a fronte del chiaro dettato dell’art. 26 della Convenzione di Varsavia, la sentenza dà atto di come il nostro ordinamento non preveda una norma specifica che sancisca il principio di non punibilità delle vittime di tratta, da cui la necessità di tentare un’interpretazione convenzionalmente conforme della normativa italiana.

L’unico strumento idoneo a soddisfare gli obblighi internazionali è rappresentato dall’art. 54 c.p. sullo stato di necessità: è infatti evidente come lo stesso escluda la punibilità di condotte astrattamente qualificabili come reato quando, al ricorrere di specifiche condizioni, sia necessario salvaguardare un bene giuridico ritenuto preminente.

L’operazione di bilanciamento tra gli interessi potenzialmente in conflitto deve essere condotta sempre nel rispetto degli obblighi sovranazionali, tra cui è ricompresa la prioritaria tutela dei diritti umani fondamentali, sanciti tanto dalle convenzioni e dalle fonti eurounitarie, quanto dalla nostra Costituzione.

La ratio dello stato di necessità, infatti, è riconoscibile nella mancanza di interesse dello Stato a salvaguardare uno dei beni-interessi in contrasto, destinato a soccombere se inferiore in termini valoriali o, comunque, equivalente rispetto a quello preminente.

 

5. Il bilanciamento, dunque, deve essere svolto nella prospettiva di garantire la certezza del diritto e la ragionevolezza del sistema, data anche la rilevanza delle fonti, interne e sovranazionali, sulla natura dei diritti considerati.

Il giudice nazionale, infatti, deve svolgere l’attività interpretativa sulla base di alcuni principi inderogabili del diritto europeo: la primazia delle fonti eurounitarie e l’effetto utile che le caratterizza impongono all’autorità giudiziaria dei singoli Stati membri l’obbligo di tentare un’interpretazione conforme del diritto interno, così da adeguarlo a quello dell’Unione europea.

Tra le molteplici interpretazioni, pertanto, si dovrà preferire quella più consona alle prescrizioni dell’UE ed agli strumenti normativi del Consiglio d’Europa che, nel caso di specie, coincidono.

L’interpretazione delle norme deve rispondere all’obbligo di cooperazione ed al principio di coerenza complessiva dell’ordinamento multilivello, come statuito anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea[8], secondo cui il diritto nazionale deve essere applicato perseguendo lo scopo delle direttive e dei regolamenti unionali.

L’obbligo richiamato, però, vale anche con riferimento alla Cedu ed alle Convenzioni del Consiglio d’Europa, come più volte affermato dalla Corte costituzionale[9]: in particolare, è rilevante la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che si impone soprattutto quando vi siano dei precedenti consolidati in materia.

La corretta applicazione del principio di interpretazione conforme, tuttavia, non può prescindere dai limiti propri del diritto penale: la stessa Corte del Lussemburgo, infatti, ha ribadito il divieto di interpretazioni contra legem del diritto nazionale con effetti di sfavore[10] e di analogia in malam partem[11].

I fatti considerati dalla sentenza considerata, in ogni caso, non incorrono in tali limiti, in quanto l’applicazione del “principio” di non incriminazione comporta, nel caso in oggetto, effetti in bonam partem, di per sé legittimi e conformi al contenuto ed alle finalità dei vincoli sovranazionali.

L’art. 54 c.p., per essere coerente con gli obblighi sovranazionali, deve essere interpretato nel rispetto di tre principi, ovvero: la tutela dei diritti umani inalienabili delle vittime di tratta; il divieto di vittimizzazione secondaria, visto il principio di non contraddizione dell’ordinamento; il divieto di esporre lo Stato italiano ad ipotesi di responsabilità internazionale per violazione degli artt. 10, 11 e 117 Cost., quando sia possibile un’interpretazione conforme del diritto interno.

 

6. Lo stato di necessità si presenta, in conclusione, come la soluzione più coerente alla luce degli obblighi internazionali, sebbene esso sia applicabile solo in presenza di determinate condizioni.

Innanzitutto, non può invocare l’art. 54 c.p. il soggetto che avrebbe potuto sottrarsi alla minaccia rivolgendosi alla pubblica autorità, purché tale alternativa fosse concretamente esperibile ed idonea a neutralizzare la situazione di pericolo attuale.

Ciò è ancor più vero se si considera che all’autorità giudiziaria si chiede di procedere con l’identificazione della vittima di tratta, in presenza di elementi sintomatici di tale forma di sfruttamento.

L’accertamento condotto dalla magistratura deve, pertanto, considerare tutte le circostanze del caso concreto per verificare se l’imputato fosse vittima di tratta e, in caso di riscontro positivo, se ricorressero tutti gli estremi dell’art. 54 c.p. (stato di costrizione, attualità ed inevitabilità del pericolo di un danno grave alla persona, confronto tra i beni in conflitto nell’ottica del giudizio di proporzione).

 

7. Il giudizio in questione, inoltre, deve essere svolto considerando anche quanto stabilito dall’art. 10, par. 2 della Convenzione di Varsavia[12] e dall’art. 11, par. 4 della Direttiva 2011/36/UE[13], secondo cui il processo di individuazione delle vittime di tratta deve essere fondato su precisi indicatori che considerino la resistenza della vittima nel riferire la sua posizione.

In particolare, si richiamano: il timore delle conseguenze di un’eventuale denuncia; la scarsa percezione della propria situazione; una sorta di riconoscenza da parte della vittima nei confronti del trafficante, che abbia reso possibile il viaggio verso l’Italia; la difficoltà nel rivivere il proprio passato, raccontando le violenze subite e la sfiducia nelle autorità.

A livello nazionale, sono stati poi introdotti alcuni strumenti utili per l’individuazione delle cd. “persone trafficate”, oggi contenuti nelle “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento”, allegate al “Piano nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento”, introdotti dall’art. 13 della legge 228/2003[14].

Queste linee guida hanno recepito non solo gli indicatori, ma anche i protocolli contenuti nei documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali, tra cui anche UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) e denominati “Indicators of trafficking in persons”.

Gli indicatori in oggetto sono dei “parametri sintomatici”, di portata generale o specifica, suddivisi in ragione dell’ambito di sfruttamento (sessuale, lavorativo, contesto di delinquenza diffusa), il cui impiego ha consentito alla Corte di cassazione di elaborare un elenco esemplificativo di indici tipici della tratta: essere donna o minorenne in condizioni economiche disagiate con basso livello di istruzione; provenire da un Paese esposto al fenomeno della tratta; aver percorso rotte utilizzate da organizzazioni criminali; aver vissuto esperienze di sfruttamento; aver contratto debiti prima e durante il viaggio dal Paese di origine; aver subito la sottrazione dei documenti d’identità; non avere alcuna conoscenza della lingua del Paese di destinazione, anche dopo una lunga permanenza in esso; aver vissuto esperienze di sfruttamento nei Paesi di transito; essere ospite presso abitazioni note alle forze di polizia per la presenza di fenomeni di sfruttamento sessuale o lavorativo o attività delinquenziali.  

I parametri così richiamati non sono applicabili solo dalle Commissioni territoriali ai fini della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, ma anche dall’Autorità giudiziaria, chiamata a far emergere il fenomeno della tratta di persone e ad apprestare un’adeguata tutela contro il rischio di vittimizzazione secondaria.

 

8. Da ultimo, una volta accertata la posizione di vittima di tratta, il giudice sarà chiamato a scegliere se applicare il primo o il terzo comma dell’art. 54 c.p., soprattutto quando, in una situazione di coazione relativa, la vittima non abbia subito un totale annullamento della sua sfera volitiva.

La verifica dei presupposti della scriminante, dunque, deve essere condotta partendo dalla cd. “posizione di vulnerabilità”, disciplinata a livello nazionale dal solo codice di procedura penale.

L’art. 90-quater c.p.p., infatti, si preoccupa di garantire la vittima in condizione di particolare vulnerabilità, imponendo allo Stato l’obbligo di predisporre strumenti capaci di tutelare i diritti umani fondamentali.

A ciò si aggiunge la previsione dell’art. 2, par. 2 della Direttiva 2011/36/UE che definisce la “vulnerabilità” non come una condizione soggettiva, ma come una situazione in cui la vittima non ha altra scelta se non cedere agli abusi subiti: in quest’ottica, l’attenzione non ricade più sulla persona ma sulla struttura del delitto, nel rispetto della dignità umana ex artt. 2 Cost. e 8 Cedu.

Nello stesso senso si esprime anche il Considerando 11 della Direttiva 2011/36/UE, che ha ricompreso nella nozione di tratta anche lo “sfruttamento di attività criminali”, tra cui rientra lo sfruttamento di una persona perché commetta vari reati contro il patrimonio o in materia di stupefacenti.

Alla luce di tali motivazioni, il Giudice di legittimità ha statuito che una persona in condizione di vulnerabilità può invocare la scriminante dello stato di necessità quando sia vittima di tratta, sia asservita ai capi di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico e sia costretta a trasportare la sostanza stupefacente, non potendosi sottrarre in alcun modo alla situazione di pericolo (per es. ricorrendo alla protezione dell’Autorità).

***

 

9. I molteplici profili di rilievo della pronuncia in oggetto consentono di svolgere alcune considerazioni.

In primo luogo, emerge come nel nostro ordinamento manchi una disposizione che recepisca espressamente la causa di non punibilità della vittima di tratta per i reati commessi a causa dello stato di sfruttamento (art. 26 Convenzione di Varsavia).

A ciò si aggiunge che, a livello nazionale, le nozioni di “vittima di tratta” e di “posizione di vulnerabilità” non sono definite con la stessa precisione delle fonti sovranazionali.

Il diritto interno, infatti, disciplina solo nell’art. 90-quater c.p.p. la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa, desunta dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica della stessa, ma anche dalle circostanze del caso specifico, dal tipo di reato e dalle modalità della condotta.

Al tempo stesso, oltre alla commissione del reato con violenza o mosso dall’odio razziale o da finalità discriminatorie, la norma incrimina l’ipotesi in cui la fattispecie concreta si sia consumata nell’ambito della criminalità organizzata o del terrorismo.

Infine, dirimente, ai fini del riconoscimento della vulnerabilità della persona offesa, è la verifica sulla dipendenza affettiva, psicologica o economica della vittima nei confronti dell’autore del reato.

Questi aspetti, tuttavia, sono ininfluenti nel caso di specie, in quanto l’art. 90-quater c.p.p., come si desume dal suo incipit, rileva ai soli “effetti delle disposizioni del presente codice”.

10. È quindi necessario spostare il baricentro dell’analisi sul diritto penale sostanziale, dove risalta il confronto con il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.) e con quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.).

L’art. 600 c.p., infatti, non solo incrimina chi riduce o mantiene una persona in uno “stato di soggezione continuativa”, costringendola a prestazioni di vario genere (attività di accattonaggio, sessuali o comunque illecite) che ne comportino lo sfruttamento (co. 1), ma sanziona anche l’approfittamento di una “situazione di vulnerabilità” (co. 2), dopo la modifica apportata dall’art. 2 d.lgs. 24/2014. 

Sotto questo profilo, la giurisprudenza di legittimità è concorde nell’affermare che lo stato di soggezione continuativa non richiede un’integrale negazione della libertà personale, potendosi ravvisare anche a fronte di una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa: ne deriva che tale condizione deve essere rapportata all’intensità del vulnus arrecato alla sfera volitiva della vittima[15]

Più complicato è stato, invece, circoscrivere la vulnerabilità oggetto dell’altrui approfittamento: in tal senso, fondamentale è stato il dettato dell’art. 2, par. 2 della Direttiva 2011/36/UE, che la definisce come “la situazione in cui la persona in questione [la persona offesa] non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”.

Oltre al ruolo delle fonti eurounitarie, centrale è la funzione svolta dagli indicatori previsti non solo dalla Convenzione di Varsavia e dalle direttive europee, ma anche dai protocolli elaborati dalle diverse organizzazioni internazionali.

Evidenziato come tali parametri sintomatici siano stati recepiti dal legislatore italiano con l’art. 13 l. 228/2003, si deve dare atto della centralità assunta dagli indicatori non solo in sede legislativa, ma anche giurisprudenziale.

In primo luogo, infatti, sempre più spesso il legislatore ricorre ad una tipizzazione dinamica, ispirata ad una logica di carattere procedimentale-probatorio, in cui le esperienze giuridiche pregresse assumono una valenza regolatrice di fatti complessi[16].

Un valido esempio è offerto dal cd. “delitto di caporalato”, nel cui testo la legge 199/2016 ha introdotto alcuni indici alternativi di sfruttamento, quali la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dalla contrattazione collettiva nazionale e sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro svolto, oltre alla violazione sistematica della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo e ferie.

Ancora, si assumono come parametri utili la violazione della legislazione in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, di sorveglianza o alloggiative degradanti.

Come osservato da autorevole dottrina[17], questi indici sintomatici, in quanto strumenti funzionali alla verifica probatoria, agevolano l’accertamento della sussistenza della condotta di sfruttamento, ma non coincidono con l’oggetto della prova[18].

La differenza rispetto al delitto di tratta di persone, pertanto, risiede nella collocazione e nella diversa prova di resistenza ad essi attribuita: sebbene siano entrambi indici o parametri sintomatici, quelli sullo sfruttamento del lavoro sono inseriti direttamente nel testo della fattispecie di reato, mentre per la tratta di persone si rinvia a strumenti di soft law, sia pur rispettosi delle convenzioni internazionali.

Per quanto riguarda la giurisprudenza, invece, è noto come la funzione degli indici si sia imposta fin dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sul caso Thyssenkrupp[19]: in quella pronuncia, l’uso di un “catalogo aperto” di indicatori ha agevolato la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, ispirando poi alcune pronunce in materia di omicidio e lesioni stradali ed il legislatore nell’introduzione degli artt. 589-bis e 590-bis c.p.[20].  

La sentenza allegata si inserisce, pertanto, nel solco della giurisprudenza richiamata, come si desume dall’elenco esemplificativo e non tassativo di parametri sintomatici (generali e specifici), suddivisi in ragione dell’ambito di sfruttamento delle vittime (par. 5. 2).

11. La pronuncia qui analizzata, infine, è di interesse per il rilievo attribuito allo stato di necessità: sebbene la Cassazione si sia astenuta dall’inquadrare l’art. 54 c.p. nella teoria generale del reato, le conseguenze derivanti dalla sua applicazione non sono di poco momento.

La natura giuridica dello stato di necessità è, infatti, questione dibattuta tra chi lo qualifica come scriminante e chi propende per la tesi della scusante (rispettivamente riconducibili all’antigiuridicità o alla colpevolezza)[21], in relazione al comma considerato. 

Lo stato di necessità, pertanto, può essere inteso in senso soggettivo o oggettivo, a seconda che si preferisca una soluzione più vicina al principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico o a quello di inesigibilità[22].

Da tale scelta [23], i  cui estremi sono qui solo accennati,  derivano così ripercussioni di carattere sistematico: si pensi, per esempio, al tema della comunicabilità ai concorrenti delle cause di giustificazione (non prevista per le scusanti) e della loro rilevanza obiettiva ex art. 59, co. 1 c.p..

Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, invece, la scriminante dello stato di necessità, sia pur di rarissima applicazione, è stata invocata (spesso invano) in diversi ambiti, dai reati tributari[24] all’occupazione abusiva di immobili[25], dai reati in materia di immigrazione[26] a quelli commessi dalle vittime del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù[27].

Da ultimo, un ulteriore aspetto applicativo, lasciato aperto dalla sentenza allegata, è rappresentato dalla diversa portata dell’art. 54, co. 1 e co. 3: se in uno la condotta non sarà penalmente perseguibile, nell’altro l’unico responsabile sarà chi abbia costretto altri ad agire.

Nel caso di specie, quindi, laddove il giudice ritenesse di applicare l’art. 54, co. 3 c.p., dei reati commessi dalle vittime di tratta, a causa dello stato di costrizione cui siano costrette, risponderanno gli organizzatori del viaggio, spesso membri di associazioni a delinquere dedite a diversi reati-fine, tra cui anche quelli previsti dal Testo unico in materia di stupefacenti.   

 

 

[1] Sulla controversa nozione di “sfruttamento” nel diritto penale, soprattutto con riguardo agli artt. 600 c.p. (Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) e 603-bis c.p. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), si vedano A. Peccioli, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, in Dir. pen. proc., 8/2023, p. 1044 ss.

[2] N. Zammarchi, I “segret cults” nigeriani. Aspetti criminologici e penalistici di un fenomeno in espansione, in Leg. Pen., 1/2023, pp. 369-413.

[3] Corte EDU, Rantsev c. Cipro del 7 gennaio 2010, dove la Corte di Strasburgo ha statuito come la tratta, sia pur non menzionata espressamente nell’art. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a differenza dell’art. 5, par. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), debba esservi ricompresa, in quanto al pari della “schiavitù”, della “servitù” e del “lavoro forzato e obbligatorio”, comporta uno stretto controllo delle attività delle vittime, i cui movimenti sono spesso limitati, nonché l’uso di violenza e minacce nei confronti delle stesse, che vivono e lavorano in condizioni di indigenza.

[4] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito del 16 febbraio 2021, la cui importanza deriva dall’aver considerato per la prima volta la posizione, anche giudiziaria, delle vittime e non la sola responsabilità dello Stato: quest’ultimo, infatti, viola l’obbligo di adottare le misure di protezione necessarie in favore delle vittime di tratta, laddove persegua penalmente una persona che possa essere ragionevolmente ritenuta vittima di tratta.

[5] Sulla posizione della vittima di tratta, la cui limitazione della libertà di autodeterminazione non deve necessariamente comportare un totale annullamento della sua facoltà volitiva, cfr. Cass., sez. III, sentenza del 2/02/2022, n. 15654 (in senso non dissimile, ma sull’art. 600 c.p., Cass., sez. V, sentenza del 17/02/2020, n. 15662).  

[6] In merito alla previsione di una tutela anche sotto il profilo patrimoniale, si rinvia alla giurisprudenza della Corte Edu, secondo cui “l’articolo 4 della Convenzione, interpretato alla luce del suo oggetto e del suo scopo e in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed efficaci, stabilisce un obbligo positivo da parte degli Stati contraenti di consentire alle vittime della tratta di chiedere un risarcimento ai loro trafficanti per il mancato guadagno” (Corte EDU, Krachunova c. Bulgaria del 28 novembre 2023).

[7] A. Peccioli, La tutela delle vittime vulnerabili nei delitti di riduzione in schiavitù e tratta, in Dir. pen. proc., 7/2015, pp. 879-884 e F. Parisi, Il contrasto al traffico di esseri umani tra modelli normativi e risultati applicativi, in Riv.it.dir.proc.pen., 4/2016, pp. 1763-1802.

[8] Corte di giustizia, sentenza 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari e altri c. Università degli Studi di Bologna e altri.

[9] Corte cost., sent. nn. 36/2016, 276/2016, 68/2017 e 109/2017.

[10] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, par. 47.

[11] Corte di giustizia, sentenza 7 gennaio 2004, causa C-58/02, Commissione c. Spagna, par. 28.

[12] In particolare, ciascuna delle Parti adotta le misure legislative o le altre misure necessarie ad identificare le vittime in collaborazione, se del caso, con le altre Parti e con le organizzazioni che svolgono un ruolo di sostegno. Ciascuna delle Parti si assicura che, se le autorità competenti hanno ragionevoli motivi per credere che una persona sia stata vittima della tratta di esseri umani, quella persona non venga allontanata dal proprio territorio finché la procedura d’identificazione, che la vede vittima di un reato previsto dall’articolo 18 della presente Convenzione, sia stata completata dalle autorità competenti e si assicura che la persona riceva l’assistenza di cui all’articolo 12, paragrafi 1 e 2”.

[13] “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per predisporre adeguati meccanismi di rapida identificazione, di assistenza e di sostegno delle vittime, in cooperazione con le pertinenti organizzazioni di sostegno”.

Si tratta di Linee guida periodicamente aggiornate e recepite negli Allegati nn. 1-2 al Piano nazionale, adottate per garantire la piena attuazione della Convenzione di Varsavia, specie dove prevede la necessità di apportare un’adeguata protezione alle vittime di tratta, nel quadro di una più ampia politica di prevenzione del fenomeno criminale qui in rilievo.

[14] A. Peccioli, Commento alla legge 11 agosto 2003, n. 228, in Dir. pen. proc., 1/2004, p. 36 ss.

[15] Cass., sez. V, sentenza del 16/05/2017, n. 42751.

[16] Sulla rilevanza degli indici nel cd. “delitto di caporalato”, A. Di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, il Mulino, Bologna, 2019, pp. 59-149 e, ancora, A. Di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità tra sfruttamento lavorativo, tratta e schiavitù. Contenuti e metodi fra diritto nazionale e orizzonti internazionali, in Arch. Pen., 1/2019.

[17] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, VIII ed., Cedam, Padova, 2022, p. 327 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, II, Tomo I, I delitti contro la persona, VI ed., Zanichelli, Bologna, 2021, p. 194; S. Seminara, I delitti contro la personalità individuale, in R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, II ed., Giappichelli, Torino, 2022, p. 138 ss.

[18] A. Peccioli, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, in Dir. pen. proc., 8/2023, p. 1044 ss.

[19] Cass., Sez. Un., sentenza del 24/04/2014, n. 38343.

[20] Cass., sez. V, sentenza del 23/02/2015, n. 23992 e Cass., sez. I, sentenza del 16/09/2015, n. 37606.

[21] Sulla natura giuridica dello stato di necessità e sul rapporto con l’antigiuridicità, si veda F. Mantovani, secondo cui “il problema dell’antigiuridicità è intimamente connesso al problema delle fonti”, la quale può essere “formale o sostanziale a seconda che si assuma come fonte del diritto penale la sola legge positiva o anche altre fonti extralegali” (cfr. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, XII ed., Cedam, Padova, 2023, pp. 105-106). Per un’ampia ricostruzione sul punto, si rinvia a G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv.it.dir.proc.pen., 4/1983, pp. 1190-1240. Ancora, a livello manualistico, C.F. Grosso – M. Pelissero – D. Petrini – P. Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Giuffrè, Milano, 2023, pp. 302 ss. e B. Romano, Diritto penale. Parte generale, IV ed., Giuffrè, Milano, 2020, pp. 288 ss. Infine, in merito al rapporto tra lo stato di necessità e l’art. 384 c.p., R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, II ed., Giappichelli, Torino, 2022, pp. 683 ss.

[22] F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Giappichelli, Torino, 2018, pp.118-123 e F. Viganò, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Giuffrè, Milano, 2000, passim. Si soffermano sui labili confini delle scusanti e delle scriminanti anche F. Bellagamba, I problematici confini della categoria delle scriminanti, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 333 ss. ed E. Venafro, Scusanti, Giappichelli, Torino, pp. 1-33.   

[23] G. Marinucci ha enfatizzato la necessità di una rigida distinzione tra scriminanti e scusanti, in quanto numerosi sono i problemi “la cui comprensione e i cui nessi verrebbero velati senza necessità cogente lavorando con un’unica categoria” (Id., Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv.it.dir.proc.pen., 4/1983, p. 1194). Ancora, è interessante notare come tale dibattito non si sia sviluppato negli stessi termini nell’ordinamento penale tedesco (dove pure è sorto), in quanto l’attuale §34 StGB ha recepito distintamente uno stato di necessità “scusante” ed uno “scriminante” (sul punto, diffusamente, F. Viganò, ult. op. cit., pp. 1-137). La questione, secondo l’A. risente anche della reductio ad unum, operata dal legislatore del 1930, delle diverse tradizioni codicistiche preunitarie (di ispirazione francese e germanica, tra loro divergenti).

[24] Le Sezioni Unite n. 37424/2013 hanno escluso che la crisi di liquidità sia una causa di esclusione della colpevolezza quando non sia riconducibile alla scelta di non far debitamente fronte al dissesto dell’impresa, per esempio attivando le procedure di ricomposizione della crisi o di ristrutturazione del debito (ex multis, Cass., sez. III, sentenza del 10/09/2020, n. 28488).  In dottrina, P. Aldovrandi, La crisi di liquidità nel prisma del diritto penale tributario: la trasfigurazione nel diritto vivente del “rischio d’impresa” in “rischio penale”, in Riv.trim.dir.pen.ec., 3-4/2022, pp. 409-450 e M. Capogrossi, Omesso versamento IVA e crisi di liquidità: il pericolo della criminalizzazione del rischio di impresa, in Cass. pen., 10/2022, pp. 3611-3618.

[25] Cass., sez. II, sentenza del 15/09/2020, secondo cui è inapplicabile l’art. 54 c.p. a fronte di una emergenza abitativa non contingente, caratterizzata da una sorta di cronicità e destinata a protrarsi nel tempo.

[26] Cass., sez. I, sentenza del 24/11/2011, n. 5061, dove si è applicato l’art. 54 c.p. in un caso di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (art. 10-bis d.lgs. 286/1998).

[27] Cass., sez. III, sentenza del 15/02/2012, n. 19225. In particolare, si segnala Cass., sez. III, sentenza del 2/02/2005, n. 3368, dove si è precisato come lo stato di necessità cui fa riferimento l’art. 600 c.p. non sia riconducibile all’art. 54 c.p., in quanto elemento della fattispecie e non causa di giustificazione.