Pubblichiamo di seguito un contributo del dott. Fabio Fiorentin, Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Venezia, che sviluppa alcune riflessioni emerse in occasione del workshop "Liberi sospesi. Tra crisi del sistema dell’esecuzione penale e rispetto dei principi costituzionali" tenutosi presso il Dipartimento 'C. Beccaria' dell'Università degli Studi di Milano lo scorso 24 settembre 2024.
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1. Premessa. La condizione dei condannati “liberi sospesi” – espressione coniata, all’indomani dell’entrata in vigore della l. n.165/98, dall’allora presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, Mario Vaudano ed ispirata all’espressione dantesca di coloro che, appunto, “son sospesi” (Inferno, II, 52) in una condizione limbica di attesa – riguarda ormai un numero elevatissimo di esecuzioni, stimabile, forse per difetto, attorno alle 100.000 posizioni e tale da esigere l’attenzione di studiosi e operatori.
Il tentativo di individuare possibili soluzioni a quella evocata situazione dovrebbe necessariamente abbracciare una prospettiva ampia e multifocale, non potendosi ignorare le ricadute che qualunque modifica della disciplina attualmente vigente in relazione alla situazione dei condannati a pena provvisoriamente sospesa ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p., qualora non sia “di sistema”, rischia di innescare sul versante della pena eseguita nella forma carceraria, trattandosi di due sistemi connessi che si comportano come una sorta di “vasi comunicanti”.
Proprio considerando questa stretta interconnessione, la riforma del 1998 (legge “Simeone-Saraceni”), ha introdotto il meccanismo della sospensione dell’ordine di esecuzione, mirando – tra l’altro – a limitare l’ingresso negli stabilimenti penitenziari in prospettiva di deflazione del sovraffollamento carcerario (nella medesima prospettiva si introdusse, altresì, la misura della detenzione domiciliare “generica” per pene inferiori ai due anni applicate per delitti diversi da quelli indicati nell’art. 4-bis, l. n. 354/75).
Con una tale consapevolezza, viene da chiedersi cosa accadrebbe se, per ipotesi, fossero definiti in tempi brevissimi tutti i procedimenti dei liberi sospesi: ove si dovesse giungere al totale azzeramento dell’attuale numero delle esecuzioni sospese, il sistema semplicemente collasserebbe, sia sul versante della già difficile situazione carceraria (poiché inevitabilmente una certa aliquota di posizioni “sospese” verrebbe definita negativamente, con ingresso nel sistema carcerario dei condannati: infatti, anche solo il 10% di mancate applicazioni di un beneficio extramurario comporterebbe l’ingresso in carcere di 10.000 nuovi detenuti), sia su quello dell’esecuzione penale esterna, poiché né l’esiguo numero dei magistrati di sorveglianza attualmente in organico né le articolazioni esterne (UEPE, Ser.d., CSM, comunità) sarebbero in grado di assorbire efficacemente i percorsi esterni dei condannati ammessi ai benefici. Neppure le forze dell’ordine, a fronte di una tale massa di soggetti in esecuzione penale esterna, sarebbero nelle condizioni di assicurare i necessari controlli per la tutela delle esigenze preventive pur sempre connesse all’esecuzione alternativa al carcere.
Che fare, allora? Iniziamo con il dire che tutte le analisi concordano nell’indicare nella carenza di risorse materiali e di personale la principale delle cause sia della situazione di sistemico sovraffollamento degli istituti penitenziari, sia dell’eccessivo numero delle esecuzioni sospese in attesa di decisione da parte dei tribunali di sorveglianza.
Spazi insufficienti, scarsità di educatori, psicologi e personale di polizia penitenziaria, stabilimenti penali degradati e malsani materializzano un’esecuzione della pena carceraria somministrata in condizioni tali da negare sistematicamente le condizioni minime di dignità della persona umana, esponendo lo Stato italiano a censure sia in sede europea che davanti alle corti nazionali, dove le condanne per violazione dell’art. 3 CEDU e dell’art. 35-ter l. n.354/75 si contano in migliaia ogni anno.
Insufficienti risorse assegnate agli UEPE e carenze di organico presso le cancellerie di tribunali e uffici di sorveglianza, che mediamente si attestano intorno al 30-40%, rendono la risposta di giustizia intollerabilmente lenta e inadeguata a garantire in tempi ragionevoli la definizione del percorso esecutivo delle persone condannate.
A fronte di tale quadro, occorre peraltro considerare che non sembra probabile, nel breve periodo, un mutamento dell’indirizzo seguito dai governi che si sono succeduti nel tempo, contraddistinto da riforme “a costo zero” che, mentre hanno progressivamente appesantito il carico burocratico delle competenze gravante sulla magistratura di sorveglianza, hanno sistematicamente privato il settore dell’esecuzione penale delle risorse materiali, finanziarie e di personale necessarie a garantirne l’efficiente funzionamento.
Ciò premesso, l’attenzione deve necessariamente rivolgersi a soluzioni che possano affrontare le problematiche connesse alla situazione dei “liberi sospesi” tenendo realisticamente conto di quanto sopra si è constatato. Più che una – oggi purtroppo sterile – richiesta di aumento delle risorse da immettere nell’agonizzante sistema dell’esecuzione penale, occorre piuttosto valutare le possibili soluzioni per adattare il quadro giuridico-normativo e le soluzioni organizzative all’attuale scarsità delle risorse disponibili.
2. Le proposte di riforma: vantaggi e criticità.
Avuto riguardo alla duplice premessa che si è sopra indicata (evitare di accentuare il già drammatico overcrowding carcerario e operare con le risorse attualmente disponibili), si cercherà qui di riassumere il ventaglio di soluzioni possibili, illustrandone vantaggi e criticità.
2.1. Le riforme del sistema sanzionatorio.
a) Indulto.
La più immediata soluzione può individuarsi in un provvedimento di natura clemenziale (indulto), che avrebbe l’effetto di far scendere in tempi brevissimi il numero sia delle persone detenute che dei “liberi sospesi” e delle persone sottoposte a misure di comunità: con un’attenta calibratura sulla dimensione quantitativa della pena che verrebbe estinta e delle limitazioni alla fruizione del beneficio (escludendone, a es., i condannati per reati gravi o di allarme sociale e le persone attinte da misure di prevenzione) il beneficio potrebbe consentire la immediata fuoriuscita dal circuito penitenziario di alcune migliaia di soggetti, offrendo un pronto sollievo alla situazione di sofferenza del sistema, riportando l’esecuzione intramuraria nell’alveo della legalità convenzionale, rendendo non sistematica la violazione dell’art. 3 CEDU. Un tale risultato si avrebbe già solo prevedendo l’estinzione dell’ultimo anno, o degli ultimi 18 mesi di pena, e dunque identificando l’area del beneficio clemenziale con quella che già a normativa vigente consente l’accesso all’esecuzione della pena presso il domicilio (l. n. 199/10).
Tra le condizioni di accesso alla misura in esame potrebbero essere contemplate quelle che già legittimano la concessione della liberazione anticipata, oltre alla buona condotta penitenziaria e l’impegno a seguire dei percorsi di educazione alla legalità e di formazione lavoro, a pena di revoca del beneficio.
In altri termini, anche per essere più coerente con il principio di effettività della pena, l’eventuale beneficio clemenziale dovrebbe riguardare condannati per reati non gravi nella parte terminale del percorso esecutivo, già in possesso dei requisiti che in astratto consentirebbero loro l’accesso alle misure extramurarie (ma che, a es., non possono accedere alla detenzione domiciliare per mancanza di un domicilio).
Tuttavia, un provvedimento di tale natura avrebbe senso se fosse accompagnato da una riforma organica delle pene e delle procedure per l’applicazione ed esecuzione delle stesse, poiché l’esperienza pregressa insegna che, in assenza di riforme, i provvedimenti di clemenza non sortiscono alcun effetto di lungo periodo e, anzi, contribuiscono paradossalmente ad aggravare la situazione perché offrono al decisore politico un commodus discessus per evitare di affrontare alla radice le problematiche con le necessarie misure riformatrici. Questa considerazione introduce alla seconda soluzione possibile:
b) La riforma delle pene.
La strada riformatrice dovrebbe, infatti toccare il tema dell’introduzione di pene ontologicamente diverse da quelle detentive, orientandosi su quelle che la dottrina indica quali “pene-programma” o “pene-progetto” applicate già nella sede di merito del processo penale, idonee a sottrarre un numero rilevante di esecuzioni ai tradizionali percorsi che portano alla carcerazione del condannato o alla sospensione dell’ordine di esecuzione.
Ambito di elezione di tali nuove pene dovrebbe essere quella dei reati che esprimono un disagio sociale e la difficoltà di integrazione nella società, la c.d. microcriminalità e molte delle violazioni del precetto penale relative all’ambito fiscale, ambientale o amministrativo. Nella prospettiva di deflazione del sovraffollamento, invero, occorre riflettere sul fatto che una parte significativa della popolazione detenuta “rappresenta una marginalità sociale che avrebbe dovuto trovare altre risposte” perché “altre forme di supporto e riduzione dei conflitti e delle difficoltà che abitano la collettività hanno fallito” (Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Relazione al Parlamento 2023).
Nella medesima prospettiva, una riforma del codice penale dovrebbe considerare, per molti reati, l’istituto del “delitto riparato” (Donini) in chiave sia restitutoria (attraverso forme di risarcimento materiale) che riparativa (GR mediativa), quale istituto che porta all’estinzione della pena anche in sede esecutiva (v. punto successivo).
c) La giustizia riparativa.
Per una serie molto nutrita di reati potrebbe, inoltre, essere valutata l’implementazione della giustizia riparativa in chiave di estinzione del reato e della pena anche se avviata post iudicatum in sede esecutiva. L’area di operatività dell’effetto estintivo in esame potrebbe individuarsi all’interno dei reati puniti a titolo di contravvenzione che, tra l’altro, incontrano spesso il destino della prescrizione nella fase esecutiva.
L’applicazione della giustizia riparativa in ambito penale rappresenta, infatti, uno strumento importante per incidere sulla recidiva e per superare i limiti della risposta carcerocentrica al problema penale.
d) Le pene sostitutive.
Intervenendo sulla l. 689/81, la riforma ha introdotto nell’ordinamento le nuove pene sostitutive della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del lavoro di pubblica utilità sostitutivo ed ha modificato, altresì, la disciplina della pena pecuniaria sostitutiva, consentendo così l’adozione di misure alternative al carcere per condanne fino a quattro anni, già nella fase di merito, senza il passaggio davanti al giudice di sorveglianza, in precedenza necessario ai sensi dell’art. 656 c.p.p.
Alla luce dei dati contenuti nel Rapporto sullo stato dell’esecuzione delle misure e sanzioni di comunità, aggiornato al 15 novembre 2023, che contiene anche i primi dati relativi all’applicazione delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi, introdotte con la riforma “Cartabia”, risulta che il numero di applicazioni totali (1.472) conferma la vitalità della nuova disciplina, con 246 detenzioni domiciliari sostitutive, 2 semilibertà sostitutive e 1.224 provvedimenti di lavoro di pubblica utilità.
Se – com’era prevedibile – la semilibertà sostitutiva non riscuote un grande successo, imponendo quell’immediato contatto del condannato con il carcere che il meccanismo di sospensione di cui al comma 5, art. 656 c.p.p. consente, invece, di evitare fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, la detenzione domiciliare sostitutiva, che pure non ha avuto un’applicazione così ampia, ha tuttavia molte potenzialità espansive.
Tutto si gioca, infatti, sulla flessibilità applicativa consentita dal sistema sotto il profilo della modulazione delle prescrizioni (basti pensare che al detenuto domiciliare può essere concessa la libertà di permanere fuori dal domicilio dalle 4 alle 12 ore al giorno) così da avvicinare la misura domiciliare, nel suo contenuto sostanziale, all’affidamento in prova (art. 47 ord. penit.), misura che non è stata compresa tra le nuove pene sostitutive dal D.lgs n.150/22 poiché non prevista dalla legge delega n.134/2021 e la cui omissione, secondo un’opinione largamente diffusa, rappresenta uno dei più gravi freni all’utilizzo delle sanzioni sostitutive.
Il lavoro di pubblica utilità, infine, con più di 1200 applicazioni, si colloca – come era prevedibile – al vertice delle preferenze, sia perché si tratta di una misura già ben sperimentata, sia perché può comportare, a determinate condizioni (art. 56-bis l. 689/81) la revoca della confisca eventualmente disposta e la non applicabilità al condannato della sospensione della patente (art. 120 D.lgs. 285/1992), il cui possesso molto spesso rappresenta un requisito necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
I dati delle applicazioni del LPU ante riforma lasciano intravedere ancor più ampie potenzialità applicative di tale modalità esecutiva anche nella sua nuova veste di pena sostitutiva: nel 2021 i condannati in carico agli UEPE in esecuzione del LPU erano 15.228, per reati connessi alla circolazione stradale, e 1.004, per reati in materia di stupefacenti; nel 2022, rispettivamente, 15.179 e 1.063 e al 31 maggio 2023, 12.616 e 1071.
Per implementare ulteriormente l’effetto deflativo delle pene sostitutive sul numero dei “liberi sospesi” appare, tuttavia, necessario superare l’opzione di non inserire tra le nuove sanzioni l’affidamento in prova quale pena sostitutiva. In chiave riformatrice, sarebbe necessario intervenire su questo profilo per imprimere al sistema delle pene sostitutive l’abbrivio necessario per dare il contributo che potrebbe alla deflazione del numero delle esecuzioni penali che partono dalla situazione di “libero sospeso”.
L’affidamento in prova, infatti, con la tenuità delle prescrizioni limitative della libertà personale è di gran lunga preferibile alla detenzione domiciliare, consentendo, a differenza di quella, l’estinzione della pena pecuniaria eventualmente irrogata e le pene accessorie non perpetue.
Nella medesima ottica riformatrice andrebbe, altresì, superata l’attuale previsione che impone l’espiazione di almeno metà della pena sostitutiva per l’ammissione all’affidamento in prova.
2.2. Le riforme di natura processuale e procedurale.
e) Le misure per i tossicodipendenti.
Una quota consistente di condannati è interessata da dipendenza connesse all’uso di stupefacenti o di alcol. Molto spesso, a tale condizione si associano problematiche di natura psichiatrica. Per queste persone, l’ambiente carcerario è del tutto inadeguato a gestirne le esigenze terapeutiche. L’obiettivo della deflazione del numero dei liberi sospesi e del sovraffollamento carcerario dovrebbe trovare un punto di sintesi attorno all’obiettivo di evitare, per quanto possibile, l’ingresso in carcere di condannati tossicodipendenti, per i quali dovrebbe aprirsi la strada della detenzione domiciliare o, preferibilmente, dell’affidamento terapeutico in strutture comunitarie adatte ai loro bisogni. In carcere, infatti, i soggetti tossicodipendenti alimentano i traffici illeciti, creano problemi di ordine pubblico e di gestione e non sono adeguatamente curati. Rispetto al costo della comunità, inoltre, quello del mantenimento in carcere è sicuramente di gran lunga superiore.
In questa prospettiva l’art. 8 del decreto-legge n.92/24 ha affrontato il grave problema costituito dai molti detenuti privi di soluzioni abitative esterne e, per tale motivo, spesso esclusi dall’accesso alle misure alternative e ai benefici esterni al carcere. Con l’obiettivo di favorire il deflusso dagli stabilimenti penitenziari verso strutture di tipo residenziale comunitario, il d.l.92/24 ha istituito presso il Ministero della giustizia un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che sono in possesso dei requisiti per accedere alle misure penali di comunità, ma che non hanno la disponibilità di un domicilio idoneo e versano in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento all’esterno del carcere.
In sede di conversione del provvedimento di urgenza, la disposizione è stata integrata con un nuovo comma 6-bis, focalizzato sulla situazione dei condannati tossicodipendenti (il legislatore ha “dimenticato” i detenuti alcoldipendenti, ma un’estensione delle previsioni di nuovo conio a tale categoria di soggetti pare operazione ermeneutica tutto sommato agevole). Per ampliare le opportunità di accesso dei detenuti affetti da problematiche di dipendenza alle strutture sanitarie pubbliche o a strutture private accreditate, ai sensi del d.P.R. 309/90, incrementando il contingente annuo dei posti disponibili nelle predette strutture nonché per potenziare i servizi per le dipendenze presso gli istituti penitenziari a custodia attenuata è stata autorizzata la spesa massima di 5 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2024.
La previsione merita apprezzamento in quanto vuole rispondere ad una problematica reale che vede molte persone detenute che non possono accedere alla misura cautelare domiciliare (art. 89 d.P.R. 309/90) a all’affidamento terapeutico (art. 94 d.P.R. 309/90) presso le strutture comunitarie proprio per le lunghe in lista di attesa dovute alla insufficienza dei posti disponibili. La misura, oltre a rafforzare la finalità di recupero sociale dei moltissimi autori di reato affetti da problematiche di dipendenza, potrà contribuire alla deflazione delle eccessive presenze nelle carceri tenuto conto della notevole percentuale di soggetti ristretti potenziali fruitori di misure alternative di natura terapeutica.
Si tratta di una strada che dovrebbe essere favorita e implementata, per quanto possibile.
Analoghe previsioni dovrebbero essere previste per i sempre più numerosi condannati affetti da problematiche di disagio psichico, che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare (nelle forme di cui all’art. 47-ter, lett. c), ord.penit. ovvero in quelle indicate nella sentenza costituzionale n.99/2019) ma che – quasi sempre privi di adeguati supporti socio-familiari sul territorio - sono costretti, per la mancanza di posti disponibili nelle strutture residenziali esterne, alla permanenza in carcere. È, purtroppo, rimasta nel cassetto del legislatore anche la misura dell’affidamento terapeutico per condannati afflitti da problematiche di natura psichica, che già aveva formato oggetto dalla proposta di riforma elaborata nel 2018 dalla Commissione “Giostra.”
L’aspetto critico riguarda il profilo del finanziamento: le strutture terapeutiche lavorano in stretta connessione con i Ser.D. ed i CSM, a loro volta incardinati presso le ULSS e dipendenti, in definitiva, dai bilanci regionali. Il d.l. 92/24, tuttavia, non chiarisce se aumenteranno i fondi sanitari statali alle regioni.
f) Le modifiche processuali.
La magistratura di sorveglianza, proprio perché istituita quale magistratura specializzata nella fase dell’esecuzione, ha dimostrato di funzionare bene: i tassi di recidiva per i condannati ammessi alle misure di comunità sono bassissimi e questo risultato deriva anche dal lavoro di una magistratura, appunto, specializzata nella determinazione qualitativa della pena, sulla base di una procedura e di una istruttoria mirata proprio a valutare le caratteristiche della singola posizione per attagliare la misura alternativa più idonea nel caso concreto.
Con la riforma Cartabia si è in parte mutata prospettiva, traslando la competenza ad applicare alcune tipologie di pene sostitutive al giudice del merito. In concreto, tuttavia, si tratta praticamente solo del lpu, già da tempo “patrimonio” del giudice penale e della detenzione domiciliare, cioè di due misure non carcerarie a bassissimo o nullo coefficiente di risocializzazione (per la detenzione domiciliare, in particolare, non sono previste né ipotizzabili prescrizioni di facere quali la prestazione di attività di volontariato, adesione a programmi riparativi e simili).
In entrambi i casi, inoltre, si tratta di misure che non implicano, in concreto e salve ipotesi particolari, un’approfondita istruttoria sui profili sociali e familiari dell’interessato e sono dunque compatibili sia con l’esigenza di evitare la dilatazione dei tempi del processo di merito, sia con la natura non specializzata del giudice penale.
Per tali ragioni, appare discutibile l’ipotesi di traslare tout court al giudice del processo l’intera competenza in materia di applicazione delle misure di comunità, incluse le tipologie dell’affidamento in prova ordinario e terapeutico, ma anche i benefici della detenzione domiciliare speciale o di quella per la cura della prole (art. 47-ter, lett. a) e b), ord.penit.), che implicano una valutazione approfondita del contesto socio-familiare e delle esigenze specifiche del condannato/a.
Ci si deve chiedere, infatti, se una tale prospettiva assicurerebbe gli stessi risultati attualmente raggiunti in tema di contenimento della recidiva e di risocializzazione dei condannati. La risposta deve essere, probabilmente, negativa perché nel giudizio di merito non vi è lo spazio e il tempo per disporre un’istruttoria adeguata e mirata al profilo socio-familiare e terapeutico che afferisce all’interessato.
Né sarebbe pensabile e tantomeno esigibile un ruolo di supplenza dell’avvocatura, cui si addosserebbe l’onere non solo di difendere l’imputato dall’accusa che gli viene mossa in giudizio, ma anche di svolgere tutte le attività necessarie ad assicurare al medesimo l’ottenimento di una misura alternativa in caso di condanna. Tra l’altro, si imporrebbe alla difesa di attivarsi comunque fin dall’inizio del procedimento penale per il caso di condanna dell’assistito, il quale, da “presunto innocente”, dovrebbe sopportare costi e aggravi che, in ipotesi, potrebbero poi rivelarsi del tutto inutili nel caso di proscioglimento.
Da questo punto di vista si acuirebbe, inoltre, la disuguaglianza tra imputati che possono affrontare gli ingenti costi economici di difese ben attrezzate e strutturate, in grado di svolgere attività anche sul versante della eventuale misura alternativa, e imputati non abbienti, che verrebbero sostanzialmente lasciati a se stessi, una volta venuta meno l’istruttoria ufficiosa disposta dal tribunale di sorveglianza (non essendo, peraltro, ipotizzabile caricare le cancellerie dei tribunali ordinari della complessa istruttoria necessaria alla decisione sulle misure alternative, come l’acquisizione delle informative delle forze dell’ordine, della relazione sociale dell’UEPE, le certificazioni sanitarie o del Ser.d. ovvero del DSM).
Non da ultimo, l’attribuzione alla magistratura giudicante della competenza a determinare la modalità esecutiva della pena, articolata sulle misure alternative, finirebbe inevitabilmente per orientarne l’applicazione sulla base essenzialmente del titolo di reato e sul profilo giudiziario (precedenti penali, procedimenti pendenti, indagini in corso), senza alcuna possibilità di una valutazione approfondita del contesto sociale, familiare e lavorativo dell’interessato e, soprattutto, dell’evoluzione della condotta del soggetto successiva al reato, che esigerebbe tempistiche istruttorie incompatibili con quelle del processo penale. Ma, l’esame approfondito dell’evoluzione della personalità dell’autore di reato a valle del fatto-reato rappresenta - come insegna la costante giurisprudenza di legittimità – il profilo essenziale e determinante per una corretta dosimetria delle misure di comunità ed evita che il condannato sia “inchiodato al suo reato” e con esso finisca per identificarsi.
La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 149 del 2018, afferma invero che all’art. 27, terzo comma, è sotteso l’assunto «secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento».
g) L’ulteriore monocratizzazione del rito.
Sul versante delle modifiche processuali si può valutare l’ulteriore ampliamento della monocratizzazione della procedura di applicazione delle misure alternative, disciplinata dall’art. 678, comma 1-ter, c.p.p., originariamente introdotta con il d.lgs 123/18 per le condanne fino a 18 mesi per delitti non a carcerazione obbligatoria e quindi stabilizzata con il recente d.l. 92/24 che ha eliminato il passaggio procedurale che prevedeva la ratifica della decisione assunta dal giudice monocratico da parte del tribunale di sorveglianza.
Certamente, la moltiplicazione dei centri decisionali è un’opzione sul tappeto, tuttavia essa sconta alcune non trascurabili criticità, evidenziatesi anche nell’esperienza applicativa maturata medio tempore.
Anzitutto, il meccanismo è suscettibile di una effettiva azione deflativa soltanto nel caso di concessione della misura più ampia tra quelle richieste (ovvero dell’unico beneficio oggetto della domanda). Qualora, infatti, il giudice relatore non applichi alcun beneficio ovvero si orienti per una misura più restrittiva di quella richiesta in principalità, il lavoro dell’organo collegiale non sarà in alcun modo diminuito, poiché nel primo caso il fascicolo verrà fissato all’udienza di trattazione collegiale e nel secondo il tribunale di sorveglianza sarà investito della quasi certa opposizione del difensore alla decisione monocratica.
La ultimo, la monocratizzazione, per incidere davvero sui numeri dei liberi sospesi, dovrebbe estendersi ben oltre l’attuale limite di pena, che si arresta sulla soglia dei 18 mesi ma, così, determinerebbe uno svuotamento delle competenze del tribunale collegiale con l’effetto che le misure di comunità sarebbero, di fatto, applicate senza l’apporto dei saperi extragiuridici di cui sono portatori i componenti esperti e, per tale ragione, orientate sulla base della prevalenza dei dati giudiziari e delle informazioni delle forze dell’ordine.
La eccessiva dilatazione dell’area di decisione monocratica comporta, infine, alcuni rischi sul versante della possibile variabilità delle decisioni all’interno dello stesso distretto, venendo a mancare l’unicità del centro decisionale rappresentato dal tribunale collegiale, ma anche su quello della qualità delle decisioni stesse, venendo per il giudice monocratico a mancare – come si è accennato – l’apporto delle peculiari competenze scientifiche che possono essere condivise in un collegio composto anche da giudici non professionali (esperti medici, psicologi, etc.) e che costituiscono il proprium della giurisdizione rieducativa concentrata sulla persona del reo piuttosto che sul fatto-reato da lui commesso che resta il campo di esercizio della giurisdizione esercitata dal giudice del merito penale.
A ciascuno il suo.
h) “Liberi sospesi” e riforma Cartabia.
Un aspetto processuale che obiettivamente rallenta la messa in esecuzione delle condanne applicate dal giudice penale concerne la mancata definizione normativa dei rapporti tra le misure alternative e le pene sostitutive: se un soggetto “libero sospeso” ha in corso una pena sostitutiva, non è, infatti, chiaro quale sia il criterio di precedenza, come ci si regoli per eseguire l’eventuale misura alternativa concessa dal giudice di sorveglianza.
Ricorre, invero, con una certa frequenza nella pratica il concorso tra la misura di comunità e una pena sostitutiva (a es. il lpu), anche perché non sempre il tribunale di sorveglianza viene a conoscenza della esistenza di tale pena sostitutiva.
In questi casi, mancando una disciplina positiva che “regoli il traffico” (la disposizione dell’art. 70, l. n. 689/81 si riferisce infatti testualmente alle “pene detentive”), il giudice di sorveglianza potrebbe trovarsi nell’alternativa tra il rinvio della decisione sulla misura di comunità – con un allungamento delle tempistiche che può essere a volte molto rilevante – ovvero l’invio al G.E. per la eventuale sospensione della pena sostituiva, in alternativa ad una esecuzione contestuale delle due pene che – se pure in concreto praticabile – desta perplessità sul piano giuridico. Analoga questione si pone con riguardo al rapporto tra l’esecuzione delle misure di comunità e la m.a.p.
Ulteriore lacuna emerge con riferimento alla disposizione dell’art. 68 l. n. 689/81 laddove essa prevede unicamente l’ipotesi di esecuzione di una singola pena sostitutiva, o al più di provvedimenti concorrenti che dispongono pene sostitutive (a fronte dei quali il pubblico ministero procede alla formazione del cumulo), ma non contempla espressamente l’affine ipotesi di una pluralità di titoli da eseguire a carico del medesimo condannato comprendenti condanne a pena sostituita e a pena detentiva da eseguirsi in misura alternativa e non detta, di conseguenza, una regola specifica che determini la priorità in sede esecutiva dell’una o dell’altra. Sorge quindi il dubbio se in tali non infrequenti casi dovrà essere eseguita prioritariamente la pena detentiva sub specie di misura alternativa alla detenzione ovvero la pena sostitutiva.
Una possibile soluzione interpretativa suggerisce che la pena detentiva carceraria e quella eseguita in forma alternativa, ab initio o in seguito a un iniziale periodo di detenzione, sia trattata in modo omogeneo sotto il profilo che qui interessa, nel senso, cioè, di prevedere che la disposizione dell’art. 68 cit. trovi applicazione anche con riferimento ad una pena detentiva eseguita nelle forme di una misura alternativa. Anche in questo caso, pertanto, dovrà essere determinata, a cura del magistrato di sorveglianza, la parte della pena sostitutiva espiata, con provvedimento che dovrà essere comunicato al pubblico ministero che gestisce il titolo esecutivo o che ha emesso il cumulo, così da porre in grado il magistrato dell’esecuzione di procedere all’aggiornamento dello stesso, tenendo conto della pena sostitutiva medio tempore eseguita.
i) La tutela delle esigenze preventive e di difesa sociale.
Un problema generale che attiene alla situazione dei “liberi sospesi” attiene alla tutela della collettività: si tratta di condannati per pene anche elevate (che possono arrivare fino a sei anni) che attendono da liberi e senza alcun vincolo o controllo la decisione del tribunale di sorveglianza. Come insegnano le Corti di vertice, la pena ha anche una funzione di difesa sociale e ritardarne l’esecuzione incide (anche) sul bene giuridico costituito dalla tutela della collettività.
Sul piano operativo, si può affrontare tale rischio introducendo dei protocolli operativi che contengano criteri di trattazione prioritaria dei procedimenti non tanto procedendo per ordine di anzianità di iscrizione - criterio tradizionalmente seguito per evitare ruoli troppo datati - quanto selezionando qualitativamente le posizioni sulla base del titolo di reato, privilegiando, a es., la trattazione sollecita delle procedure che riguardano condanne afferenti ai delitti di “codice rosso” non a carcerazione obbligatoria, per i quali la trattazione prioritaria si impone per contenere il rischio di recidiva.
l) L’indennizzo per l’eccessivo ritardo dell’applicazione della pena e la decisione semplificata del giudice di sorveglianza.
L’eccessivo lasso di tempo che intercorre tra la definitività del titolo esecutivo e la decisione del giudice di sorveglianza incide sulla posizione del condannato, allontanando il momento in cui la pena verrà eseguita e rischiando, per tale motivo, non solo di avere un effetto deleterio sulla vita del soggetto (il quale, nel corso degli anni, può avere avviato un’attività di lavoro ed essersi formato una famiglia), ma altresì di perdere qualunque effetto risocializzante, andando a colpire – in ipotesi - una persona che, successivamente al reato, ha del tutto mutato stile di vita inserendosi armonicamente nella società civile.
A ristoro di tale pregiudizio potrebbe, in via generale, introdursi una ipotesi di indennizzo per “eccessivo ritardo nell’esecuzione della pena”, che potrebbe essere applicato - nella forma di una riduzione automatica della pena da eseguire proporzionata alla durata del ritardo - a tutti i condannati “liberi sospesi” a decorrere dal giorno successivo a quello stabilito dalla legge come termine entro il quale il tribunale di sorveglianza dovrebbe assumere la propria decisione (art. 656, comma 6, c.p.p.). In forza di tale automatismo indennitario per il ritardo con il quale il tribunale di sorveglianza dovesse decidere sul percorso esecutivo dell’interessato, quest’ultimo si vedrebbe, dunque, “compensare” la eventuale “irragionevole durata” della procedura con una corrispondente riduzione della pena da eseguire, potendo in tal modo più agevolmente accedere a un percorso di esecuzione penale esterna.
Ad una tale previsione dovrebbe accompagnarsi una modifica normativa che introduca, per le decisioni del giudice di sorveglianza entro la soglia di pena indicata dall’art. 656 comma 5 c.p.p., il principio della motivazione semplificata nel caso di applicazione di una misura di comunità, ciò che consentirebbe un notevole risparmio di energie processuali e una maggiore produttività di decisioni che potrebbero contribuire a efficacemente aggredire l’arretrato formatosi sulle esecuzioni sospese.