1. Pochi istituti processuali, nel nostro sistema, hanno avuto un’esistenza travagliata e complessa come il cd. “patteggiamento” in appello, vita sulla quale hanno inciso a più riprese e con esiti sovente contraddittori sia il Legislatore che la Corte costituzionale: già con lo schema di legge delega n. 81/1987 si era previsto che il contenuto dell’accordo sui motivi di appello, trattato nelle forme di cui all’articolo 127 c.p.p., dovesse essere limitato alle questioni concernenti solo la pena e non anche la responsabilità, sia in via originaria che per effetto di rinunce concordate dalle parti sui motivi[1].
Inizialmente, esso era stato concepito come ambizioso strumento flessibile, caratterizzato da una sostanziale assenza di rischi: infatti, se per un verso l’eventuale rigetto, da parte del giudice, dell’accordo raggiunto dalle parti determinava la riespansione del devolutum, riportando il giudizio d'impugnazione ai fini per i quali era stato proposto, d’altro canto il suo perfezionamento produceva effetti deflattivi sia sul processo di secondo grado che sul giudizio di legittimità.
Tuttavia, esorbitando dai ristretti confini della delega, il Legislatore aveva introdotto la possibilità di operare nelle forme semplificate del rito camerale anche al di fuori dei casi elencati nel primo comma dello stesso art. 599 del codice di rito; così si incideva sulla possibilità di definire – in modo concordato e con le forme camerali – il giudizio avente ad oggetto non solo il quantum, ma anche l'an della responsabilità penale.
La conseguenza di tale scelta fu che l’istituto non riuscì a superare indenne il vaglio della Corte costituzionale, con relativa censura non tanto nel suo contenuto quanto per l’eccesso rispetto ai limiti della legge delega[2].
2. Con l’evidente finalità di superare gli ostacoli generati dalla ricordata pronuncia, la legge n. 14 del 1999 intervenne sul comma 4 dell'art. 599 c.p.p., consentendo l’applicazione dell’istituto “anche al di fuori dei casi di cui al comma 1” e, quindi, quali che fossero i motivi di impugnazione, compresi quelli inerenti alla responsabilità dell'imputato.
Con la disciplina reintrodotta nel 1999 si riproponeva il doppio modello processuale (camerale o dibattimentale) a seconda che la richiesta fosse formulata prima ovvero dopo l'emanazione del decreto di citazione del giudizio di appello, costruendo il concordato come un istituto orientato dall'interesse alla pronta definizione del processo, ma senza una specifica connotazione premiale.
In caso di recepimento dell'accordo, al giudice d'appello non era consentito discostarsi dal contenuto del medesimo né in punto di determinazione della sanzione, né di riconoscimento delle circostanze ovvero di loro bilanciamento, pena l'inefficacia della richiesta e della rinuncia ai motivi; diversamente, in caso di mancata ratifica, il giudice era tenuto a ordinare la citazione dell'imputato in dibattimento, ai sensi dell'art. 599, comma 5, c.p.p., e, qualora la stessa fosse già stata disposta, a disporre la prosecuzione del dibattimento (art. 602, comma 2, c.p.p.).
Il concordato sui motivi di appello modellato nel 1999 rimase in vigore fino al 2008 conseguendo, effettivamente, l’obiettivo di una certa deflazione dei giudizi impugnatori anche in cassazione: infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi all’epoca, ma ancora perfettamente valida, la rinuncia parziale ai motivi d'appello determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, di talché è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si propongono censure attinenti ai motivi d’appello rinunciati e non possono essere rilevate d'ufficio le questioni relative ai medesimi motivi[3]; si è anche affermato che è inammissibile l'impugnazione relativa a questioni (pur se rilevabili d'ufficio) alle quali l'interessato abbia espressamente rinunciato, il che spiega effetti preclusivi sull'intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità, analogamente a quanto avviene nella rinuncia all'impugnazione[4].
Il tema è stato declinato dalla giurisprudenza di legittimità, anche in epoca recente, specificando ad esempio che: è inammissibile il ricorso per cassazione con cui siano riproposte doglianze relative ai motivi rinunciati, ivi compresi quelli aventi ad oggetto questioni di legittimità costituzionale, salvo il caso di irrogazione di una pena illegale, posto che l’accordo delle parti limita la cognizione del giudice di legittimità ai motivi non oggetto di rinuncia[5]); in caso di concordato in appello con contestuale rinuncia al motivo di impugnazione sull'incompetenza per territorio, questa non è rilevabile d'ufficio dal giudice ed è inammissibile il relativo ricorso[6]; è inammissibile il ricorso avverso la sentenza emessa ai sensi dell'art. 599-bis c.p.p. con il quale si deduca la prescrizione, allorché la rinuncia ai motivi di appello, effettuata a mezzo di procuratore speciale, abbia riguardato anche il motivo relativo all'intervenuta estinzione del reato da intendersi, quindi, come rinuncia espressa alla prescrizione, ai sensi dell'art. 157, comma settimo, c.p.[7].
Tale ultima sentenza declina con sfumature diverse il principio affermato dall’autorevole precedente[8] in base al quale – in mancanza di una espressa rinuncia alla prescrizione – avverso la sentenza di concordato in appello è proponibile il ricorso in cassazione con cui si deduca l'omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, maturata anteriormente a detta sentenza, precisandosi chiaramente che la formulazione della richiesta di concordato in appello non costituisce rinuncia alla prescrizione del reato eventualmente già verificatasi.
Pertanto, le uniche doglianze proponibili contro una sentenza emanata all'esito del concordato ex art. 599-bis c.p.p. sono quelle relative ad eventuali vizi della sentenza rispetto alla volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta, al contenuto difforme della pronuncia e all'applicazione di una pena illegale[9].
Per pena illegale deve intendersi, in generale, quella non conforme al paradigma normativo[10].
Quanto all’adesione all’accordo intercorso tra le parti, si è stabilito che qualora il giudice di appello ritenga di non accogliere la richiesta concordata delle parti sulla misura della pena, con rinunzia agli altri motivi, non deve esplicitare le ragioni del rigetto, essendo sufficiente l’ordine di prosecuzione del dibattimento[11]; si tratta di un orientamento che ha ripreso e sviluppato quanto già affermato nella vigenza del precedente “patteggiamento” in appello, introdotto nel 1999, riguardo al quale si era affermato che qualora il giudice di appello ritenga di non accogliere la richiesta concordata delle parti sulla misura della pena (con rinunzia agli altri motivi) ai sensi dell'art. 599 comma 4 c.p.p., non è necessaria l'adozione di un provvedimento decisorio del collegio di esplicitazione della reiezione della richiesta, essendo sufficiente l’ordine di prosecuzione del dibattimento per portare a conoscenza delle parti che la rinunzia agli altri motivi deve intendersi caducata[12].
3. Con il decreto-legge 92 del 2008, si scelse invece di espungere dall’ordinamento l’accordo così delineato stigmatizzando l’eccessiva estensione dello stesso a reati di grave allarme sociale e, in tal modo, credendo di accelerare i processi in primo grado e rispondere meglio alle esigenze di certezza della pena; le ragioni della scelta legislativa se da un lato rispondevano alla necessità di garantire una maggiore severità del trattamento sanzionatorio, dall'altro perseguivano lo scopo di incentivare l'opzione per il “patteggiamento” in primo grado, soluzione poco praticata in considerazione dei maggiori ambiti applicativi possibili con il concordato sui motivi di appello.
4. La prognosi legislativa si rivelò, tuttavia, del tutto fallace e ciò determinò la reintroduzione della fattispecie mediante la legge n.103/2017, articolo 1, commi 56 e 57 che – probabilmente nel tentativo di contemperare le opposte esigenze del ripristino dell’istituto e dell’esclusione dei suoi effetti per taluni reati di particolare gravità – stabilì che non si poteva procedere all’accordo qualora l’impugnazione avesse ad oggetto i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., nonché di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater e 600-octies c.p. ovvero commessi da chi sia stato qualificato come delinquente abituale, professionale o per tendenza.
Diversamente da quanto previsto nel testo del 1999, con la riforma del 2017 il Legislatore ha dunque delimitato il campo d'applicazione dell'istituto, escludendone l'operatività in relazione a un catalogo di reati gravi, in particolare associativi, nonché nei confronti di determinate categorie soggettive di imputati.
In quella sede si era previsto che l’accordo fosse cristallizzato nelle forme di cui all’articolo 589 del codice di rito e venisse richiesto personalmente dall’imputato o dal difensore, mediante apposita procura speciale; il giudice poteva peraltro respingere, allo stato, il patto sui motivi presentato nelle fasi preliminari disponendo la citazione a comparire dell’imputato in dibattimento e costui aveva la possibilità di reiterare in quella sede la sua richiesta che, se rigettata, imponeva la prosecuzione del giudizio e la decisione con sentenza.
Innovativa si palesava, inoltre, la scelta di introdurre l’indicazione da parte del Procuratore Generale, sentiti i magistrati dell’ufficio e i procuratori della Repubblica del distretto, di «criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti».
In sintesi, l’istituto così reintrodotto attribuiva all’imputato la facoltà di ottenere – con il consenso del Procuratore Generale – un accoglimento dei motivi di appello, normalmente parziale perché riferito all'entità della pena, costituendo un evidente beneficio per lo stesso; ciò dopo il giudizio di primo grado, svoltosi con l'assicurazione delle garanzie del contraddittorio, e solo ove il richiedente risulti condannato.
Il concordato tra le parti sui motivi d’appello, inoltre, non era (e non è) vincolante per il giudice, il quale è sempre tenuto ad esercitare il controllo sulla sussistenza dei presupposti per l'applicazione degli istituti coinvolti dal concordato e sulla congruità della pena[13]; a fronte di tale previsione è, quindi, giustificato il potere di rigetto da parte del giudice di appello anche in assenza di motivazione perché la valutazione di congruità della sanzione, stabilita in forma ridotta rispetto a quella irrogata in primo grado, non può sottrarsi al controllo volto a sancire la definitività dell’accordo delle parti.
Così come già segnalato dalla ricordata pronuncia n.29896/2002, per effetto della proposizione del concordato il giudice di appello non perde il proprio ruolo, che rimane funzionale all'esame dei motivi, per cui solo ove il motivo sulla pena o sulle statuizioni accessorie ad essa abbia qualche fondamento il giudice accede al concordato, altrimenti dovendo limitarsi a rigettarlo.
E tale previsione, secondo la Suprema Corte, non appare in alcun modo violare i canoni costituzionali, posto che il rigetto non motivato riguarda pur sempre una fase anticipata che non preclude l'onere del giudice di secondo grado di procedere all'analisi dei singoli motivi specifici nella fase della deliberazione finale attraverso un corretto procedimento motivazionale, sindacabile attraverso il successivo ricorso per cassazione; il potere di rigetto del concordato senza obbligo di motivazione risulta strettamente connesso al momento anticipato in cui viene espresso e non costituisce, quindi, violazione di principi fondamentali, poiché non esclude affatto l'onere del giudice di secondo grado di analizzare e rispondere a ciascuno dei motivi specifici proposti, anche in punto pena, nella motivazione della deliberazione finale.
Più recentemente, del resto, si è ribadito che non è affetta da nullità la sentenza pronunciata immediatamente dopo il rigetto dell'accordo e senza che il giudice abbia disposto la prosecuzione del dibattimento qualora l'appellante, all'udienza di discussione, abbia concluso anche nel merito, riportandosi ai motivi di gravame per il caso di mancato accoglimento della proposta sulla pena, posto che il predetto ha, in tal modo, rinunziato implicitamente alla proposizione di un nuovo accordo[14].
Appare, quindi, necessario e sufficiente raccogliere le conclusioni delle parti per il caso dell’eventuale rigetto dell’accordo da parte della Corte e ciò può essere fatto con una pronuncia intermedia con la quale il giudice dia conto della decisione di disattendere la proposta di concordato, consentendo così alle parti di formularne una diversa, ovvero raccogliendo le conclusioni delle parti anche in riferimento alla possibilità di un diniego da parte della Corte della proposta di pena concordata.
Sotto altro profilo, la Suprema Corte[15] ha dichiarato manifestamente infondata anche l’eccezione di illegittimità costituzionale riferita alla mancata previsione di un obbligo di astensione del giudice di appello che rigetti la richiesta di concordato, «posto che tale evenienza non costituisce in alcun modo anticipazione di giudizio né sui motivi attinenti l'affermazione di responsabilità, che lo stesso giudice di secondo grado è chiamato ugualmente a vagliare compiutamente, con possibilità di accoglimento dei medesimi pur a fronte di un iniziale rigetto della richiesta di concordato, né analogamente sui motivi proposti sulla pena sui quali deve essere svolto all'esito del giudizio di secondo grado e pure ove sia stata respinta la richiesta di concordato uguale analisi specifica».
Del resto, anche nella nuova previsione dettata dall'art. 599-bis comma 3 e 602 comma 1-bis c.p.p., il rigetto della richiesta di concordato in appello formulata dall'imputato non è soggetto a motivazione e tale previsione appare priva di profili di illegittimità costituzionale: ciò sia perché, trattandosi di valutazione anticipata rispetto all'analisi dei motivi di gravame, non esime il giudice di appello all'esito del giudizio di secondo grado da fornire motivazione specifica in relazione a ciascuno dei motivi proposti con l'impugnazione della sentenza di secondo grado e sia perché, non accedendo ad atti del fascicolo il cui esame è normalmente precluso come invece avviene nel patteggiamento di primo grado, non vi è alcuna anticipazione di giudizio.
Peraltro, il margine di sindacabilità del giudice in ordine ai profili contenutistici dell’accordo non risulta affatto illimitato avendo la giurisprudenza di legittimità precisato, ad esempio, che le parti non sono vincolate a specifici criteri di determinazione della pena, sicché il giudice può sindacare esclusivamente la congruità della pena finale concordata, senza che rilevino eventuali errori di calcolo nei passaggi intermedi[16]; sotto altro profilo, il giudice dell’impugnazione non è tenuto, invece, a sostituire d’ufficio – in assenza di una richiesta difensiva in tal senso – la pena detentiva con le sanzioni sostitutive disciplinate in maniera innovativa dalla cd. Riforma Cartabia[17].
5. Di recente la giurisprudenza di legittimità si è interrogata su due aspetti specifici della disciplina: la praticabilità del concordato anche nel corso del giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della Suprema Corte e l’impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice di appello disattenda l’accordo.
Sotto il primo profilo, va detto che sulla questione della legittimità o meno di un concordato di pena tra le parti ex articolo 599-bis c.p.p., che intervenga in sede di giudizio di rinvio, si sono registrate decisioni divergenti.
La pronunzia della Quinta Sezione n. 22774/2020 ha, infatti, escluso la compatibilità tra il concordato in appello e il giudizio di rinvio ex art. 627 c.p.p. valorizzando la finalità deflattiva dell'istituto e ritenendo distonica, rispetto a tale obiettivo, la possibilità di proporre il concordato con rinunzia ai motivi di appello in quella sede, quando tutte le fasi ordinarie del processo si sono sostanzialmente esaurite.
Di contro una successiva sentenza, la n. 25797/2021 della Terza Sezione, ha riconosciuto la legittimità della procedura di concordato intervenuta nel corso del giudizio di rinvio, osservando che nessuna espressa esclusione è stata prevista dalla legge al riguardo; nel merito si è affermato che il giudizio di rinvio presenta una fase rescissoria, caratterizzata da assoluta autonomia rispetto al giudizio rescindente, e che l'argomentazione ritenuta dirimente dall'orientamento negativo (l’inidoneità di tale concordato ad assolvere la finalità deflattiva dell'istituto se intervenuto nel giudizio di rinvio) non si appalesa convincente, considerato che l'annullamento può essere disposto anche in ordine all'affermazione di responsabilità, rispetto alla quale la rinunzia al corrispondente motivo di appello si risolve in una definizione in tempi contratti del giudizio.
In seguito[18] si è consolidata l’adesione della Corte a questo secondo orientamento poiché, in assenza di una specifica preclusione disposta per legge, non emergono dalle caratteristiche e finalità dell'istituto elementi ostativi alla proposizione di un concordato nel corso del giudizio di rinvio.
Ove non vi è, allo stato, uniformità di vedute è – invece – in merito alla possibilità di ricorrere per cassazione avverso la revoca del consenso da parte del Procuratore Generale intervenuta prima della decisione del giudice, ovvero contro il provvedimento di rigetto della concorde richiesta delle parti di accoglimento dei motivi di appello.
Un primo orientamento dava risposta negativa a entrambi i quesiti osservando che il rimedio del ricorso, non previsto dalla legge, non può essere desunto in via analogica, per identità di ratio, dalla disciplina dettata per la sentenza di patteggiamento, trattandosi di istituti processuali differenti e fondati su valutazioni giudiziali non assimilabili.
Ad esempio, nella sentenza della Suprema Corte n. 7751/2022 – premettendo che il concordato in esame e l'applicazione della pena su richiesta delle parti, ex artt. 444 e seguenti del codice di rito, non sono affatto istituti tra loro omogenei (mentre per il rito alternativo disciplinato dall'art. 444 c.p.p. sono soggetti a revisione ex art. 448 comma 1, c.p.p., sia il parere negativo del pubblico ministero che il mancato accoglimento dell'accordo da parte del giudice, nel caso del concordato sulla pena non è previsto alcun rimedio in caso di rigetto della pena concordata tra le parti) – si è evidenziato che la decisione sulla richiesta delle parti ex art. 599-bis c.p.p. costituisce un giudizio eventuale ed anticipato, formulato in base alle prove sulle quali il giudice, investito del giudizio di merito, dovrà fondare il proprio convincimento.
Non si è quindi in presenza, come nel caso dell'accordo delle parti sulla pena in primo grado, di un’anticipazione di giudizio, effettuata sulla base della consultazione e della valutazione degli atti del fascicolo del pubblico ministero; le valutazioni del giudice nel “patteggiamento” in appello si esprimono, dunque, in situazioni diverse da quelle del “patteggiamento” in primo grado e il concordato sulla pena in appello interviene in una fase processuale in cui c'è già stata una piena valutazione sul merito della capacità dimostrativa delle prove e non può in alcun modo essere ricondotto all’accordo “allo stato degli atti”, che invece si risolve in una contrazione del giudizio sulla responsabilità.
Ancora, il diniego del consenso da parte del pubblico ministero o il rigetto della proposta di concordato da parte della Corte di appello sono passaggi procedurali non sottoposti ad alcuna forma di controllo processuale che, ove fosse previsto, complicherebbe la procedura invece di semplificarla[19].
Ancora di recente[20] si è ribadito che non è ricorribile per cassazione l'ordinanza di rigetto, pronunciata dalla Corte di appello, della richiesta di concordato in quanto tale rimedio, per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, non è applicabile a provvedimenti diversi dalle sentenze o dalle ordinanze in materia di libertà personale.
In quella sede si è evidenziato che il Legislatore del 2017 non ha previsto l’impugnabilità dell'ordinanza negativa pronunciata dalla Corte di appello, né può esserne affermata la ricorribilità ai sensi dell'art. 568, comma 2, c.p.p., risultando l'ordinanza in parola non equiparabile alle sentenze ovvero ai provvedimenti in materia di libertà personale cui si riferisce la disposizione citata: la sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 599-bis c.p.p, infatti, è una sentenza di merito, emessa all’esito di una procedura a carattere deflattivo, che non comporta effetti sostanziali diversi e più favorevoli per la parte privata rispetto alla sentenza d'appello pronunciata ai sensi dell’art. 605 c.p.p., con conseguente carenza di interesse a impugnare della parte privata.
Di contrario avviso un altro orientamento interpretativo[21] (ad avviso di chi scrive maggiormente condivisibile) che – in consapevole contrasto con le decisioni di legittimità innanzi citate – porta a ritenere sindacabile in sede di legittimità il mancato accoglimento dell'accordo formulato dalle parti: in particolare, non si condivide la tesi secondo cui il mancato accoglimento del concordato non è suscettibile di impugnazione con il ricorso per cassazione per diverse ragioni.
In primo luogo, il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione non è di ostacolo alla proponibilità del ricorso avverso la sentenza di appello che decida nel merito, senza accogliere il concordato sui motivi e sulla pena; il concordato in appello, sia in caso di rigetto che di accoglimento, determina l'adozione di un'ordinaria sentenza di secondo grado, in quanto tale impugnabile in cassazione secondo la disciplina ordinaria.
Il fatto che non sia prevista una disciplina derogatoria per l'impugnazione del concordato in appello, insomma, non consente affatto di ritenere che il ricorso per cassazione sia in tal caso precluso, ma determina l'applicabilità dei principi generali e, quindi, depone nel senso dell'ammissibilità del ricorso; si aggiunge, sul piano logico-sistematico, che l'orientamento opposto – nel sostenere che la decisione di non validare il concordato sarebbe frutto di una scelta non sindacabile compiuta dal giudice di appello – porterebbe ad una soluzione inaccettabile perché foriera di un grave vulnus al diritto di difesa, nonché di una palese violazione dell’interesse dell'imputato ad accedere ad un trattamento sanzionatorio di favore.
La scelta del giudice di appello di non ammettere il concordato determina, invero, effetti di estremo rilievo e, pertanto, ove non si consentisse il controllo sulla legittimità della stessa con il ricorso per cassazione, si porrebbero fondati dubbi di legittimità costituzionale; ove si ammettesse che il rigetto del concordato non sia in alcun modo sindacabile, si impedirebbe infatti all'imputato di ottenere il controllo su una decisione fortemente pregiudizievole posto che il concordato, consentendo una determinazione della pena sulla base dell'accordo tra le parti, ha un innegabile effetto premiale.
Analoghe motivazioni (e segnatamente il tema del grave vulnus al diritto di difesa dell’imputato che determinerebbe l'illegittimo diniego, ledendone l'interesse ad accedere a un trattamento sanzionatorio di favore determinato dall'accordo tra le parti) sono state recentemente ribadite a base dell’opzione ermeneutica che ritiene ricorribile per cassazione, insieme alla sentenza resa all’esito del giudizio, il provvedimento di rigetto del concordato[22] .
6. Su questo tessuto interpretativo si sono innestate le novità introdotte con il decreto legislativo n. 150/2022, estremamente importanti sia in riferimento alle modalità di presentazione della richiesta di concordato che alle forme di celebrazione dell’udienza[23]: in particolare, al nuovo comma 1 dell’articolo 599-bis c.p.p., si è stabilito che la dichiarazione di concordato in appello e la rinuncia ai motivi debbano essere presentate nelle forme previste dall’articolo 589 che, a sua volta, rinvia agli articoli 581 e 582 dello stesso codice di rito, con la conseguenza che anche dagli atti dovranno essere depositati mediante strumenti telematici in caso di difesa tecnica, ovvero anche in cartaceo allorché presentati dall’imputato personalmente, ovvero mediante incaricato.
Va segnalato che nella parte finale della disposizione si prevede che la richiesta di concordato debba essere presentata, a pena di decadenza, nel termine di 15 giorni prima dell’udienza, con l’evidente finalità di consentire alla Corte di conoscere in anticipo rispetto all’udienza quali procedimenti saranno trattati in base alle regole ordinarie e quali, invece, saranno definiti mediante accordo tra le parti con tutte le conseguenze comprensibili in tema di studio del fascicolo medesimo da parte dei giudici.
Il comma 3 statuisce invece che, ricevuta la richiesta di concordato tra le parti, la Corte se ritiene di non poterla accogliere dispone che in udienza si svolga con la partecipazione delle stesse e indica se l’appello sarà trattato nelle forme dell’udienza pubblica o in camera di consiglio, con provvedimento comunicato al Procuratore Generale e notificato alle altre parti; in questo caso, la richiesta di concordato e la rinuncia ai motivi perdono effetto, ma possono essere riproposte in udienza a seguito dell’interlocuzione in presenza tra le parti.
Il successivo comma 3-bis prevede poi che – quando procede in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti – la Corte, se ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata tra le parti, dispone la prosecuzione del giudizio secondo le forme ordinarie; nel comma 3 ter si è, infine, chiarito che la richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto allorché la Corte decide in modo difforme dall’accordo, in ciò reiterando il disposto dell’articolo 601 comma 1-bis c.p.p.
Particolarmente importante è, poi, l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 599-bis c.p.p. che, come detto, contemplava numerose preclusioni oggettive e soggettive: ciò vuol dire che è stata riconosciuta alle parti la più ampia facoltà di negoziazione in merito a qualunque titolo di reato, come già era previsto nel previgente concordato introdotto nel 1999 e abrogato nel 2008.
Restano fermi, peraltro, i principi già enucleati dalla giurisprudenza di legittimità in merito al potere di valutazione della Corte d’appello sulla correttezza dell’accordo e sull’entità della pena concordata, tenuto conto della gravità del singolo reato, nonché in riferimento alla possibilità di impugnare in cassazione il provvedimento di diniego.
7. Così delineato l’istituto, è il caso di soffermarsi sui profili di diritto intertemporale.
Infatti, all’art. 94, comma 2, del d.lgs. n. 150 è contenuta una disposizione transitoria che differisce l’efficacia delle norme in esame al venir meno dell’omologa disciplina emergenziale introdotta dalla normativa per il contenimento della pandemia da Covid-19, in vigore ed efficace in prima battuta fino al 31 dicembre 2022 in forza dell’art. 16, comma 1, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228 (cd. decreto “milleproroghe”).
Fino al 31 dicembre 2022, invero, avrebbe dovuto continuare a trovare applicazione il procedimento camerale “non partecipato” previsto per i giudizi di appello (art. 23-bis d.l. n. 137 del 2020), salvo che le parti avanzino richiesta di trattazione orale o l’imputato manifesti la volontà di comparire entro il termine di quindici giorni liberi prima dell’udienza, e per quelli dinanzi alla Corte di cassazione (art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020), fatta salva la facoltà al Procuratore Generale e alle altre parti di formulare richiesta di trattazione orale, da presentare in cancelleria, a mezzo posta elettronica certificata, entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza.
Dal primo gennaio 2023, invece, si sarebbe dovuto far applicazione delle disposizioni introduttive o modificative, rispettivamente, degli artt. 598-bis, 599, 599-bis, 601, 602, comma 1, 611 c.p.p. e 167-bis disp. att. c.p.p.
Tale originario impianto normativa va, peraltro, coordinato con la protrazione della vigenza di talune norme “emergenziali” in materia di impugnazioni per effetto dell’art. 5-duodecies della legge n. 199 del 2022: detta disposizione, infatti, ha sostituito integralmente l’art. 94, comma 2, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, dettando una rinnovata disciplina transitoria di coordinamento delle nuove norme in tema di giudizio di impugnazione, improntate al paradigma dell’udienza non partecipata, con le disposizioni dell’emergenza epidemiologica di cui al decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228, in vigore fino al 31 dicembre 2022.
All’art. 5 duodecies citato è, in particolare, stabilito che l’art. 94, comma 2, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, viene sostituito dal seguente: «2. Per le impugnazioni proposte entro il 30 giugno 2023 continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo e 9, nonché le disposizioni di cui all’art. 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Se sono proposte ulteriori impugnazioni avverso il medesimo provvedimento dopo il 30 giugno 2023, si fa riferimento all’atto di impugnazione proposto per primo».
Di conseguenza, durante tutto il periodo di vigenza delle norme in esame – sulla base, per l’appunto, della nuova disposizione transitoria – la trattazione dei ricorsi per cassazione e quella dei giudizi d’appello avverrà sulla base delle disposizioni emergenziali, secondo una scelta ispirata al principio del tempus regit actum, riferito al regime giuridico vigente al momento in cui l’atto introduttivo d’impugnazione è stato proposto; ne deriva che, per gli appelli già proposti alla data della cessazione del regime intertemporale, indipendentemente dal fatto che sia stata o meno fissata entro tale termine la data dell’udienza, ogni fase del procedimento sarà regolata dalla normativa emergenziale attualmente in vigore e, per effetto della nuova disciplina transitoria, tale regime si dilaterà (per il momento) fino al giugno 2024.
In virtù della nuova disposizione di cui all’art. 5-duodecies della legge di conversione citata, al cessare del periodo di efficacia della disciplina emergenziale (prorogata, come si vedrà, per l’appunto al 30 giugno 2024 e quindi a fare data dal 1° luglio 2024), troveranno invece applicazione le nuove disposizioni previste dalla riforma.
Come accennato innanzi, peraltro, la data del 30 giugno 2023 (che era già slittata al 15 gennaio 2024 per effetto dell’art. 17 del d.l. n. 75 del 22 giugno 2023, convertito nella legge n. 112 del 10 agosto 2023) è stata ulteriormente spostata in avanti, al 30 giugno 2024, per effetto dell’art. 11 del d.l. n. 215 del 30 dicembre 2023 (cd. “milleproroghe”) a norma del quale il termine previsto dal citato articolo 94, comma 2, per i giudizi di impugnazione è prorogato appunto fino al 30 giugno 2024.
8. A fronte del delineato regime transitorio, ci si è interrogati sull’operatività del nuovo istituto nei giudizi d’impugnazione in corso, in appello e in cassazione, alla data di entrata in vigore della riforma sia in merito all’abrogazione dei limiti al concordato che in riferimento alla necessità di presentare la richiesta quindici giorni prima dell’udienza, norma non prevista dal previgente art. 599-bis c.p.p.
Relativamente agli appelli già proposti alla data del 30 dicembre 2022, ma rispetto ai quali non sia stata fissata la data per la trattazione, taluno afferma[24] che a sostegno dell’immediata applicazione della nuova disciplina anche agli appelli già proposti sembrerebbe militare l’argomento a contrario rispetto alla disciplina transitoria posta dall’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 150 in materia di assenza: tale norma, infatti, prevede espressamente l’applicazione della nuova disciplina ai soli appelli proposti avverso sentenze emesse dopo l’entrata in vigore della riforma, consentendo quindi di sostenere che, per gli altri istituti, il Legislatore abbia optato per l’immediata applicazione.
In senso contrario si pone il criterio interpretativo già fornito dalle ricordate Sezioni Unite Lista per le modifiche alla disciplina del giudizio di appello, ossia la data dell’atto impugnato[25]: il nuovo regime che impone la richiesta quindici giorni prima dell’udienza, quindi, dovrebbe trovare applicazione solo per i giudizi aventi ad oggetto appelli avverso sentenze emesse a partire dalla data di entrata in vigore delle nuove regole, mentre per gli appelli precedentemente proposti dovrebbe continuare ad operare la disciplina previgente.
Sembra, invero, una soluzione maggiormente logica e condivisibile.
Anche la Suprema Corte ha recentemente affermato[26] che il novellato art. 599-bis, comma 3, c.p.p. non è entrato in vigore al 30 dicembre 2022 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022); in base alla disciplina transitoria prevista dall'art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, infatti, le norme relative alla nuova disciplina del giudizio di appello entreranno in vigore dopo la cessazione del regime processuale introdotto, in via temporanea, dalla normativa emergenziale.
Quanto, invece, al tema dei limiti ex comma 2 (già abrogato con effetto dal primo novembre 2022) è ragionevole ritenere che – trattandosi di una disposizione con indiscutibili ricadute di natura sostanziale sull’entità della pena e certamente più favorevole al reo proprio grazie rimozione dei citati limiti – la norma (art. 34, lett. f) possa essere applicata immediatamente, seguendo tuttavia nelle more la disciplina dell’art. 599-bis comma 1 c.p.p. nella vecchia formulazione.
Nello stesso senso la Suprema Corte che, con la sentenza n. 9188 del 3 marzo 2023 della VI Sezione Penale ha ritenuto che l’eliminazione delle preclusioni relative ad alcune tipologie di reati particolarmente gravi ha comportato che, a partire dal 30 dicembre 2022, l’istituto del concordato in appello possa trovare applicazione in tutti i giudizi di secondo grado, indipendentemente dal titolo di reato oggetto del processo.
Tuttavia l’effetto abrogante, riguardando una disposizione di natura processuale, in mancanza di apposita disciplina transitoria deve soggiacere al principio tempus regit actum, con la conseguenza che esso non può che avere prodotto i suoi effetti nei soli giudizi di appello che si sono svolti a decorrere dall’entrata in vigore della relativa norma abrogante, vale a dire dal 30 dicembre 2022, senza la possibilità di applicare retroattivamente la disposizione nei processi in cui il giudizio di appello sia già stato definito.
Insomma, l’ampliamento del concordato in appello introdotto con l’articolo 98, comma 1 lett. a), del decreto legislativo 150 del 2022 produce i propri effetti solo nei giudizi svolti a decorrere dall’entrata in vigore della norma abrogante, senza possibilità di applicazione retroattiva nei processi in cui il giudizio di appello sia già stato definito, ma senza nemmeno – quanto all’area di operatività della disposizione e all’eliminazione dei previgenti limiti – dover attendere l’entrata in vigore delle altre riforme procedurali tratteggiate dal decreto n. 150/2022.
9. Insomma, la volontà legislativa è certamente quella di estendere l’area di operatività dello strumento in esame con un’evidente finalità deflattiva, contemperando le necessità delle parti con quella dell’A.G. di conoscere tempestivamente le relative richieste e decidere in merito alla loro ammissibilità.
Nonostante ciò, tuttavia, nella prassi di alcune Corti si registra una significativa riduzione dei giudizi definiti ex art. 599-bis c.p.p., in maniera apparentemente controintuitiva a fronte della rimozione (subito operativa) dei severi limiti oggettivi e soggettivi innanzi previsti dalla legge, e ciò anche a causa dell’atteggiamento poco disponibile dell’Ufficio pubblico, determinato dall’adozione di alcune linee-guida sul tema che sembrano scoraggiare il ricorso al concordato nell’ipotesi in cui la riduzione di pena oggetto, della proposta di accordo, sia superiore al limite di 1/6.
Tale limite pare individuato in riferimento all’art. 442 comma 2-bis c.p.p., come modificato dalla Riforma Cartabia, a norma del quale «quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione»; detta ultima modifica va coordinata con il novellato art. 676 comma 1 c.p.p. che tratteggia la procedura da seguire da parte del giudice dell’esecuzione, che è quella de plano ai sensi dell’art. 667, comma 4, c.p.p. cui può seguire l’eventuale opposizione davanti allo stesso giudice che procede nelle forme dell’art. 127 c.p.p.
Sembra, quindi, che almeno presso taluni Uffici la disponibilità a procedere all’accordo sia circoscritta ai casi in cui l’entità della riduzione della pena inflitta non ecceda il sesto, in linea con l’ipotesi introdotta nel 2022 e forse al fine di incoraggiare una scelta di tal genere (con la mancata proposizione dell’appello) già dalla fase del primo grado e in tal modo ridurre il numero delle impugnazioni.
Tuttavia, al di là del tema della limitazione di tale fattispecie alle sole pronunce emesse a seguito di rito abbreviato e del fatto che trattasi di linee guida ovviamente non vincolanti per il singolo Sostituto Procuratore (che comunque pare sia tenuto a spiegare le ragioni del suo discostarsi dalle stesse), è indiscutibile che tale atteggiamento si stia traducendo – di fatto – in una sorta di disapplicazione surrettizia dell’istituto ex art. 599-bis c.p.p. in contrasto con la volontà legislativa che, si è visto, va esattamente nell’opposta direzione.
Peraltro, il nuovo art. 442 comma 2-bis c.p.p. e il novellato art. 599-bis c.p.p. sono norme la cui coesistenza è frutto di una precisa volontà legislativa e che sono destinate ad operare in ambiti diversi, senza necessarie forme di interferenza e sovrapposizione reciproca, di talchè non appare condivisibile imporre all’imputato la scelta tra il beneficio della riduzione immediata della pena, a patto della mancata presentazione dell’appello, e la possibilità – una volta presentato il gravame – di raggiungere un accordo con il Procuratore Generale avente ad oggetto una (ulteriore) riduzione della pena inflitta in primo grado.
[1] Per una ricognizione sull’istituto, si veda “Le nuove impugnazioni penali (decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11)”, AAVV a cura di A. Trinci, Giuffrè, 2018, pagg. 48 e seguenti
[2] Corte costituzionale, sentenza n. 435/1990.
[3] cfr. Cass. Pen., n. 47698/2019, nonché Cass. Pen., Sez. 4, n. 9857 del 12/02/2015, Rv. 262448
[4] Cass. Pen., Sez. 7, n. 40767 del 17/10/2001 Rv. 220427; Sez. 2, n. 39663 del 18/06/ 2004 Rv. 231109
[5] Cass. Pen., n. 50062/2023
[6] Cass. Pen., n. 51557/2023
[7] Cass. Pen., n. 33266/2023
[8] Cass. Pen., SSUU n. 19415/2022
[9] Cass. Pen. Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102; Sez. 2, ordinanza n. 30990 del 01/06/2018, Gueli, Rv. 272969; sulla scia di questo orientamento è collocata anche Cass. Pen., Sez. 2, n. 3587 del 6/11/2020, dep. 2021, Coco, non mass.
[10] Sul punto, si vedano Cass. Pen., Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886; Sez. U, n. 47182 del 31/03/2022, Savini, Rv. 283818; Sez. U, n. 38809 del 31/3/2022, Miraglia, Rv. 283689
[11] Cass. Pen., n. 16195/2019, Rv. 275581
[12]Cass. Pen., n. 29896/2002, Rv. 2223869. Quest’ultima pronuncia aveva chiarito, in motivazione, che “il c.d. patteggiamento in appello è un procedimento semplificato che non modifica in nulla la funzione del giudice, il quale è tenuto ad accogliere la richiesta solo se ritiene fondato il motivo di appello che ne forma oggetto e a dare conto nella sentenza delle ragioni della decisione. Se non ritiene di accogliere la richiesta il giudice, a norma dell'art. 602 comma 2 c.p.p., “dispone per la prosecuzione del dibattimento” e alla fine emette la decisione sul motivo oggetto dell'accordo ed eventualmente sugli altri ai quali l'imputato aveva rinunciato, dato che secondo l'art. 602 comma 2^ c.p.p. la rinuncia non ha “effetto se il giudice decide in modo difforme dall'accordo”.
[13] cfr. Cass., Sez. 1, n. 31247 del 21/05/2019, Rv. 276409; n. 1869/1993, Rv. 193779-01
[14] Cass. Pen., n. 45287/2023
[15] cfr. Cass. Pen., n.8745/2020
[16] Cass. Pen., n. 50710/2023
[17] Cass. Pen., n. 43980/2023
[18] Cass. Pen., n. 46283/2023
[19] cfr. anche Cass., Sez. 7, n. 20085 del 02/02/2021, Rv. 281512
[20] Cass. Pen., n. 41533/2023
[21] Cass. Pen., Sezione 6, n. 23614/ 2022 e n. 31556/2022
[22] così Cass. Pen., n. 30624/2023
[23] Per un’analisi sistematica delle norme e delle prime ricadute operative, si veda “La riforma del sistema penale, AAVV a cura di A. Bassi e C. Parodi, Giuffrè, 2022, pagina 281 e seguenti.
[24] si vedano sul tema le Relazioni dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione n. 2/2023 e n. 68/2022
[25] Cass. Pen., Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, P.C. in Lista, Rv. 236536/37-0190; conf. Sez. 1, n. 2133 del 19/12/2007, Di Pasquale e altro, Rv. 238640-01; Sez. 1, n. 40251 del 2/10/2007, P.G. in proc. Scuto, Rv. 238051-01; Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Ministero della giustizia, Rv. 262352-01; Sez. 1, n. 5697 del 12/12/2014, dep. 2015, Ministero della giustizia, Rv. 262355-01; Sez. 1, n. 18789 del 06/02/2015, Tenti, Rv. 263507-01; Sez. 5, n. 10142 del 17/01/2018, P.C. in proc. C., Rv. 272670-01; Sez. 6, n. 19117 del 23/02/2018, Tardiota, Rv. 273441-01; Sez. 6, n. 40146 del 21/03/2018, Pinti, Rv. 273843-01; Sez. 1, n. 27004 del 29/04/2021, P.M. c. Pimpinella, Rv. 281615-01; diff. Sez. 5, n. 15666 del 16/04/2021, Duric, Rv. 2808091-01
[26] Cass. Pen., n. 37981/2023