Trib. Brescia, sent. n. 1571 del 15 dicembre 2022, dep. 21 febbraio 2023
*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 6/2024.
1. Il tema delle fatture per operazioni a specchio, nonostante l’indubbio fascino che offre al penalista per i suoi molteplici punti di contatto con le anse del diritto penale (non solo tributario) è tuttavia stato oggetto di sparute riflessioni dottrinali, oltre che – e soprattutto – di un numero davvero esiguo di pronunciamenti giurisprudenziali. Tra queste è da segnalarsi la pronuncia che qui si annota del Tribunale di Brescia, la quale si interroga su questo tema in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000).
L’eccezionale singolarità di questa pronuncia, che peraltro si connota di indubbia chiarezza sistematica con riferimento alle questioni lato sensu penal-tributarie, tocca alcuni “nervi scoperti” della Parte Generale del diritto penale – specialmente i rapporti tra dolo e movente – che meritano, dunque, un approfondimento.
2. I fatti di causa e la tesi difensiva. Ma si proceda per ordine. I fatti anzitutto. La vicenda prende l’abbrivio da una serie di attività di verifica espletate nei confronti di una s.p.a. e di una s.r.l., riconducibili rispettivamente a padre e figlio. In particolare, l’analisi dei rapporti commerciali intercorrenti tra le due società testé menzionate faceva emergere un copioso numero di compravendite aventi ad oggetto, natura e quantità di beni del tutto coincidenti.
Numerose erano le incongruenze riscontrate dagli organi accertatori a seguito dell’analisi dei movimenti di magazzino. Emergeva, infatti, come il materiale (siderurgico) acquistato dalla s.p.a. presso la s.r.l. non era iscritto in magazzino; inoltre, non era dato rinvenire alcuna giustificazione per i continui passaggi da un magazzino all’altro del medesimo materiale. A ciò si saldava il fatto che nel periodo d’imposta 2016 la s.p.a. aveva commissionato ad un professionista indipendente una perizia estimativa del magazzino, da cui emergeva come la maggior parte dei codici delle merci elencati non trovasse alcun riscontro nel magazzino.
Del tutto speculari gli accertamenti e – di conseguenza – le contestazioni nei confronti della s.r.l. Ad essa veniva, infatti, contestata la pedissequa annotazione nelle dichiarazioni fiscali delle relative annualità di fatture per prestazioni oggettivamente inesistenti. Contestualmente, alla s.p.a. veniva contestata la ricezione e annotazione di fatture aventi ad oggetto fatture per operazioni oggettivamente inesistenti (emesse dalla s.r.l.) nonché, per l’appunto, l’emissione di fatture parimenti inesistenti (nei confronti della s.r.l.) per medesimi valori e in relazione ai medesimi documenti.
L’assoluta ed obiettiva inesistenza delle prestazioni riportate nella documentazione contabile appariva, peraltro, incontestabile anche agli stessi imputati nel procedimento de quo, i quali avevano presentato istanza di accertamento con adesione per definire la controversia insorta con l’Erario.
Non essendo dunque controversa la materialità del fatto, la linea difensiva prospettata dagli imputati prende le pieghe dalla contestazione del fatto sub artt. 2 e 8 d.lgs. 74/2000, ma affermandone la penale irrilevanza in ragione o del difetto del necessario elemento soggettivo (i.e. il dolo specifico) o in ragione dell’inoffensività della condotta.
Quanto all’elemento soggettivo, infatti, la difesa degli imputati rappresenta come costoro abbiano agito non al fine di sottrarsi all’adempimento delle obbligazioni tributarie, bensì allo scopo di ottenere un’anticipazione di liquidità dalle banche – secondo un “rodato” meccanismo di anticipo sulle fatture, assimilabili a mutui a breve termine[1] – pur in assenza del presupposto oggettivo che avrebbe dovuto costituirne valido titolo.
Venendo invece all’elemento oggettivo, gli imputati sostengono che il complesso di operazioni poste in essere non avrebbe cagionato alcun danno all’Erario. Secondo la difesa, infatti, il riepilogo delle operazioni c.d. “oggettivamente inesistenti” dimostra come l’IVA dovuta all’Erario corrisponda sostanzialmente all’IVA deducibile (quindi a credito) di conseguenza non vi sarebbe stata alcuna evasione d’imposta. In buona sostanza, la reciprocità delle operazioni commerciali indicate come fittizie (le c.d. “operazioni a specchio”), sarebbe stata tale da annullare qualsivoglia vantaggio fiscale e comunque avrebbe escluso il dolo specifico che deve caratterizzare i reati tributari contestati.
Così impostata la questione, prima di poter procedere all’analisi delle motivazioni che hanno portato al rigetto della tesi difensiva da parte del Tribunale di Brescia, giova premettere alcune glosse in merito al delitto previsto dall’art. 2 del d.lgs. 74/2000.
3. Alcune puntualizzazioni sul reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
3.1. Sul versante oggettivo. Come noto, già con la riforma del 2000, il legislatore penal-tributario ha inteso congedarsi dal c.d. modello del reato prodromico, tipico della famigerata legge “Manette agli evasori” (l. n. 516/1982), affermando la centralità del momento dichiarativo e declinando, dunque, fattispecie connotate da una rilevante offensività. All’interno delle fattispecie dichiarative, dunque, un ruolo indubbiamente centrale compete al reato di “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, disciplinato all’art. 2 del decreto citato. Detta norma punisce con la reclusione da quattro ad otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. La norma chiarisce poi, al secondo comma, che il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria[2].
Per quel che interessa all’economia dello scritto, sul versante oggettivo, la fattispecie de quo si perfeziona con la presentazione della dichiarazione fiscale, secondo le rime – note negli schemi normativi delle fattispecie penal-tributarie – dello schema bifasico[3]. Affinché risulti integrato l’elemento oggettivo della fattispecie sub art. 2 occorre, infatti, una prima fase preparatoria, in cui la condotta ha natura propedeutica e strumentale, caratterizzata dalla registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o dalla detenzione a fini di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Vi è poi una seconda e successiva fase in cui si richiede che le fatture o documenti per operazioni inesistenti ovvero che il falso contabile e la condotta fraudolenta che lo ha accompagnato si traducano, per avere rilevanza penale, nella indicazione, in una delle dichiarazioni dei redditi o dell’IVA, di elementi attivi inferiori od elementi passivi fittizi. L’indicazione mendace nella dichiarazione costituisce il momento di perfezionamento e di consumazione del reato, che ha natura istantanea. Apprestando una struttura bifasica, il legislatore del 2000 ha dunque inteso evidenziare, nella stessa struttura del fatto tipico, l’inossidabile vincolo che lega i due comportamenti, i quali, solamente se letti sinergicamente, realizzano quell’accentuato e denso disvalore meritevole di una sanzione penale[4]. Da quanto detto, se ne ricava di conseguenza che il comportamento di “utilizzazione” si configura come mero ante factum (non punibile) strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito.
3.2. Sul versante soggettivo. Ben più complessa – e di tale complessità sembra farsi carico anche l’organo giudicante nella pronuncia in commento – la questione dell’elemento soggettivo della fattispecie di cui all’art. 2. La norma in commento è inequivoca nel richiedere che la condotta sia tenuta col «fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto», da leggersi in combinato disposto con la definizione fornita dall’art. 1 lett. d) del decreto secondo cui «il “fine di evadere le imposte” e il “fine di consentire a terzi l'evasione” si intendono comprensivi, rispettivamente, anche del fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, e del fine di consentirli a terzi». Atteso il particolare orientamento finalistico e le formule lessicali utilizzate dal legislatore, non pare potersi revocare in dubbio la natura di dolo specifico dell’elemento soggettivo in parola. Ora, le questioni da affrontare con riferimento a tale elemento del reato, seguendo le cadenze del giudice bresciano, sono essenzialmente due: (i) anzitutto, verificare se il fine d’evasione possa concorrere – e in quali limiti – con altre ed ulteriori finalità perseguite dall’agente (c.d. dolo multiplo); (ii) in secondo luogo, in una visione più ampia di politica criminale, valutare l’astratta compatibilità delle fattispecie a dolo specifico con il principio di offensività.
3.2.1. Concorrenza di altre finalità nel dolo specifico d’evasione. La prima delle questioni evocate non sembra involgere soverchie problematiche, tuttavia necessita una corretta perimetrazione, al fine di evitare pericolose presunzioni di dolo ed estroflessioni del fine evasivo dal tipo criminoso. Sul punto, si è andato consolidando – tanto in giurisprudenza[5], quanto in dottrina[6] – l’orientamento per cui la finalità evasiva può ben concorrere con altri fini (anche extra-fiscali) perseguiti dall’agente, non necessariamente in via prioritaria o principale. È tuttavia necessario che il fine “non-evasivo” si contenga e non sopravanzi i confini dello scopo evasivo: in questi casi, infatti, compete al giudice un onere di “misurazione” del fine che risulta prevalente rispetto a quello soccombente, alla stregua degli elementi di prova raccolti. Ci si avvede sin da subito come i confini con l’arbitrio delle pure valutazioni sia molto labile, sicché «in giudizio dovrà essere accertata l’effettiva finalità perseguita dall’agente, perché il dolo richiesto del reato di cui all’art. 2 non è in re ipsa; tale accertamento risulta spesso assai difficile in costanza di una possibile pluralità di scopi animatori della condotta. Quando la condotta è correlabile a una pluralità di fini e si contesta l’integrazione di più reati, l’elemento psicologico è rappresentato da un dolo multiplo e l’accusa non è esonerata dal provare la direzione del dolo, dovendo dimostrare che, nell’ambito delle finalità che l’imputato avrebbe potuto perseguire, è ricompresa anche quella di aver voluto evadere le imposte avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti»[7]. D’altronde l’esigenza di un rigoroso accertamento del fine è richiesta, oltre che da basilari principi di ordine costituzionale che regolano la materia penale (e processual-penale), anche dalla norma stessa: il legislatore, infatti, ha inteso selezionare tra gli innumerevoli fini che può perseguire l’agente – rendendolo tipico – uno solo degli scopi che questi anela con la sua condotta, ossia il fine d’evasione. In questo senso, lo scopo diviene parte integrante della fattispecie tipica[8]. E se, dunque, il legislatore ha voluto evidenziare esclusivamente questo fine specifico, sì da connotare la fattispecie di un più denso disvalore, è giocoforza ritenere che il succedaneo accertamento dovrà anzitutto verificare, nella selva dei diversi obiettivi, la sussistenza – sia pur in nuce – del fine evasivo. Mancando, infatti, anche quel minimo richiesto per l’integrazione del fine evasivo non potrà dirsi configurabile il reato sub art. 2. E se poi concorreranno altri fini, come accade non di rado nella prassi, spetterà al giudice verificare, in seconda battuta, che il fine evasivo sia quantomeno concorrente con la finalità extra-fiscale.
Di questa scansione nell’accertamento dell’elemento soggettivo sembra essere ben consapevole il giudice nella sentenza in commento. Nelle motivazioni del provvedimento si richiamano, infatti, evocando la stabilità esegetica di siffatto approdo, numerosi precedenti di legittimità in materia penal-tributaria che riconoscono la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2 anche laddove questo concorra, non per forza in via principale, con altre finalità extra evasive[9].
Tanto premesso, l’organo giudicante procede dunque a sconfessare la tesi difensiva. Come si ricorderà, l’assunto difensivo poggiava sul fatto che gli imputati avessero agito, mediante un giro di fatturazioni “a specchio”, non mossi da finalità evasive, bensì spinti dall’esigenza di un’anticipazione di liquidità dalle banche mediante anticipo sulle fatture. Contrariamente a ciò, si è osservato, però, che la condotta dell’imputato – pur improntata all’ottenimento di anticipi sulle fatture – era comunque accompagnata da una serie di operazioni ancillari e “speculari” da parte della società del secondo imputato: operazioni, a ben vedere, per nulla necessarie ai fini del perseguimento dell’obiettivo principale (l’indebito utilizzo di un mutuo a breve termine) e pertanto poste in essere al solo fine di azzerare il debito fiscale («“compensando” l’imposta sui redditi calcolata su di un ricavo, con un corrispondente ed opposto costo portato in deduzione, e quella sul valore aggiunto dovuta, con un contro-credito posto in detrazione»[10]).
Secondo il Tribunale, dunque, è proprio la “specularità” delle operazioni a fornire l’indice dirimente per disvelare il dolo d’evasione. Sul punto, si richiama l’unico precedente che è dato ravvisare sui rapporti tra operazioni a specchio e reati tributari[11], originato nell’ambito di un procedimento cautelare penale relativo alle vicende di una nota squadra calcistica. In quell’occasione – ritenuta del tutto analoga al caso di specie sottoposto all’attenzione del Tribunale – il dirigente di una società calcistica era stato accusato di aver utilizzato fatture relative ad operazioni inesistenti nelle dichiarazioni fiscali presentate in tale veste, nonché di aver emesso, nel corso del medesimo periodo, fatture aventi ad oggetto operazioni oggettivamente inesistenti. Anche in quel caso, si osserva, la linea difensiva aveva fatto leva proprio sulla reciprocità delle operazioni con conseguente annullamento di qualsiasi vantaggio fiscale o, in via riconvenzionale, insussistenza dell’elemento soggettivo (sub artt. 2 e 8 d.lgs. 74/2000). Linea difensiva non accolta però dalla III Sezione della Cassazione, la quale, ribadendo come il fine d’evasione ben potesse concorrere con altre finalità (in questo caso compiere operazioni di maquillage contabile), soggiungeva poi che «proprio la reciprocità del meccanismo delle fittizie cessioni consentiva ai soggetti che se ne giovavano di realizzare le plusvalenze, le quali diversamente sarebbero state foriere di imposizione tributaria, neutralizzandole sul medesimo piano fiscale con i costi connessi alle avvenute acquisizioni del diritto alle prestazioni sportive di altri calciatori»[12].
In breve: per risultare effettivamente vantaggiosa per gli interessati, l’operazione “a specchio” in parola necessitava di un meccanismo che impedisse il sorgere del debito fiscale o, comunque, ne azzerasse l’oggetto. Diversamente, sarebbe risultato irrazionale (oltre che antieconomico) per i due imputati nel procedimento de quo corrispondere onerosi tributi a fronte dell’ottenimento immediato di liquidità da parte delle banche.
3.2.2. Il continuo rapporto di tensione con il canone di offensività. Venendo, invece, alla seconda questione evocata sul fronte dell’elemento soggettivo dalla sentenza in parola, l’attenzione si sposta sull’astratta compatibilità tra i reati a dolo specifico e il canone – costituzionalmente presidiato[13] – di offensività. Nel giudizio de quo, come si ricorderà, la difesa degli imputati poggiava sulla totale assenza di un danno effettivo e concreto in capo all’Erario: la loro condotta, infatti, se guardata nel suo complesso (quindi con riferimento alle due società e alle posizioni fiscali delle plurime annualità venute in rilievo), non avrebbe generato un debito superiore a quello effettivamente adempiuto. Ciò in ragione del fatto – si legge nella sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Brescia pronunciatasi nel merito delle contestazioni fiscali – che «ai fini delle imposte sui redditi, ad un costo dedotto si è contrapposto un ricavo regolarmente assoggettato ad imposizione e, ai fini IVA, all’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA da parte del cessionario si è contrapposto il regolare versamento della corrispondente IVA da parte del soggetto cedente». Tale conclusione non convince del tutto, quantomeno con riferimento all’imposta sul valore aggiunto. In ragione del c.d. principio di cartolarità, posto alla base del sistema impositivo dell’IVA, l’imposta in parola è dovuta ogni qual volta la fattura sia emessa, anche se inerente ad un’operazione inesistente. In tal caso, viene in soccorso la disposizione di cui all’art. 21, comma 7 del d.p.r. 633/1972, ove si statuisce che «se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura». Si comprende bene, dunque, come in ipotesi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, l’imposta risulta dovuta a titolo di sanzione, in ragione – come accennato poc’anzi – della cartolarità dell’operazione: così, mentre l’IVA è dovuta da chi ha emesso la falsa fattura, il ricevente non ha diritto di detrarre l’imposta[14]. Si tratta di un principio pienamente permeato anche nelle anse del diritto penale tributario, laddove ad esempio, si ritiene configurabile il delitto di omessa dichiarazione ai fini IVA anche nel caso in cui siano state emesse fatture per operazioni inesistenti, in quanto, secondo la disciplina tributaria, l’imposta sul valore aggiunto è dovuta anche per tali fatture, indipendentemente dal loro effettivo incasso (e conseguente obbligo di presentare relativa dichiarazione)[15].
Ciò nonostante, rientrando nelle questioni prettamente penalistiche affrontate dalla sentenza in commento, si soggiunge poi un ulteriore argomento che, prescindendo dalle questioni meramente tributaristiche, permette di dimostrare la sussistenza nel caso concreto del dolo specifico in capo agli imputati. In particolare, la motivazione del giudice bresciano prende qui le mosse da quella tesi, elaborata in dottrina, che equipara i reati a dolo specifico (quantomeno nell’ipotesi in cui l’oggetto della volizione sia un evento lesivo di beni giuridici) ai delitti tentati[16]. Partendo dal presupposto per cui nelle fattispecie contrassegnate dal dolo specifico non è richiesto che venga a prodursi l’evento perseguito, al fine di evitare possibili punizioni della mera intenzionalità del soggetto agente si richiede l’accertamento della necessaria idoneità (in concreto)[17] degli atti compiuti a cagionare l’evento dannoso o pericoloso avuto di mira. Così, ad esempio, nel sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) non sarebbero idonei quegli atti (idonei) posti in essere al fine di sequestrare un ricco possidente, ma che si rivela poi essere uno spiantato. Seguendo, pertanto, queste cadenze argomentative, nei reati a dolo specifico - in cui l’oggetto della volizione sia un evento lesivo di beni giuridici, come nell’art. 630 c.p. – non troverebbe applicazione la disciplina del tentativo, in ragione dei principi di materialità e offensività: tornando all’esempio del sequestro a scopo di estorsione, se il sequestratore, spingendo la vittima nella propria vettura, inizia a privarla momentaneamente della libertà (con lo scopo di chiedere successivamente un riscatto), ma la vittima riesce a sottrarsi al sequestro, il primo risponderà di tentativo di sequestro di persona (art. 605 c.p.), e non di tentativo di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).
Così, dopo aver menzionato brevemente le linee essenziali che colorano la teoria che assimila i reati a dolo specifico ai delitti tentati, l’organo giudicante procede – per l’appunto – a verificare se la condotta dell’imputato fosse concretamente idonea a raggiungere lo scopo (i.e. evasione). Viene così sviluppato un giudizio ex ante a base tendenzialmente totale[18], riportandosi idealmente al momento in cui il soggetto agente ha intrapreso l’azione e verificando se in quel momento preciso sussistesse la probabilità di verificazione dell’evento lesivo. Nel caso di specie, in particolare, soggiunge l’organo giudicante, la risposta all’interrogativo sull’idoneità in concreto «non può che essere positiva, poiché […] l’emissione della pure fittizia fattura faceva sorgere un debito erariale che non era possibile onorare attraverso una “compensazione” con il reciproco credito IVA; né risulta in alcun modo – e il tema nemmeno è stato allegato dalla difesa – che [i due imputati, n.d.r.] avessero escogitato e posto in essere delle “contromisure” per scongiurare l’evasione fiscale»[19].
Nelle trame della motivazione, inoltre, si sottolinea come sia del tutto inconferente la circostanza – enfatizzata dalla difesa – per cui le condotte degli imputati non avrebbero ingenerato alcun danno all’Erario. Nelle fattispecie a dolo specifico non è affatto richiesto che il fine sia poi effettivamente perseguito dall’agente (i.e., nel caso di specie, l’evasione d’imposta) sia conseguito dall’agente. Da questo punto di vista – evidenzia il giudice – le condotte “speculari” poste in essere dai due imputati hanno certamente messo in pericolo i beni giuridici tutelati dagli artt. 2 e 8 del d.lgs. 74/2000 e ciò risulta sufficiente ad integrare la tipicità penale dei fatti oggetto di imputazione.
4. Conclusioni: è “realisticamente” possibile distinguere lo scopo dal movente?
4.1. Operazioni a specchio e prova del dolo (specifico). Conclusivamente, la sentenza in parola si lascia apprezzare per il rigore concettuale che la connota, nel contesto di una casistica (quella delle c.d. operazioni a specchio) ampiamente diffusa nella prassi, ancorché scarsamente oggetto di disamina da parte dei giudici di merito e di ultimo grado (tanto lo dimostra il fatto che si registra, ad oggi, una sola pronuncia di legittimità sul tema). Per quanto risulti di particolare interesse, in tal senso, la puntuale scansione che il Tribunale ha prospettato nell’analisi dell’elemento soggettivo, la messa al bando di ogni presunzione in re ipsa di dolo che traspare dalle pagine della sentenza sembra però infrangersi inesorabilmente contro l’amaro dato della realtà delle fatturazioni a specchio. Come detto, si tratta di operazioni reciproche che avvengono tra due società senza che però vi sia un reale spostamento di denaro.
Così, ad esempio, nella vicenda “calcistica” richiamata dal Tribunale di Brescia, si trattava di operazioni di cessione di giovani giocatori (provenienti dal vivaio) ad altra società (cessionaria), che a sua volta ripeteva poi l’operazione inversa, così da scambiare la posta attiva di bilancio nel breve periodo, con esposizione di valori patrimoniali più alti rispetto a quelli effettivi (ma senza un reale passaggio di denaro sottostante). Non dissimile la vicenda oggetto di attenzioni da parte del Tribunale bresciano. Qui, infatti, si è accertato che i due imputati avevano posto in essere un meccanismo di fatturazioni reciproche aventi ad oggetto materiali siderurgici. Anche qui la materialità dei fatti non è stata eccepita da parte della difesa degli imputati.
In ambedue i casi, come visto, si è eccepita, piuttosto, la carenza del fine specifico d’evasione. Questo perché, rimanendo sul mero piano oggettivo, le operazioni a specchio sono essenzialmente sempre da considerarsi oggettivamente inesistenti (verrebbe da dire che l’inesistenza qui è in re ipsa): non pare, pertanto, di potersi ravvisare ipotesi in cui operazioni di tal fatta non abbiano generato un pericolo per gli interessi dell’Erario alla corretta percezione dei tributi. Tuttalpiù, si ripeta, la questione potrà vertere sull’elemento soggettivo. Così, tornando alla vicenda calcistica, si potrebbe obiettare che lo scopo principale di queste operazioni era quello di ridurre perdite societarie nel breve periodo al fine di osservare il vincolo del pareggio di bilancio imposto dalla UEFA. Del pari, nella vicenda che qui si annota, la difesa ha obiettato come i due imputati avessero agito allo scopo di ottenere anticipazione di liquidità dalle banche.
4.2. Dolo specifico e movente: diversi ma inscindibilmente uniti. Ma queste altre finalità che, in concreto, potrebbero costituire le mire dell’agente sono da ascrivere alla categoria del dolo specifico o del movente? La risposta a tale quesito presuppone, necessariamente, l’esatta individuazione dei confini tra dolo specifico e movente (o motivo).
Come noto, la questione non è affatto nuova, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Secondo una risalente impostazione, debitrice dell’elaborazione dogmatica tedesca[20], la distinzione tra scopo (nel dolo) e movente poggerebbe esclusivamente sull’esteriorità dell’uno e sulla soggettività dell’altro[21]. Tale inquadramento, sia pur suggestivo, si risolve però, a ben vedere, in una mera superfetazione: come è stato osservato, infatti, è solo per mezzo dell’attività legislativa che possiamo distinguere cosa è fine e cosa è movente, tralasciando l’ontologia del dato pre-giuridico[22].
Ciò che realmente importa, al penalista, è la distinzione tra finalità tipiche e finalità atipiche. In questo senso, è il legislatore l’unico cui compete, come già visto in precedenza, di distinguere, nella molteplicità dei possibili fini che possono guidare l’azione dell’uomo, quell’unico fine rilevante per tipizzare la fattispecie astratta. Così facendo, dunque, il legislatore trasforma un “semplice” movente in un fine tipico, o – meglio – un “movente tipico”, ossia il perseguimento di un interesse che motiva la condotta volontaria e la rende conforme alla fattispecie tipica[23]. Fare riferimento al concetto di “esteriorizzazione” appare, invece, sovrabbondante, perché – di per sé – tutti gli elementi essenziali della fattispecie necessitano di essere esteriorizzati. Che, in contrapposto al fine, il movente sia “interiore” non risulta verificabile. «L’impulso motivante può essere interiore, e rimanere tale, celato nella psiche dell'agente, può tuttavia manifestarsi ed esteriorizzarsi, anzi il più delle volte si manifesta ed esteriorizza in quegli stessi fatti fenomenici dai quali il giudice trae il convincimento di reità. E allora ciò che rimane di questa distinzione è la necessaria esteriorità del fine, in contrapposto alla eventuale esteriorità del movente; ma la necessità di esteriorità non è altro che tipicità, sicché la distinzione vera riposa non già sull'esteriorità, bensì sulla tipicità»[24].
La tipicità, pur essendo il più importante degli elementi utili per discernere lo scopo dal movente, non è certamente l’unico. A tal proposito, pare di potersi condividere quell’impostazione che rileva, quale ulteriore attributo necessario del dolo specifico, la sua “trascendenza”, il che sta a significare che la finalità dell’agente deve essere proiettata verso un quid di esterno e aggiuntivo rispetto alla condotta
tipica e all’evento, oggetto del dolo generico[25]. Se così non fosse e, dunque, se la finalità fosse meramente immanente, si proietterebbe verso lo stesso oggetto del dolo generico.
Da ultimo, poi, viene in soccorso, ai fini della presente analisi, l’attributo dell’elettività: lo scopo deve essere elettivo, in quanto scelto – dall’agente – nel novero dei fini possibili e assunto – per altro verso – dal legislatore come condizione essenziale del reato (tipicità). Il fine è esclusivo, proprio in quanto elettivo: la scelta del legislatore di “tipizzarlo” esclude la rilevanza penalistica degli altri fini possibili.
Dal canto suo, anche la giurisprudenza di legittimità si è talvolta interrogata sulla distinzione tra movente e dolo specifico, senza però fornire indicazioni univoche. Più in generale, e, dunque, non solo con riferimento al settore penale-tributario, si afferma[26] – pur nella varietà lessicale delle definizioni – che, mentre il movente (o motivo o scopo) costituisce lo scopo ultimo, l'impulso ad agire, quel fatto psichico senza il quale l'agente non avrebbe operato, diversamente lo scopo (nel dolo specifico) presuppone il passaggio alla fase volitiva e la precisa determinazione del contenuto della volontà con affinamento della spinta (motivazionale) iniziale[27].
Non si tratta di un tema propriamente “nuovo” tantomeno nello specifico panorama penale-tributario. Già con riferimento ad altre ipotesi delittuose previste dal d.lgs. 74/2000 i giudici di legittimità hanno tracciato l’actio finium regundorum rispetto al movente. Così, ad esempio, si è precisato che, mentre «il movente dell'azione è la causa diretta che spinge una persona a compiere una determinata azione, perlopiù criminosa o illecita, diversamente il fine dell'azione è lo scopo cui è preordinata la commissione di un determinato illecito»[28]. Nella specie, trattandosi di reato a dolo specifico è irrilevante il movente che può aver spinto l'imputato alla condotta (nel caso citato, di occultamento e distruzione di documenti contabili, la difesa eccepiva l’insussistenza del dolo specifico poiché l’intento perseguito dall’agente era quello di truffare i propri clienti), rilevando esclusivamente il fine dell'azione, ossia il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione fiscale di terzi.
Posta in questi termini la discussione, la strada per una strategia difensiva che faccia perno sull’elemento soggettivo si sviluppa in salita. Come visto, e riprendendo gli esempi fatti poc’anzi, la volontà di perseguire con le proprie condotte speculari il pareggio di bilancio oppure la volontà di ottenere pronta liquidità mediante anticipo sulle fatture, finiscono per essere assorbiti, piuttosto, nell’ambito del movente che ha spinto l’agente all’azione criminosa.
[1] Si tratta di una pratica ampiamente invalsa nella prassi commerciale, specie in situazioni di carenza di liquidità. Con l’anticipo delle fatture (inquadrabile tra i finanziamenti a breve termine) un’azienda può infatti ottenere liquidità da parte di un istituto di credito, cedendo i crediti commerciali vantati verso altre aziende da fatture con scadenza futura.
[2] Per un approfondimento sul tema cfr. A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Milano, 2020, 344 ss.; G. Ruta, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in R. Bricchetti-P. Veneziani (a cura di), I reati tributari, Torino, 2017, 192 ss.; E. Musco-F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 111 ss.; E. Basso-A. Viglione, Diritto penale tributario, Torino, 2021, 39 ss.; A. Aceto, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in A. Scarcella (a cura di), La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., Torino, 2019, 29 ss.; F. Cagnola, Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in C. Nocerino-S. Putinati (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2015, 25 ss.; F. Cagnola-A. La Rosa, Reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, d.lgs. n. 74/2000), in L. Salvini-F. Cagnola (a cura di), Manuale professionale di diritto penale tributario, Torino, 2022, 415 ss.; A. Ingrassia, Ragione fiscale vs ‘illecito penale personale’. Il sistema penale-tributario dopo il d.lgs. 158/2015, Santarcangelo di Romagna, 2016, 49 ss.; G.L. Soana, I reati tributari, Milano, 2023, 107 ss.
[3] In questo senso v., in dottrina, A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 357; G. Ruta, La dichiarazione fraudolenta, cit., 185; E. Corucci, Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in A.L. Giarda-A. Perini-G. Varraso (a cura di), La nuova giustizia penale tributaria, Milano, 2016, 194; L. Pistorelli, Quattro figure contro il contribuente infedele, in Guida dir., 2000, 62; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 58 (che parla di condotta a «struttura complessa»); F. Cagnola, Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, cit., 30; E. Basso-A. Viglione, Diritto penale tributario, cit., 42; A. Aceto, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, cit., 56; F. Cagnola-A. La Rosa, Reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, cit., 437; G.L. Soana, I reati tributari, cit., 115. Pacifica la giurisprudenza di legittimità sul punto: Cass. pen., Sez. Un., 25 ottobre 2000, n. 27; Cass. pen., sez. III, 7 febbraio 2007, n. 12284; Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2008, n. 14718; Cass. pen., sez. III, 20 maggio 2014, n. 52752; Cass. pen., sez. III, 24 novembre 2011 , n. 48498; Cass. pen., sez. III, 18 giugno 2015, n. 32348.
[4] L. Pistorelli, Quattro figure contro il contribuente infedele, cit., 62; R. Pisano, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Art. 2), in A. Di Amato (dir. da), Trattato di diritto penale dell’impresa. I reati tributari, VII, Padova, 2002, 384 ss.
[5] Cfr. Cass. pen., sez. III, 21 aprile 2022, n. 22812; Cass. pen., sez. III, 24 maggio 2019, n. 39316; Cass. pen., sez. III, 12 giugno 2018, n. 49190; Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 2013, n. 44665; Cass. pen., sez. III, 17 marzo 2010, n. 17525; Cass. pen., sez. III, 15 marzo 2006, n. 13244.
[6] Cfr. essenzialmente gli autori citati in nota 3.
[7] Così G. Di Matteo-C. Annunzi, Processo Mediaset: finalità concorrenti con l’evasione fiscale e integrazione del reato ex art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, in Il Fisco, 2013, 6068.
[8] Si rimanda alle illuminanti riflessioni di M. Gelardi, Il dolo specifico, Padova, 1996, 153 ss. Sulla funzione tipizzante del dolo specifico (tesi oramai grandemente invalsa nella dottrina maggioritaria) v. anche G. Delitala, Il “fatto” nella teoria generale del reato, Padova, 1930; G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 1999, 428 ss.; L. Picotti, Il dolo specifico, Milano, 1993, 471 ss.; G. Fornasari, Dolo, errore sul fatto ed aberratio ictus, in AA. VV., Introduzione al sistema penale, II, Torino, 2001, 176 ss.; C. Grosso-M. Pelissero-D. Petrini-P. Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2017, 336; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, 370.
[9] Trib. Brescia, sent. 1571 del 15 dicembre 2022, 5.
[10] Ivi, 6.
[11] Cass. pen., sez. III, 18 settembre 2020, n. 32734.
[12] Ivi, 4.
[13] Sulla copertura “costituzionale” di tale principio cfr. M. Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 8 ss.; F. Bricola, voce Teoria generale del reato, in Nss. dig. it., XIX, Torino, 1973, 82 ss.; E. Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 55 ss.; F. Mantovani, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, 445 ss.; G. Vassalli, Considerazioni sul principio di offensività, in Studi Pioletti, Milano, 1982, 629 ss.; G. Zuccalà, Sul preteso principio di necessaria offensività del reato, in Studi Delitala, III, Milano, 1984, 1700 ss.; D. Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in A.M. Stile (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, 134 ss.; A. Fiorella, voce Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 793 ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 467 ss.; G. Insolera, Reati artificiali e principio di offensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1, VI comma, l. n. 516 del 1982, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 726 ss.; G. Fiandaca, Considerazioni sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in A.M. Stile (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 61 ss.; C. Fiore, Il principio di offensività, in Ind. Pen., 1994, 278 ss.; E. Dolcini-G. Marinucci, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 333 ss.; S. Moccia, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 343 ss; G. Neppi Modona, voce Reato impossibile, in Dig. disc. pen., XI, Torino, 1996, 259 ss.; M. Donini, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, 18 ss., 25 ss., 45 s., 117 ss., 140 ss.; F. Palazzo, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione. Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 74; Id., Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 350 ss.; M. Caterini, Reato impossibile e offensività. Un’indagine critica, Napoli, 2004; V. Manes, Il principio di offensività. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005; A. Merli, Introduzione alla teoria generale del bene giuridico, Napoli, 2006, 283 ss.; D. Falcinelli, L’attualità dell’offesa, Torino, 2009, 59 ss.; M. Romano, La legittimazione delle norme penali: ancora su limiti e validità della teoria del bene giuridico, in Criminalia, 2011, 33 ss.
[14] Cfr. F. Tesauro, Compendio di diritto tributario, Milano, 2020, 463. Pacifica la giurisprudenza civilistica sul punto, per cui v. Cass. civ., sez. V, ord. 2 febbraio 2023, n. 3149; Cass. civ., sez. VI, ord. 27 ottobre 2022, n. 31710; Cass. civ., sez. V, ord. 1 marzo 2022, n. 6627 (la quale peraltro precisa che in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti la buona fede non scusi mai, al fine di eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale conseguente al diritto di detrazione); Cass. civ., sez. V, ord. 12 marzo 2020, n. 7080.
[15] Cfr. Cass. pen., sez. III, 24 settembre 2008, n. 39177.
[16] Riferimenti rinvenibili già in G. Delitala, Il “fatto” nella teoria generale del reato, cit., 132. Nello stesso senso cfr. M. Gallo, voce Dolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 795; G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, cit., 577 ss.; A. Molari, La tutela penale della condanna civile, Padova, 1960, 91; F. Bricola, voce Teoria generale del reato, cit., 87; L. Stortoni, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976, 84 e 265; S. Seminara, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, 370 ss.; M. Gelardi, Il dolo specifico, cit., passim; S. Prosdocimi, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, 170 ss. Ci pare dello stesso avviso, quantomeno con riferimento alla categoria dei reati di scopo bifasici incompiuti (quale ad esempio il 416 c.p.), anche C.E. Paliero, Oggettivismo e soggettivismo nel diritto penale italiano, Milano, 2006, 112. Si tratta, poi, di assimilazione fatta propria della prevalente dottrina che si è occupata di tematiche della parte speciale del diritto penale, così ad esempio con riferimento ai reati associativi (F. Dean, Il rapporto di mezzo a fine nel diritto penale, Milano, 1967, passim; G. Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, 91 ss.), al settore penal-commerciale (F. Bellagamba, La corruzione in atti giudiziari nella teoria generale del reato, Torino, 2016; E. La Rosa, Corruzione privata e diritto penale, Torino, 2018, 510), ai reati animati da finalità di terrorismo (L.D. Cerqua, La nozione di “condotte con finalità di terrorismo” secondo le fonti internazionali e la normativa italiana, in Rev. bras. estud. pol., 2007, 107; G. Marino, Il “filo di arianna”. Dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in Dir. pen. cont., 2018). Contra L. Picotti, Il dolo specifico, cit., 511 ss.
[17] Richiede, invece, l’idoneità in astratto F. Angioni, Contenuto e funzioni del bene giuridico, Milano, 1983, 115 ss.
[18] Come richiesto dalla dottrina maggioritaria in punto di giudizio di probabilità dell’idoneità degli atti (nel tentativo) o con riferimento alla prognosi da effettuarsi nei reati a pericolo concreto. Sul punto, ex plurimis, cfr. F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Milano, 1994, 97 ss.; G.V. De Francesco, La proporzione nello stato di necessità, Napoli, 1978, 177; G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, cit., 561; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, 211; C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, 379 ss.; G. Grasso, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 701; C. Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 268 ss. Nella dottrina tedesca cfr. H. Alwart, Strafwürdiges Versuchen. Eine Analyse zum Begriff der Strafwürdigkeit und zur Struktur des Versuchsdelikts, Berlin, 1982, 172 ss. (con riferimento al tentativo inidoneo); W. Gallas, Abstrakte und konkrete Gefährdung, in H. Lüttger-H. Blei-P. Hanau (Hrsg.), Festschrift für Ernst Heinitz zum 70. Geburtstag am 1. Januar 1972, Berlin, 1972, 177 (con riferimento ai reati di pericolo); C. Roxin, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in E. Barth (Hrsg.), Festschrift für Richard Honig zum 80. Geburtstag, Göttingen, 1970, 139 (con riferimento all’accertamento del criterio del c.d. aumento del rischio nella sua nota tesi dell’imputazione oggettiva).
[19] Trib. Brescia, sent. 1571, cit., 11.
[20] Già nell’800 infatti emergeva nella dogmatica tedesca la distinzione tra Absicht (intenzione) e Zweck (scopo). Sul punto cfr., ad esempio, A.F. Berner, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, Leipzig, 1857, 145 («Die Absicht verkörpert sich in dem Erfolge. Sie löset sich auf diese Weise ganz von der Innerlichkeit des Subjektes. […] Der Zweck ist dagegen etwas ganz Innerliches, durchaus Individuelles und Unsichtbares») e F. von Liszt, Die psychologischen Grundlagen der Kriminalpolitik, in ZStW, 1896, 476 ss. ora anche in Id., Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, Band 2 1892 bis 1904, Berlin, 1905, 170 ss. (in particolare 180).
[21] Cfr., ex multis, nella dottrina italiana A. Malinverni, Scopo e movente nel diritto penale, Torino, 1955, 28; B. Alimena, Principii di diritto penale, Napoli, 1910. 301; E. Altavilla, Lineamenti di diritto criminale, Napoli, 1932, 129; G.D. Pisapia, Reato continuato, Napoli, 1938, 122; G. Musotto, Colpevolezza, dolo e colpa, Palermo, 1939, 198; R. Pannain, Gli elementi essenziali e accidentali del reato, Roma, 1936, 335.
[22] M. Gilardi, Il dolo specifico, cit., 152. Nello stesso senso anche L. Picotti, Il dolo specifico, cit., 521.
[23] Ivi, 154.
[24] Ivi, 156.
[25] Da ultimo, ci sembra sia rilevato lo iato rispetto al dolo generico da C. Piergallini, Il fatto tipico doloso, in C.E. Paliero (a cura di), Il sistema penale, Torino, 2024, 266 ss. («È però da rilevare che, in alcuni casi, il legislatore arricchisce il dolo del fatto di una particolare coloritura, enfatizzando la specifica tendenza soggettiva che muove l’autore, attraverso la tipicizzazione espressa dei motivi che sorreggono l’azione, che, per questa via, si issano ad elementi costitutivi del fatto, ancorché espressivi di un particolare disvalore di intenzione. Si allude alla categoria del dolo specifico, semanticamente riconoscibile, nel Tipo, per il ricorso alle seguenti espressioni letterali: “allo scopo di”, “al fine di”, “per”. In tali casi, il legislatore accorda speciale rilievo al movente/scopo che deve assistere la condotta»).
[26] In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. II, 22 marzo 2016, n.15680 («ai fini del delitto di ricettazione è irrilevante il movente, ossia la causa psichica che ha indotto l’agente ad agire, potendo il medesimo essere preso in considerazione ai soli fini del trattamento sanzionatorio»); Cass. pen., sez. I, 18 marzo 1982 (in tema di blocco stradale); Cass. pen., sez. II, 25 ottobre 2023, n. 46097. Più di recente cfr. la criticabile nozione di dolo specifico – in relazione al movente – offerta da Cass., Sez. Un., 25 maggio 2023, n. 41570 in Sist. pen., 10 gennaio 2024 con nota di M. Nicolini, Le Sezioni Unite sul dolo specifico di profitto nel furto: esso può avere anche natura non patrimoniale ove viene definito come «[…] movente qualificato, che si colloca al di là della coscienza e volontà del fatto».
[27] «Solo nella tipizzazione del fine specifico, infatti, la legge descrive e dà rilievo giuridico all'anticipata rappresentazione, da parte dell'agente, di un determinato contenuto esterno (l'oggetto dello scopo), che certo lo deve «muovere» all'azione tipica, con efficacia anche causale sul piano psichico-soggettivo, ma che è previamente significativo su quello oggettivo-funzionale, poiché individua l'evento o risultato specifico o anche l'attività «ulteriori», la cui realizzazione soltanto -attraverso la condotta strumentale - produce l'oggettivo soddisfacimento dell'interesse dell'agente considerato dalla legge, così puntualizzando – come si è visto - il fatto tipico, nella sua dimensione di conflitto di interessi, realmente esistente al di fuori dell'animo dell'agente. Altrettanto non può dirsi nel caso del «motivo», rispetto a cui il legislatore si disinteressa della stessa possibilità di descrivere e, dunque, di dar rilevanza allo sviluppo o risultato ulteriore della condotta, che ne possa garantire il soddisfacimento, essendo solo l'azione già tipica, in cui si manifesta, riguardata quale sua attuazione o «prodotto». Ne consegue, che mentre nelle ipotesi di dolo specifico è definibile normativamente il momento del raggiungimento del fine, come dato distinto dalla consumazione formale del reato, nel caso del movente il reato si consuma, ma anche si esaurisce, in termini giuridici, con il compimento della condotta o con il verificarsi dell'evento già oggettivamente tipizzati, in quanto - per definizione legale - l'individuazione del fatto, pur considerato manifestazione di quella presupposta eziologia psichica, non ne è direttamente condizionata» (L. Picotti, Il dolo specifico, cit., 528 ss.).
[28] Cass. pen., sez. VII, 6 dicembre 2019, n. 9439.