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30 Settembre 2024


Otto proposizioni critiche sulle proposte di separazione delle magistrature requirente e giudicante


In queste settimane sono all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati una serie di progetti di legge costituzionale che mirano a modificare l’assetto della magistratura, introducendo una separazione tra la magistratura requirente e quella giudicante.

Per un verso, vi sono quattro proposte di iniziativa parlamentare intitolate “Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura” (n. 23, Costa; 434, Giachetti; n. 806, Calderone, Cattaneo, Pittalis, Patriarca; n. 824 Morrone, Bellomo, Bisa, Matone, Sudano). Tre di queste (n. 23, 434, 824) ricalcano la proposta di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle camere penali presentata nell’ottobre 2017 (n. 4723) e ripresentata nella XVIII Legislatura (n. 14); la n. 806 si differenzia invece da queste sotto diversi profili.

Per altro verso, è stato presentato un disegno di legge costituzionale d’iniziativa del Presidente del consiglio Meloni e del Ministro della Giustizia Nordio (n. 1917), che, pur non recando tale riferimento nel titolo, prevede l’introduzione di due carriere diversificate tra magistrati requirenti e giudicanti.

Vorrei analizzare le prospettive di riforma della Carta costituzionale in un’ottica prevalentemente processuale, prendendo le mosse da otto proposizioni.

 

1. I progetti di riforma non prevedono la separazione delle carriere, ma la separazione delle magistrature requirente e giudicante

Con questa prima proposizione intendo chiarire qual è la portata delle proposte avanzate da tutti i progetti in discussione. Al di là delle etichette formali, non di mera separazione delle carriere si tratta, ma di qualcosa di diverso e di più radicale.

In fondo, per separare le carriere mantenendo un unico ordine giudiziario non serve affatto una modifica costituzionale. La Corte costituzionale è stata chiarissima sul punto: nella sentenza n. 37 del 2000 ha precisato che la Costituzione, «pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni»[1]. Come dire: la separazione delle carriere in senso proprio – con la previsione di concorsi differenziati, di una progressione ispirata a criteri e valutazioni diverse e l’impossibilità di transitare da un ruolo a un altro – non trova alcun limite nella Carta costituzionale e potrebbe essere realizzata anche attraverso una legge ordinaria, purché rimanga un unico ordine ed un unico Consiglio superiore[2].

Stando così le cose, si comprende bene come nelle proposte in esame si intenda perseguire una manovra molto più profonda: pur proclamandone l’unitarietà (nel nuovo art. 104, comma 1), l’ordine giudiziario viene diviso in due magistrature, quella requirente e quella giudicante, che saranno “governate” da due CSM differenti. Al di là delle affermazioni di principio, dubito che – nella Costituzione materiale – permarrebbe davvero un ordine unico: si è giustamente rilevato che «la creazione di due organi separati altera [i]l modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte»[3]. Ad ogni modo, quel che è certo è che, l’unico ordine dimezzato o le due magistrature distinte finirebbero inesorabilmente per essere indebolite rispetto agli altri poteri. In natura, come nelle istituzioni, la divisione di un organismo unitario in due ne determina generalmente il ridimensionamento nei rapporti esterni. E, peraltro, questa limitazione è obiettivo dichiarato, almeno delle proposte che riprendono l’iniziativa dell’Unione delle camere penali italiane.

È bene dunque essere chiari, fin dalla terminologia: nei progetti in discussione alla Camera si persegue non la separazione delle carriere, ma la separazione delle magistrature.

 

2. La separazione delle carriere (e tanto meno delle magistrature) non è necessaria per attuare il modello accusatorio, né è imposta dall’art. 111 Cost.

Secondo la relazione al d.d.l. C. 1917 del Governo, con la proposta di riforma costituzionale si darebbe «attuazione alla separazione delle […] carriere in modo conforme alla struttura più coerente con le regole fondamentali del processo penale»[4]. D’altronde, il Ministro della Giustizia ha affermato che «la separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio»[5] e, nella relazione alle proposte di riforma di iniziativa parlamentare, si sostiene che la separazione delle carriere è «un obiettivo la cui realizzazione non è più prorogabile perché è previsto nella nostra Costituzione ed è quello proclamato dall’articolo 111»[6].

Ebbene, mi pare che queste affermazioni – che riprendono una diffusa vulgata – non siano condivisibili.

Anzitutto, nel nostro modello processuale il pubblico ministero e il giudice sono già distinti in modo chiaro e netto sul piano funzionale. Questa diversificazione non richiede affatto una differenziazione anche sul versante ordinamentale. Sono due piani dissimili, che non devono trovare una necessaria simmetria e coincidenza.

In secondo luogo, bisogna essere molto schietti nell’affermare che la disputa tra accusatorio e inquisitorio risulta oggi quasi di tipo “teologico”, visti l’avvicinamento e l’ibridazione dei sistemi cui si è assistito negli ultimi decenni e l’affermazione a livello europeo – anche grazie alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – di un “modello contraddittorio” [7]. È chiaro a tutti gli studiosi del processo penale – e soprattutto ai comparatisti – che non esiste un modello accusatorio in vitro verso il quale tendere. Per questo, suona un po’ ambiguo il continuo richiamo – anche da parte di una certa dottrina processuale penale – al modello accusatorio. Aveva un senso nel 1987, quando venne inserito nell’art. 2, comma 1, della legge delega, come bussola di una vera e propria rivoluzione culturale, che ha portato a realizzare in Italia «the most serious attempt to transfer adversarial criminal procedures into an inquisitorial jurisdiction since 1791, when the French attempted to import the English system during the heat of the Revolution»[8]; ma oggi, dopo trenta cinque anni nei quali si è sviluppato un modello processuale “tendenzialmente” accusatorio – o un “accusatorio all’italiana” – occorre essere più precisi. Conviene dire chiaramente che si guarda al modello americano.

Il che è perfettamente legittimo: ma bisogna stare attenti al fascino delle semplificazioni e dire chiaramente come stanno le cose.

Da un lato, il dover essere del modello accusatorio americano ruota intorno al trial by jury e, quindi, all’istituto della giuria quale potente fattore di bilanciamento contro gli arbitrii del governo. E, allora, se si vuole attuare in Italia un sistema processuale “realmente” accusatorio (o, meglio, l’accusatorio all’americana) si dovrebbe, più che separare le carriere, introdurre l’istituto della giuria che decide a verdetto immotivato e ripensare integralmente il sistema delle impugnazioni. Ciò che richiederebbe la modifica dell’art. 111, comma 6 e comma 7, Cost. A me, francamente, non pare una prospettiva auspicabile, soprattutto in un contesto in cui soffiano forti i venti populisti. Preferisco di gran lunga un giudice togato che decide motivando e un controllo della sua decisione, con vaglio finale del giudice di legittimità.

Dall’altro lato, occorrerebbe chiarire che la realtà concreta di quel sistema – come ha riconosciuto la Corte suprema americana – è fatta di giustizia negoziata e non di processi, con il 97% dei casi federali e il 94% di quelli statali definiti attraverso l’ammissione di responsabilità dell’imputato[9]. Un sistema nel quale si assiste a quella che è stata recentemente definita «administratisation of criminal convictions», perché fondata sull’attribuzione di un ruolo preminente nella definizione della pena a organi amministrativi (quali la polizia e il prosecutor) e il ridimensionamento dei diritti dell’imputato[10]. Altro che qualità della giurisdizione.

Infine, l’art. 111, comma 2, Cost., laddove parla di giudice terzo oltre che imparziale non postula necessariamente una differenza ordinamentale. È ben vero che questa disposizione ha avuto anche questa lettura; ma, secondo un’interpretazione consolidata nella giurisprudenza costituzionale, la formulazione dell’art. 111, comma 2, Cost. non avrebbe innovato sostanzialmente rispetto a quanto desumibile in precedenza dagli artt.  24 e 3 Cost.[11]; avrebbe invece esplicitato un valore fondamentale che la Corte aveva desunto dal «principio del giusto processo in tema di garanzia dell'imparzialità del giudice (v., ad esempio, sentenze nn. 113 del 2000, 241 del 1999, 290 del 1998, 346 e 311 del 1997, 155 e 131 del 1996, 432 del 1995)»[12]. L’endiadi indicherebbe la neutralità processuale del giudice rispetto alla regiudicanda: è necessario insomma «che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto “terzo”, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi»[13]; in altre pronunce, si è sottolineata l’importanza di escludere che il giudice «possa pronunciarsi condizionato dalla “forza della prevenzione”, cioè dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001)»[14].

Come si vede, la piena attuazione del valore dell’imparzialità e della terzietà sancito dall’art. 111, comma 2, Cost. è compito del legislatore processuale. È ovviamente essenziale per perseguire tale valore la distinzione funzionale nel contesto processuale, mentre non c’entra lo status ordinamentale.

 

3. La separazione delle carriere (e tanto meno delle magistrature) non è necessaria per risolvere un’anomalia italiana, di un PM che, essendo parte del potere giudiziario, ha assunto uno “strapotere”

Sul punto merita essere chiari: non esiste un modello unico di PM[15]. L’assetto dell’ufficio dell’accusa dipende infatti dalla storia giudiziaria e politica di ciascun paese. Beninteso, caratteri di ambiguità hanno sempre accompagnato la storia dell’istituto, sin dalle sue origini: basti pensare che il decreto dell’Assemblea nazionale sull’organizzazione giudiziaria del 16-24 agosto 1790 (che avrebbe ispirato molte legislazioni europee in materia), da un lato, confermava l’appartenenza degli uffici del pubblico ministero all’ordine giudiziario, mentre dall’altro li definiva agenti del potere esecutivo presso i tribunali. Ora, il panorama è alquanto variegato.

Con l’eccezione del Portogallo[16], in tutti i paesi europei il PM è un organo che dipende dall’esecutivo (Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Slovenia, Spagna, Svezia). Pure negli USA è un organo fortemente politicizzato, posto che, a livello statale, è spesso eletto direttamente dal popolo e, a livello federale, è nominato dall’esecutivo.

In molti di questi paesi, soprattutto dove non vi è il giudice istruttore, il PM ha visto accrescere sensibilmente il proprio ruolo e il proprio potere. In un autorevole studio del 2017 – significativamente intitolato Prosecutors and Democracy – si riconosce come oggi il perno del sistema di giustizia penale sia sempre più rappresentato, in gran parte del mondo, proprio dal PM[17].

Lo “strapotere” del PM non è dunque assolutamente un fenomeno italiano, derivante dalla collocazione ordinamentale dell’accusatore. È un trend diffuso in tutto il mondo. E presenta punte estreme proprio nel sistema accusatorio americano, a cui si guarda con tanta simpatia: come ricordato, nella prassi, la giustizia americana si presenta come un’“antiprocedura” dove il public prosecutor impazza come il dominus della scena della giustizia negoziata (plea bargaining)[18].

 

4. La separazione delle carriere può assicurare maggiore distanza sul piano simbolico, ma non garantisce la parità assoluta delle parti e l’effettiva terzietà del giudice

La separazione delle carriere può forse contribuire ad assicurare, sul piano dell’apparenza, maggiore distanza tra pubblico ministero e giudice. In tal senso, spesso viene utilizzato l’argomento della vicinanza o dell’amicizia (per intendersi l’argomento del caffè o del “tu”)[19]. Se inteso in senso rigoroso, questo argomento mi sembra però provi troppo: a ben considerare, dovrebbe infatti valere a maggior ragione per il collega giudicante, che è chiamato a controllare la decisione in grado di appello o in cassazione. Il giudice di primo grado e quello di impugnazione sono “colleghi” a pieno titolo e lo saranno anche dopo la separazione delle magistrature. La loro colleganza finirà per inficiare l’imparzialità e la terzietà del giudice del controllo? Non credo: dipenderà, naturalmente, dalle garanzie processuali.

Peraltro, mi pare che un’analisi accurata dei dati statistici relativi alla giustizia penale smentisca in modo impietoso l’argomento della colleganza o vicinanza.

Da un’analisi monografica condotta qualche anno fa è emerso che, nel periodo 2011-2019, il reversal rate in appello (ossia il tasso di riforma delle decisioni) si sia attestato su un valore medio nazionale di quasi il 37% rispetto al totale delle sentenze emanate da siffatti giudici, a fronte di un tasso di sentenze di conferma di circa il 35%[20]. Si può, dunque, ben dire che, in questo arco cronologico – ma l’andamento è sostanzialmente in linea già nei primi anni Novanta –, le decisioni di accoglimento (anche solo parziale) degli appelli sono state in valore assoluto la tipologia di pronuncia più di frequente assunta dalle corti di seconde cure nostrane. Nessun condizionamento derivante dalla stretta colleganza tra giudici. Stesso concorso; stessa carriera; stesso CSM; si vedono al bar e si danno del tu. Ma i giudici d’appello non si fanno scrupoli a riformare le sentenze dei loro colleghi di primo grado.

E un discorso non dissimile può essere fatto per i rapporti tra pubblici ministeri e giudici di primo grado. La percentuale di assoluzioni pronunciate in prime cure sembra sconfessare in modo oggettivo il denunciato appiattimento del giudice sul PM: nel 2019, il 50% delle pronunce del tribunale monocratico è dato da proscioglimenti, di cui 39% di assoluzioni nel merito; nel collegiale i proscioglimenti (sempre nello stesso anno) sono stati il 35%[21].

Nessun condizionamento derivante dalla colleganza tra appartenenti alla stessa magistratura. Stesso concorso; stessa carriera; stesso CSM; si vedono al bar e si danno del tu. Ma i giudici di primo grado non si fanno scrupoli a prosciogliere gli imputati. Molto più di quanto non facciano i giudici francesi, che pur non sono colleghi in senso stretto del PM[22].

Naturalmente, le cause di questi tassi (abnormi) di proscioglimento si devono a diversi fattori ma certo dimostrano che appiattimento non c’è. Per ridurli servirebbe un pubblico ministero ancora più capace di vestire l’abito del giudice: la riforma Cartabia ha richiesto – ragionevolmente – al PM di filtrare di più, esercitando l’azione penale solo quando sussiste una «ragionevole previsione di condanna» (art. 408 c.p.p.). Per effettuare tale prognosi deve ragionare come il giudice.

Ad ogni modo, il punto decisivo è: la separazione delle magistrature contribuirà a realizzare una volta per tutte l’effettiva parità di accusa e difesa nel processo e, di conseguenza, l’assoluta imparzialità del giudice?

A me sembra di no. Quando si ragiona della tendenza del giudice ad appiattirsi sulle ragioni del PM si sottovaluta un dato ineliminabile: vi è un legame inconfutabile tra PM e giudice, che non dipende affatto dal loro appartenere a un’unica magistratura, ma da qualcosa di ben più profondo. Entrambi perseguono – sia pur con ruoli diversi – l’interesse pubblico all’applicazione della legge e all’assoluzione dell’innocente o alla punizione del colpevole; mentre il difensore persegue (doverosamente) un interesse privato. Questa asimmetria è ineludibile e insopprimibile: proprio la comunanza dell’interesse pubblico rischia talvolta di condurre il giudice a dare maggiore ascolto alle tesi dell’accusa rispetto a quelle della difesa. Ma questo, lo ribadisco, non dipende dalla circostanza che hanno fatto lo stesso concorso o che sono colleghi, ma dal fatto che il PM è portatore della potestà punitiva dello Stato. E tale assetto non cambierà di una virgola anche in regime di separazione delle magistrature: si è perspicuamente scritto che, persino in caso di «dipendenza dall’esecutivo, l’accusa sarebbe, almeno in linea teorica, sempre esercitata nell’interesse della collettività e, quindi, a fini di giustizia; e il giudice continuerebbe ad esserne consapevole»[23].

La verità è che tale rischio va ridimensionato attraverso il rafforzamento delle garanzie processuali. Insomma, l’effettiva terzietà del giudice dipende da dinamiche interne al procedimento: dalla disciplina della competenza e dai presidi sanzionatori delle incompatibilità; dall’effettività del contraddittorio; dalla qualità della motivazione; dalla fisionomia dei controlli in sede di impugnazione. Detto altrimenti: ci si illude che intervenendo sull’ordinamento si rafforzi il giudice, il quale, finirà, al contrario per essere indebolito.

 

5. La separazione delle magistrature finirà per accentuare il ruolo di parte del PM nelle indagini e ciò ridimensionerà le garanzie difensive, determinando un’eterogenesi dei fini

Secondo una felice espressione il PM è sempre stato, allo stesso tempo, «avvocato dell’accusa» e «difensore della legalità»[24]: parte pubblica e imparziale. Il che è fondamentale soprattutto nella fase delle indagini preliminari, quando non vi è un giudice: al fondo delle proposte di separazione vi è la critica diffusa rispetto all’idea che il PM sia “un organo di giustizia”. Lo si considera un ibrido che evoca le ambiguità del passato inquisitorio: ora, non c’è dubbio che nel sistema misto del 1930, quando al PM erano attribuiti anche poteri decisori, questa espressione richiamasse una degenerazione inquisitoria. Oggi, invece, mi pare che l’espressione vada rivalutata nella parte in cui invoca null’altro che la natura pubblica dell’organo e della sua funzione: perspicuamente, nella Raccomandazione (2000) 19, sul ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale si chiarisce che «“Public prosecutors” are public authorities who, on behalf of society and in the public interest, ensure the application of the law where the breach of the law carries a criminal sanction, taking into account both the rights of the individual and the necessary effectiveness of the criminal justice system» (§ 1). In quanto tale, il pubblico ministero deve svolgere le sue funzioni «fairly, impartially and objectively» (§ 24, lett. a). Si tratta proprio di quel canone di imparzialità – riconducibile più all’art. 97 Cost. che al 111, comma 2, Cost. – che si staglia al fondo dell’art. 358 c.p.p., che impone al PM di ricercare, nel corso delle indagini preliminari, anche gli elementi di prova a favore dell’indagato.

Come ben noto, i sostenitori della separazione considerano tale previsione la «quintessenza del fariseismo giuridico»[25]: non verrebbe mai applicata dai PM italiani e, quindi, andrebbe cancellata.

Ebbene, il fatto che sia – troppo spesso – disattesa dai PM non è una buona ragione per proporne il superamento. La proposta di adeguare il dover essere all’essere è frutto di una delle più comuni fallacie logiche.

Al contrario, l’imparzialità del PM nella fase preparatoria delle indagini è un valore da tenere ben stretto: soprattutto oggi che le indagini preliminari – per fattori endogeni ed esogeni legati allo sviluppo della prova tecnologica – hanno assunto un peso determinante. E, non a caso, diverse fonti – oltre alla citata Raccomandazione (2000)19 – lo ribadiscono. Basti citare l’art. 5, § 4, del regolamento sul Pubblico ministero europeo (EPPO), secondo il quale «l’EPPO svolge le indagini in maniera imparziale e raccoglie tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico»; oppure l’art. 54, lett. a, dello Statuto di Roma, istitutivo del Tribunale penale internazionale, secondo il quale il Procuratore, «per determinare la verità, estende l’inchiesta a tutti i fatti ed elementi probatori eventualmente utili per determinare se vi è responsabilità penale secondo il presente Statuto, e, ciò facendo indaga sia a carico che a discarico»; infine, a livello di soft law, la Dichiarazione di Bordeaux del 2009, in cui si legge che «i Procuratori debbono essere indipendenti ed autonomi nelle loro decisioni e devono esercitare le loro funzioni in modo equo, obiettivo ed imparziale» (punto 6).

Ora, il rischio concreto è che la separazione delle magistrature e la conseguente enfatizzazione del ruolo di parte del PM finiscano per condurre a superare questo connotato; con conseguenze negative proprio nelle indagini preliminari.

Per di più, la connotazione del PM come parte in senso assoluto potrebbe avere come conseguenza patologica riflessa il ridimensionamento del suo ruolo nella fase preparatoria, finendo per valorizzare la polizia giudiziaria (sul modello inglese, in cui il Crown Prosecution Service interviene solo all’esito delle indagini). Con il che si assisterebbe a un sensibile arretramento sul piano delle garanzie per la difesa: in un contesto in cui si diffonde la prova tecnologica – che si assume generalmente nelle indagini preliminari – mi sembra difficile negare che offra maggiori garanzie – sia per la difesa, sia per la ricostruzione dei fatti – l’affidare la guida a un magistrato che assume il ruolo di parte imparziale, piuttosto che alla polizia giudiziaria o a un funzionario che si atteggia a “super-poliziotto”. In questo senso, mi sembra che la separazione possa costituire il presupposto per una vera e propria eterogenesi dei fini: nefasta soprattutto per la difesa.

Naturalmente, il riassetto del PM verrà condotto con riforme adottate con legge ordinaria per adeguare il sistema processuale al nuovo – e più “coerente” – quadro istituzionale. Peraltro, non ci si può nascondere che ridimensionare il ruolo del PM nelle indagini finirà per limitarne nei fatti l’indipendenza, posto che il protagonista diventerebbe la polizia, che dipende dall’esecutivo. Con buona pace della stessa previsione dell’art. 109 Cost.

 

6. Il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale (previsto da tre delle proposte in discussione) postula necessariamente l’inserimento del PM nel circuito democratico

Nei d.d.l. C. 23 cost. Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 824 cost. Morrone si prevede il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale: l’art. 10 di queste proposte mira a modificare l’art. 112 Cost., nel senso di prevedere che «il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge». La radice di tale proposta si può far risalire al d.d.l. 4275 presentato dal Governo Berlusconi alla Camera il 7 aprile 2011: lì si proponeva di riscrivere l’art. 112 Cost. stabilendo che «l’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge»[26]. Ebbene, come ha riconosciuto la Corte costituzionale, il canone di obbligatorietà rappresenta il «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale»[27]. In particolare, il principio si presenta quale strumento finalizzato a garantire tre valori fondamentali: anzitutto, il principio di legalità, affermato dall’art. 25, 2° co., che «rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale» e «abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere»; in secondo luogo, il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; infine, l’indipendenza del p.m., in quanto «realizzare la legalità nell’eguaglianza non è concretamente possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri»[28].

La Corte costituzionale e la dottrina ritengono (condivisibilmente) che l’art. 112 Cost. sia il pendant, sul versante del PM, dell’art. 101, comma 2, Cost. per il giudice. Esso garantisce l’indipendenza funzionale del PM, in quanto questi deve orientare le sue scelte solo in base alla legge.

Si potrebbe sostenere che sarebbe così anche domani, perché pure nella nuova formulazione vi sarebbe comunque un obbligo. Ma non sono d’accordo, per la semplice ragione che si rinvia – in tutto e per tutto – alla legge la determinazione dei presupposti in presenza dei quali sorge tale dovere: vi è il rischio che la legge finisca per attribuire al PM valutazioni discrezionali o di opportunità, prescrivendogli (ad esempio) di esercitare l’azione penale solo quando vi sia una ragionevole prognosi di condanna e risulti che l’avvio del giudizio risponda all’interesse pubblico.

Non è chi non veda come in tal modo si finirebbe per attribuire al PM una discrezionalità non tecnica: questi potrebbe compiere (legittimamente) scelte di politica criminale.

Ma, allora, sarebbe necessario e ineludibile collegare la magistratura requirente a un organo dotato di legittimazione democratica: il Parlamento o l’Esecutivo. Si tratterebbe di un approdo necessitato per assicurare democraticità al sistema e quindi rispettare l’art. 1 Cost. Nella parte in cui i tre progetti non lo prevedono, mi sembrano tecnicamente scorretti. In un ordinamento democratico, la discrezionalità non tecnica si deve necessariamente accompagnare alla responsabilità politica. Non è affatto uno scandalo, come dimostrano molti ordinamenti europei. Ma le architetture costituzionali richiedono coerenza.

Dal punto di vista dei caratteri dell’azione penale, bisogna riconoscere che il d.d.l. n. 1917 del Governo – e lo stesso p.d.l. n. 806, Calderone e altri – sono certamente preferibili rispetto a quelli che ripropongono la proposta dell’Unione camere penali, perché non prevedono la modifica dell’art. 112 Cost. In questo modo si evita – anche qui – la fallacia dell’adeguamento del dover essere all’essere (adeguando il principio alla prassi) e – soprattutto – si fa salva l’indipendenza esterna del PM: la bussola, per la magistratura requirente, continua a essere soltanto la legge.

 

 7. La creazione di una magistratura requirente, con un suo CSM, finirà per rafforzare sensibilmente il PM, con una seconda eterogenesi dei fini

Si è detto che, per una serie di dinamiche sociali, prima che giuridiche, in tutto il mondo il ruolo del PM è in crescita esponenziale. La separazione delle magistrature – con la creazione di un CSM della magistratura requirente – non faranno che assecondare e alimentare questo fenomeno. Non sortiranno affatto l’effetto riduttivo che si persegue.

A quella che polemicamente si definisce «la “casta” dei magistrati subentrerebbe la casta dei pubblici ministeri, più autoreferenziali che mai, proprio in quanto corpo isolato e autonomo da ogni altro potere»[29]; la stessa discrezionalità nelle scelte sull’azione penale, che oggi (giustamente) si lamenta, non si ridurrebbe ma, al contrario, finirebbe per essere del tutto incontrollata. Anche dal giudice.

Con il suo CSM, la magistratura requirente rischierebbe di assumere progressivamente un ruolo centrale nel dibattito pubblico. Soprattutto in una società nella quale cresce la domanda di pena, alimentata dai social network e dai media, la magistratura requirente potrà cavalcare questa istanza, cercando (e trovando) legittimazione e consenso popolare; e il CSM requirente finirà naturalmente per difendere e alimentare un ruolo di protagonismo accusatorio e di messianesimo giudiziario. Non è difficile ipotizzare quali saranno le prese di posizione del pubblico ministero rispetto ad assoluzioni che, non assecondando le aspettative dell’opinione pubblica, siano ritenute ingiustificate. E il singolo “avvocato della polizia” potrebbe senza dubbio contare sul supporto e la difesa del “suo” CSM. Così come non serve troppa fantasia distopica per immaginare il peso che assumerà il Consiglio Superiore della Magistratura requirente nei dibattiti sulle riforme della giustizia. Ho l’impressione che avrà buon gioco – in un circuito vizioso con certo giornalismo – a scagliarsi contro qualsiasi riforma volta a rafforzare i diritti della difesa.

E, ancora, quel CSM di pubblici ministeri potrebbe introdurre criteri di valutazione basati sul “merito”, ossia sul tasso di successo in termini di condanne ottenute nei processi. Con conseguente esasperazione di una cultura del risultato a discapito di una cultura delle regole[30]. Già nel 2004 Vittorio Grevi metteva in guardia dal «pericolo di un corpo separato di magistrati del pubblico ministero. Un corpo di magistrati privi di cultura giurisdizionale e fortemente aggregati, in sintonia con la mentalità dominante presso gli organi di polizia giudiziaria, nell’ottica di un ruolo di “avvocati dell’accusa” pressoché aprioristicamente indirizzati verso l’obiettivo accusatorio»[31].

Insomma, con due Consigli si finirebbe per dare vita ad «una sorta di “Prokuratura” della funzione d’accusa, organo destinato a scaricare nell’ordinamento la forza sostanziale ed inquietante della funzione d’accusa, forza accresciuta da essere protetta, garantita e rappresentata da un organismo esponenziale separato e del tutto autonomo e non responsabile»[32]. Questa magistratura requirente, protetta e garantita dal suo CSM, finirà per acquisire un ruolo e un peso che, prima o poi, sarà necessario intervenire di nuovo. Per ricondurre la corporazione dei PM al circuito democratico, verosimilmente sottoponendola all’esecutivo.

In questo senso pare agevole pronosticare che, quella prospettata dal d.d.l. 1917, sarebbe solo una tappa intermedia rispetto a una traiettoria indefettibile. Con un esito – la dipendenza del PM dall’esecutivo – che non pare positivo, né auspicabile. Tanto che gli stessi promotori della riforma si affannano a negarlo. E, in effetti, tale contrarietà appare ragionevole se si guarda al percorso seguito in tutti i paesi nei quali il PM dipende dall’esecutivo, che stanno facendo sforzi enormi per assicurarne l’indipendenza. Noi ce l’abbiamo e, con questa manovra, rischieremmo di perderla subito – se si decidesse di abolire l’obbligatorietà – o di precostituire le condizioni per (doverla) abbandonare in un secondo momento.

 

8. Nella società complessa, più che di separazione, avremmo bisogno di contaminazione dei saperi e delle esperienze

In un mondo complesso, come quello in cui viviamo, sempre più caratterizzato dalla sovrapposizione delle fonti e dalla sfida dell’interdisciplinarità dei saperi (necessaria per assicurare garanzie e legalità in una società governata dalle tecnologie), la strada per migliorare il “servizio giustizia”, assicurando maggiore qualità della giurisdizione, mi sembra esattamente opposta a quella che si vorrebbe perseguire con la frammentazione della magistratura. Più che separare le carriere e le professionalità, oggi più di ieri, si dovrebbero contaminare le esperienze e i saperi di tutti i protagonisti della giurisdizione[33]. A ben considerare, proprio gli Stati Uniti e i paesi di common law ci consegnano una lezione inequivoca: la circolazione delle esperienze nei diversi ruoli della giustizia rappresenta la regola.

In fondo, i più influenti componenti della Corte Suprema USA del dopoguerra sono stati prima avvocati, poi prosecutor e poi giudici: valga per tutti il celebre Earl Warren, Presidente della Corte in una delle stagioni più garantiste della sua storia (dal 1953 al 1969) e già General Attorney della California[34]. Da ultimo, l’attuale Presidente della Corte suprema degli USA John Roberts (avvocato, poi vice-procuratore generale e poi giudice della Corte d'Appello del Circuito del Distretto di Columbia dal 2003 al 2005). Lo stesso sistema inglese fornisce analoga testimonianza: per un verso, nel Crown Prosecution Service metà degli addetti sono avvocati; per altro verso, gli stessi giudici hanno la medesima provenienza.

E l’osmosi tra Accademia, magistratura e avvocatura connota il modello tedesco.

Proprio lo scambio e il confronto tra professioni e punti di vista sarebbe importante per rafforzare non tanto quella che viene definita cultura della giurisdizione, ma la comune cultura della legalità e delle garanzie, che dovrebbe essere patrimonio inalienabile, non solo di tutti i magistrati, ma di tutti gli operatori della giustizia.

In quest’ottica, mi sembra da salutare positivamente (almeno) lo spirito sotteso all’art. 7 dei p.d.l. n. 23, 434, 824 che prevede una modifica dell’art. 106, comma 3, Cost. nel senso di consentire la nomina di avvocati e professori ordinari di università in materie giuridiche, non solo in Cassazione, ma «a tutti i livelli della magistratura giudicante».

Nel merito, la proposta appare un po’ semplicistica e asimmetrica.

Per un verso, sembra adeguato richiedere dei meriti insigni per la nomina in Cassazione e quindi l’attuale comma 3 andrebbe lasciato inalterato. Si dovrebbe infatti far tesoro dell’esperienza maturata sotto la vigenza del r.d. n. 2626/1865 – il primo “ordinamento giudiziario” italiano –, che contemplava la nomina dei magistrati da parte del Ministro della Giustizia in alternativa al concorso e tale canale venne spesso utilizzato per gli incarichi apicali della magistratura[35]. Magari, meriterebbe poi rivedere la disciplina posta dalla l. n. 303 del 1998, la quale prevede l’abbandono della carriera universitaria e l’inquadramento nella carriera della magistratura. Sarebbe invece preferibile prevedere la possibilità di vivere l’esperienza in magistratura come temporanea, consentendo poi un ritorno all’università.

Per altro verso, con riguardo all’accesso agli uffici di merito, si dovrebbe naturalmente prevedere una delibera del CSM; per di più, non si comprende perché per i professori si richiede lo status di ordinario, mentre per gli avvocati non si fa alcun cenno neanche all’anzianità. Forse, si potrebbe ragionare sul riferimento ai professori “ordinari”, che può apparire un po’ stringente, posto che competenze adeguate si potrebbero ritrovare anche in docenti inquadrati come professori di seconda fascia. Specularmente, si potrebbe invece prevedere un qualche requisito, almeno di anzianità, per gli avvocati.

In fondo, in una celebre conferenza tenuta nel febbraio del 1952 a Città del Messico, Piero Calamandrei, proprio richiamando l’esperienza inglese, ricordava quanto sia importante la fiducia tra operatori che si instaura grazie alla medesima colleganza: «il barrister si fida dei giudici, perché ieri furono avvocati come lui; il magistrato si fida del barrister, perché sa che domani salirà anche lui, dalla sbarra del difensore, al banco del giudice»; insomma, «nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l’interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata in lui, la propria dignità»[36]. Separando le magistrature e i saperi, il rischio è che lo specchio vada in frantumi.

 

 

 

[1] Corte cost., 7 febbraio 200, n. 37, in www.cortecostituzionale.it.

[2] Lo ha ribadito, da ultimo, Corte cost., 8 marzo 2022, n. 58, ibidem.

[3] Così, R. Balduzzi, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, in Gruppo di Pisa, 2024, n. 1, p. 352.

[4] Relazione al d.d.l. C. 1917 del Governo, p. 1.

[5] Intervista video rilasciata dal Ministro Nordio a Goffredo Buccini l’11 novembre 2023, https://www.gnewsonline.it/nordio-a-stresa-presentate-cinque-riforme-epocali/(minuto 14:04).

[6]  Relazione alla p.d.l. n. 23, p. 2. La stessa affermazione si ritrova nelle relazioni di accompagnamento delle altre proposte di riforma costituzionale.

[7] Così, M. Delmas-Marty, Introduzione, in Procedure penali d’Europa, a cura di M. Chiavario, Padova, 2001, p. 21.

[8] M. Langer, From Legal Transplants to Legal Translations: The Globalization of Plea Bargaining and the Americanization Thesis in Criminal Procedure, in World Plea Bargaining. Consensual Procedures and the Avoidance of the Full Criminal Trial, a cura di S. Thaman, Durham, 2010, p. 60.

[9] V. S. Thaman, Plea bargaining in the United States, in Plea Bargaining and Criminal Justice, a cura di M. Langer, M. Mc Conville, L. Marsh, Cheltenham-Northampton, 2024, p. 36

[10] Così, M. Langer, The diffusion of plea bargaining and the global administratisation of criminal convictions, in Plea Bargaining and Criminal Justice, cit., p. 11.

[11] Corte cost. 27 aprile 2001, n. 112.

[12] Corte cost., 14 luglio 2000, n. 283. Secondo Corte cost., ord. 25 marzo 2002, n. 75, l'evocazione dell'ulteriore parametro rappresentato dall'art. 111 Cost., nella nuova formulazione, non introduce rispetto a tale giurisprudenza «profili nuovi o diversi di illegittimità costituzionale, essendo la terzietà ed imparzialità del giudice - alla cui stregua la questione è posta - pienamente tutelate nella carta costituzionale, anche anteriormente alla citata novella».

[13] Corte cost., 23 maggio 2024, n. 93.

[14] Corte cost., 27 luglio 2023, n. 172.

[15] Cfr., da ultimo, E. Bruti Liberati, Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia, Milano, 2024, p. 105 ss.

[16] Su cui José P. Ribeiro De Albuquerque, Il pubblico ministero portoghese:  architettura istituzionale,  principi, garanzie, sfide, in Quest. Giust., 2/2021, p. 118 s.

[17] Prosecutors and Democracy. A Cross-National Study, a cura di M. Langer e D.A. Slansky, Cambridge, 2018.

[18] Cfr., per tutti, V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense. Procedure v. Antiprocedure, Torino, 2022, p. XVI.

[19] G. Benedetto, Non diamoci del tu. La separazione delle carriere, Roma, 2022.

[20] M. Gialuz – J. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, p. 163.

[21] Cfr., ancora, M. Gialuz – J. Della Torre, Giustizia per nessuno, cit., p. 149.

[22] Cfr., ancora, M. Gialuz – J. Della Torre, Giustizia per nessuno, cit., p. 153.

[23] P. Ferrua, Il modello costituzionale del pubblico ministero e la curiosa proposta del processo breve, in Quest. Giust., 2010, p. 34.

[24] P. Ferrua, Il modello costituzionale del pubblico ministero, cit., p. 22.

[25] G. Benedetto, Non diamoci del tu. La separazione delle carriere, cit., p. 33.

[26] Cfr., al riguardo, R. Romboli, Una riforma “epocale” della giustizia o un riassetto del rapporto tra poteri? Osservazioni al ddl costituzionale n. 4275 presentato alla camera dei deputati il 7 aprile 2011, in Rivista dell’AIC, 2011, p. 13.

[27] Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88.

[28] Ancora, Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88.

[29] Così, P. Ferrua, Il modello costituzionale del pubblico ministero, cit., p. 33.

[30] In tal senso, G. Silvestri, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, in Gruppo di Pisa, cit., p. 364.

[31] Testualmente, V. Grevi, Pubblico ministero e giudice: funzioni e carriere in discussione, in Pubblico ministero e riforma dell’ordinamento giudiziario, Atti del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Udine 2004), Milano, 2006, p. 37.

[32] R. Romboli, L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive, in https://www.giustiziainsieme.it/it/ordinamento-giudiziario/3250-lindipendenza-della-magistratura-storia-attualita-prospettive-roberto-romboli.

[33] Auspica la contaminazione dei saperi tra operatori della giustizia penale M. Pelissero, La crisi delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. Una riflessione sulla formazione post lauream nel tempo della separazione, in Dir. pen. proc., 2024, p. 843.

[34] I.J. Patrone, Il prosecutor negli Stati Uniti. Un esempio da seguire?, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-prosecutor-negli-stati-uniti-un-esempio-da-seguire.

[35] F. Dal Canto, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, cit., p. 374.

[36] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, pp. 139, 141.