GIP Perugia, ord. 29 ottobre 2020 (dep. 13 novembre 2020), giud. d'Andria
1. La questione giuridica affrontata nel provvedimento in epigrafe concerne la tematica relativa alla qualificazione di uno scritto che, pur avendo i contenuti sostanziali di una denuncia, venga trasmesso irritualmente dal privato tramite PEC all’indirizzo email della Procura della Repubblica. Nel caso di specie, con tale email si portava a conoscenza del pubblico ministero la generica e confusa commissione di una pluralità di illeciti commessi nel settore nella sanità pubblica[1]. Ebbene, il pubblico ministero procedente avanzava richiesta di archiviazione al g.i.p., sostenendo che il materiale così pervenuto non fosse inquadrabile nell’alveo delle notizie di reato, a causa dell’impossibilità di identificarne con certezza l’autore. L’interpretazione è stata avallata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia che, in sede di motivazione del decreto, ha statuito che l’invio di un’email (PEC)[2] con la quale si informi l’autorità giudiziaria di un fatto di reato perseguibile d’ufficio, è inidoneo ad integrare i requisiti tipizzati dall’art. 333, comma 2, c.p.p. e, pertanto, non costituendo una denuncia in senso proprio, non è valutabile ai fini dell’eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato.
2. La questione risulta particolarmente rilevante in termini generali e, a maggior ragione, nella contingenza pandemica che stiamo vivendo: si tratta infatti di stabilire se l’email (ordinaria o PEC) contenente l’enunciazione di un possibile fatto di reato, a prescindere dalla sua fondatezza nel merito, possa essere qualificata come una vera e propria una denuncia.
Com’è noto, quest’ultima, ai sensi dell’art. 333 c.p.p., presuppone la contestuale sussistenza di un requisito contenutistico e di un requisito di forma.
Sul primo versante, la legge si limita a prevedere la necessità di una semplice «dichiarazione enunciativa o dichiarazione di scienza»[3], con la quale il denunciante porta a conoscenza del pubblico ministero o della polizia giudiziaria un fatto di reato perseguibile d’ufficio.
Sul secondo versante, invece, il legislatore ha individuato specifiche modalità di presentazione. Infatti, a differenza delle notizie di reato cd. non qualificate, la denuncia si caratterizza per la previsione di specifiche formalità attraverso cui essa dev’essere trasmessa agli organi inquirenti. In base all’art. 333, comma 2, c.p.p., essa può essere presentata al pubblico ministero o all’ufficiale di polizia giudiziaria, personalmente o a mezzo di procuratore speciale e può assumere forma scritta od orale. In questo senso, non è prescritto l’utilizzo di formule sacramentali ma, nell’ipotesi di denuncia scritta, è richiesta la sottoscrizione del denunciante. La ratio di tale previsione “modale”, com’è intuibile, è quella di garantire certezza[4] in ordine all’identificazione del soggetto denunciante, in quanto l’atto così presentato impegna chi lo ha sottoscritto anche per le eventuali conseguenze penali che ne potrebbero derivare (si pensi alle fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 367, 368, 369 c.p.).
Ebbene, è proprio l’interpretazione di questo secondo requisito formale che, nel caso di specie, sta alla base della quaestio iuris sottoposta al vaglio del giudicante. L’utilizzo dell’email (ordinaria o PEC), infatti, viene ritenuto inidoneo a garantire quella identificabilità che sta alla base della previsione dell’art. 333, comma 2, c.p.p.
Più nel dettaglio, il pubblico ministero procedente sostiene che la mancanza di un’espressa previsione in ordine alla trasmissibilità dell’esposto via email «sembra imporre una precisa conseguenza, escludere, cioè, gli atti che non siano stati depositati con le formalità previste dal capoverso della norma codicistica […] dal novero delle denunce»[5]. In questo senso, difatti, si rileva come questa modalità di presentazione, almeno fino a quando non sarà espressamente regolata dalla legge, non consentirebbe di stabilire con certezza l’identità del mittente.
Tali considerazioni vengono fatte proprie anche dal Giudice per le indagini preliminari – e, per vero, da molti Uffici della Procura della Repubblica del nostro paese[6] – che, in ragione dell’impossibilità di una contestuale verifica circa l’identità del denunciante, conclude «per la non riconducibilità di tali scritti alle denunce di cui all’art. 333 c.p.p.».
La tesi sembra condivisibile sotto molteplici profili.
Innanzitutto, è noto come la posta elettronica certificata, pur garantendo certezza in ordine all’avvenuta ricezione, non possa dirsi altrettanto in grado di attestare l’identità del mittente, con la conseguenza che l’ammissione di tale mezzo si rivelerebbe in contrasto con il fondamento dell’art. 333, comma 2, c.p.p.[7].
In secondo luogo, in tal senso depone una Circolare del Ministero della Giustizia del 2016 – in tema di attuazione del registro unico penale e criteri generali di indirizzo[8] – nella quale si esclude la configurabilità, a fronte di denunce inviate a mezzo posta elettronica, anche certificata, di un obbligo di valutazione, ai fini dell’iscrizione di notizie di reato, a carico dell’Ufficio di Procura ricevente. Infatti, a differenza di quanto accade sia per la denuncia proveniente dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio ex art. 331 c.p.p., sia per quella comunicata dalla polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 347 c.p.p. e 108-bis disp.att. c.p.p., l’email (o PEC) non risulta espressamente prevista fra le tipologie di mezzi idonei a garantire l’identificazione del soggetto denunciante.
Da ultimo, l’assunto sembrerebbe poter trovare ulteriore conforto in una sentenza delle Sezioni Unite nella quale, pur con riguardo al diverso tema dell’invio da parte del difensore della richiesta di legittimo impedimento tramite fax, si è affermato, in termini più generali, che laddove il legislatore non abbia prescritto particolari formalità per comunicazioni o depositi degli atti, questi possano avvenire con qualunque mezzo. Viceversa, allorquando siano richieste forme vincolate – come sembrerebbe avvenire nel caso in esame – si dovrebbe escludere l’utilizzo di strumenti alternativi di trasmissione[9].
3. Una volta esclusa la riconducibilità dell’email/PEC nell’ambito delle denunce, occorre comunque interrogarsi in ordine alla sua qualificazione giuridica.
Nel caso di specie, il giudice per le indagini preliminari ritiene di doversi discostare dall’interpretazione proposta dal pubblico ministero. Nella richiesta di archiviazione, infatti, viene sostenuto che tutte le denunce irritualmente trasmesse in violazione del disposto dell’art. 333, comma 2, c.p.p. debbano essere qualificate come denunce anonime[10] alla luce del secondo capoverso della medesima disposizione[11]. A sostengo di tale impostazione viene richiamata una sentenza delle Sezioni Unite[12] nella quale – in un’ipotesi di denuncia-querela presentata dal difensore senza il rispetto delle forme previste dalla legge e, specificatamente, in assenza di valido mandato – si è espressamente affermato che anche una denuncia “irrituale” debba considerarsi alla stregua di una denuncia anonima.
Viceversa, il giudicante – così si legge nel decreto – preferisce aderire all’impostazione in base alla quale l’esposto così pervenuto dovrebbe essere qualificato come documento. L’esegesi si fonda sulla necessità di distinguere l’anonimo come “informativa” di reato dall’anonimo come “documento”: mentre il primo attiene alla genesi del procedimento, il secondo incide direttamente sulla fase di valutazione della prova[13]. La differenza, in particolare, rileva quanto al fenomeno della cd. «purgazione dell’anonimia»[14] che si verifica allorquando emergano elementi che, ex post, consentano di identificare l’autore dello scritto. Più specificatamente, se l’effetto che consegue all’identificazione del delatore anonimo è quello di attribuire alla denuncia una concreta efficacia informativa – e, perciò, permettere l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro – al contrario, con riferimento al documento, la purgazione dell’anonimia attribuisce a quest’ultimo una piena efficacia probatoria.
A sostegno della natura documentale dell’atto così pervenuto, peraltro, sembra soccorre anche l’art. 108 disp.att. c.p.p., nel quale si prevede espressamente che il legislatore debba individuare specifiche modalità di conservazione «delle denunce anonime e degli altri documenti anonimi».
Ad ogni modo, si deve rilevare come il dibattito sulla qualificazione giuridica non assuma significativa rilevanza pratica. L’esposto trasmesso in assenza delle prescrizioni previste dalla legge, infatti, ben può essere utilizzato quale spunto investigativo al fine di stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. L’assunto è sostenuto da quell’impostazione giurisprudenziale[15] e dottrinale[16], che ormai può definirsi granitica, secondo la quale il combinato disposto degli artt. 333 comma 3 e 240 c.p.p. preclude l’utilizzo probatorio dell’anonimo, ma non anche la possibilità per l’autorità inquirente di prendere spunto da quest’ultimo al fine di disporre accertamenti di natura pre-procedimentale. Attività, queste ultime, che dovranno essere volte alla ricerca di elementi autonomi in grado di far emergere la sussistenza di una vera e propria notizia di reato.
4. La questione merita di essere approfondita alla luce degli spunti offerti dalle argomentazioni adottate dalla pronuncia in epigrafe.
In particolare, merita chiedersi se l’esclusione dell’email (o PEC) dal novero dei mezzi idonei a verificare con certezza l’identità dell’autore dello scritto, si giustifichi alla luce del fatto che essa non si dimostra attendibile ovvero perché non risulta attualmente tipizzata dalla legge. In altri termini, occorre stabilire se le predette modalità di presentazione ex art. 333, comma 2, c.p.p. costituiscano o meno un numerus clausus. La risposta a tale quesito non è di poco momento poiché se, come detto, il fondamento della previsione è quello di garantire un controllo sulla provenienza della denuncia, è legittimo domandarsi quale sia la sorte processuale di tutti quegli scritti trasmessi con strumenti che, pur non tipizzati nell’art. 333, comma, 2 c.p.p., abbiano comunque la capacità di accertare l’immediata identificazione del mittente. Il riferimento, com’è intuibile, è anzitutto – ma non esclusivamente – all’invio di una “denuncia” a mezzo PEC con l’utilizzo della firma digitale (SPID) che, com’è noto, permette di stabilire con certezza la paternità dell’atto inviato[17].
A tal proposito, pare che le soluzioni astrattamente ipotizzabili siano essenzialmente due.
A favore della tesi che sostiene la tassatività degli strumenti di ricezione della notizia di reato in esame muoverebbe, anzitutto, una considerazione di carattere letterale. L’art. 333, comma 2, c.p.p., a differenza dell’art. 331 c.p.p. relativo alla denuncia da parte di pubblici ufficiali, fa esclusivo riferimento al termine “presentare” e non menziona, viceversa, anche la possibilità di “trasmettere” l’atto in questione.
Si tratta, tuttavia, di un’interpretazione eccessivamente formalistica che mal si concilia con l’esigenza – che sta alla base della disciplina codicistica in tema di denuncia – di favorire l’accertamento dei reati quale «forma di partecipazione all’amministrazione della giustizia» costituendo, perciò, «l’adempimento di un dovere inderogabile di solidarietà sociale»[18].
Ad ogni modo, l’impostazione in esame parrebbe autorevolmente sostenuta anche nella richiesta di archiviazione in epigrafe, dal momento che il pubblico ministero procedente esclude dalle modalità di presentazione anche la spedizione a mezzo raccomandata, in quanto strumento non esplicitamente previsto dal capoverso della norma codicistica[19]. Secondo tale ricostruzione, perciò, le forme di presentazione delle notizie di reato dovrebbero intendersi come tipiche e tassative, di talché qualunque modalità alternativa dovrebbe ritenersi illegittima[20].
A conforto di tale opinione, peraltro, si potrebbe spendere anche l’argomento a contrario. Infatti, è lo stesso legislatore che, allorquando ha ritenuto opportuno dettare una regolamentazione differente rispetto a quella prevista dall’art. 333, comma 2, c.p.p., ha previsto specifiche modalità alternative di trasmissione. In questo senso, il riferimento è all’art. 17, comma 2, l. 26 marzo 2001, n. 128 in base al quale i soggetti portatori di handicap, le persone anziane o altrimenti impedite possono sporgere denuncia ad un ufficiale delle forze dell’ordine recatosi presso il domicilio del soggetto. Una disciplina non dissimile, peraltro, è prevista per le denunce provenienti da detenuti o internati ai sensi dell’art. 123, comma 3, c.p.p. L’esegesi, a ben vedere, sembrerebbe in linea con quanto stabilito in altri ambiti del processo penale. Si pensi alla materia delle impugnazioni, governata dal principio di tassatività, e, in particolare, all’istituto della spedizione dell’atto di gravame espressamente previsto dall’art. 583 c.p.p.; o, ancora, alle notifiche a mezzo posta di cui all’art. 170 del codice di rito penale.
Tuttavia, la considerazione, per la centralità che assume, merita qualche riflessione aggiuntiva.
Già nelle more del vecchio codice di rito, una parte della dottrina ha sostenuto la piena legittimità di una denuncia depositata tramite il servizio postale, poiché quest’ultima, per «la sua presentazione non impone al denunciante di recarsi personalmente presso l'ufficio cui è diretta»[21] richiedendo, quale unico requisito, l’identificabilità del dichiarante.
La tesi, a ben vedere, può essere sostenuta sulla base di due argomentazioni differenti.
Innanzitutto, il secondo comma dell’art. 333 c.p.p. nel prevedere, senza ulteriori specificazioni, che la denuncia possa essere presentata «per iscritto», sembrerebbe ammette anche la forma postale in quanto lo strumento appare idoneo a stabilire con certezza la paternità dello scritto.
Alla medesima conclusione, per vero, si potrebbe giungere facendo leva su un’interpretazione analogica dell’art. 337, comma 1, seconda parte, c.p.p. nel quale si stabilisce che la querela, con sottoscrizione autenticata, possa essere anche «spedita per posta in piego raccomandato». Non sembrano esservi ragioni, difatti, per rendere inapplicabile tale regime di favore anche all’atto di denuncia.
Sennonché, altra dottrina ha osservato come la denuncia sia contraddistinta, di per sé, da una «paternità semper certa» cosicché «a potersi caratterizzare come anonima è esclusivamente la denuncia dalle irrituali modalità, quale quella spedita per posta»[22].
Ad ogni modo, giova sottolineare come la tesi favorevole all’ammissione di “altri mezzi” diversi da quelli tipizzati sembri essere confermata anche da talune prassi invalse in svariati Uffici della Procura della Repubblica che ammettono la possibilità di recapitare la denuncia tramite l’utilizzo di posta raccomandata, con l’unica precisazione che, in tali casi, la sottoscrizione deve essere necessariamente autenticata da parte di un pubblico ufficiale[23].
Orbene, laddove si intenda accogliere quest’ultima esegesi che, sostanzialmente, identifica il catalogo dei mezzi indicati dall’art. 333 comma 2 c.p.p. come un “elenco aperto”, appare irragionevole negare l’utilizzo della PEC con firma digitale per la trasmissione della denuncia; strumento, quest’ultimo, che garantisce una maggiore attendibilità rispetto a quanto risulti esigibile dal mezzo postale.
Sennonché, anche volendo aderire a quest’ultima impostazione, rimarrebbe ancora insoluta la questione relativa all’utilizzo della firma digitale che, come poc’anzi ricordato, costituisce l’unico strumento per rendere certa l’identificazione del soggetto denunciante.
Sul punto, una recente pronuncia della Suprema Corte – oggetto, sin da subito, di vivaci critiche da parte dei primi commentatori[24] – sembra risolvere il problema alla radice: la firma digitale non può essere utilizzata nel processo penale fino a quando non sarà adottato il decreto dirigenziale previsto dall’art. 35 del D.M. 44/2011, recante la disciplina in materia di «Regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione»[25].
La tesi così sostenuta è stata censurata da una certa dottrina che ha evidenziato come la firma digitale possa essere legittimamente utilizzata nel processo penale, anche alla luce della diretta applicabilità degli artt. 20, 21 e 24 del Codice dell’amministrazione digitale[26].
Ad ogni modo, anche volendo seguire quest’ultima impostazione, l’assunto giurisprudenziale sembrerebbe in linea con il già citato art. 35 del D.M. 44/2011, perlomeno con riferimento al cd. utente comune. A prescindere dall’adozione del decreto dirigenziale, infatti, la disposizione da ultimo richiamata sembrerebbe riferirsi esclusivamente all’attivazione «della trasmissione dei documenti informativi da parte dei soggetti abilitati esterni», escludendo così una possibile applicazione anche con riguardo al soggetto privato.
Ciò nonostante, non sono mancate opinioni volte a valorizzare il legittimo utilizzo della PEC con firma digitale da parte del comune cittadino ai fini della presentazione della denuncia. Fra queste, in particolare, ve n’è una che tende a dare risalto ad un dato di carattere sistematico che, a ben vedere, appare tutt’altro che irrilevante. A questo proposito, giova ricordare come le Sezioni Unite civili abbiano stabilito che la firma digitale conferisce al documento informatico le caratteristiche di «a) autenticità (perché garantisce l'identità digitale del sottoscrittore del documento); b) integrità (perché assicura che il documento non sia stato modificato dopo la sottoscrizione); c) non ripudio (perché attribuisce validità legale al documento)»[27]. Orbene, l’approdo cui è giunta la Suprema Corte potrebbe essere speso anche nel caso oggetto di trattazione. Infatti, muovendo dal presupposto – di cui si è già detto – secondo il quale i casi tipizzati dall’art. 333, comma 2, c.p.p. non costituirebbero un “elenco chiuso”, non si vede perché la denuncia trasmessa via PEC con firma digitale debba ritenersi “irrituale”, dal momento che essa conferisce proprio quella certezza nell’identificazione del mittente che fonda la ratio dell’art. 333, comma 2, c.p.p. D’altronde, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere nel processo civile ed in quello penale dei «”modelli” di autenticità» della firma digitale irragionevolmente differenziati[28].
5. Da ultimo, non può non rilevarsi come la tematica relativa alle modalità di trasmissione della denuncia appaia ancora più attuale in un periodo, come quello odierno, nel quale la pandemia da Covid-19 ha imposto al legislatore, ed ai singoli tribunali, di adottare misure idonee a garantire un accesso limitato, o quantomeno contingentato, negli uffici giudiziari.
A tal proposito, allora, un quesito sorge spontaneo.
Anche volendo escludere che la PEC con firma digitale costituisca una modalità “rituale” di trasmissione della denuncia ai sensi dell’art. 333 comma 2 c.p.p., occorre stabilire se l’art. 24 comma 4, d.l. 137/2020 (cd. decreto ristori)[29], possa incidere sulla tematica de qua, introducendo così un’ipotesi derogatoria anche con riferimento a questo specifico settore del procedimento penale.
La disposizione testé menzionata prevede la possibilità di trasmettere mediante PEC «tutti gli atti, documenti e istanze comunque denominati» diversi da quelli indicati dal primo comma dello stesso articolo (e, cioè, le memorie, i documenti, le richieste e le istanze indicate dall’articolo 415-bis c.p.p.) per i quali il legislatore ha stabilito il deposito dal portale del processo penale telematico. Su questo versante, in sede di conversione del decreto legge, al di là dell’introduzione di una disciplina ad hoc con riferimento alle impugnazioni, si è ulteriormente specificato che il deposito degli atti di cui al quarto comma debba avvenire mediante l’invio di un file munito di «sottoscrizione digitale».
Ebbene, alla luce del novellato dettato normativo vale la pena di chiedersi quale sia l’efficacia soggettiva della disposizione testé richiamata.
Ora, mentre il primo comma si riferisce ad una modalità di deposito consentita esclusivamente ai soggetti indicati nel Registro degli Indirizzi Elettronici (ReGInDE) ed iscritti all’albo dell’avvocatura[30], il comma successivo, viceversa, non individua specificamente il destinatario della facoltà ivi prevista.
Sennonché, la risposta all’interrogativo, a ben vedere, viene fornita indirettamente dallo stesso legislatore.
In primo luogo, il quinto comma, con riferimento alle modalità di attestazione del deposito di cui al precedente, richiama esclusivamente gli «atti dei difensori» inviati tramite posta elettronica certificata, cosicché sembrerebbero esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 24 tutti gli atti e documenti comunque provenienti da soggetti privati.
In secondo luogo, è lo stesso quarto comma che specifica come il deposito sia consentito solo «mediante posta elettronica certificata inserita nel Registro generale degli indirizzi di posta elettronica certificata di cui all’art. 7 del decreto del Ministero della giustizia 21 febbraio 2001, n. 44». All’interno di tale elenco non sono conservati gli indirizzi PEC di privati in quanto tali, bensì, esclusivamente, di «soggetti abilitati», con la conseguenza che dovrebbe ritenersi preclusa la possibilità per il privato di utilizzare la PEC per l’invio di denunce[31].
Infine, vi è un’ultima considerazione, di carattere squisitamente formale, della quale si deve dar conto. La denuncia, facendo leva su un’interpretazione letterale e considerando la sua collocazione nella fase cd. pre-procedimentale, non potrebbe essere comunque ricompresa nella nozione di «atti, documenti e istanze comunque denominati» di cui al quarto comma dell’art. 24.
Ma, al di là di tutto, appare chiaro, alla luce delle predette considerazioni, come il tema in oggetto meriti una maggiore attenzione da parte del legislatore. Il progresso tecnologico che ormai permea anche il settore processuale penale dovrebbe indurre a riflettere sull’opportunità di usufruire dei mezzi che l’era digitale mette a disposizione dei singoli cittadini. Allo stato, perciò, non sembrano esservi validi motivi - perlomeno in una prospettiva de iure condendo - per limitare l’utilizzo della PEC con firma digitale con riferimento alla “presentazione telematica” dell’atto di denuncia. L’occasione tristemente offerta dall’emergenza sanitaria, per vero, avrebbe potuto fornire l’input per individuare modalità alternative di trasmissione della notizia di reato[32], soprattutto in un periodo nel quale sembrano esserci segnali incoraggianti verso la tanto auspicata - ed invocata - “digitalizzazione” del processo penale[33].
[1] Cfr. Richiesta di archiviazione, p. 1-2.
[2] Sull’evoluzione dell’utilizzo della PEC nel processo penale, si veda V. Bove, Notifiche telematiche (PPT), in www.Ilprocessotelematico.it, 14 maggio 2020; ID., Notificazioni telematiche nel procedimento penale: questioni giuridiche e problematiche applicative, in Dir.pen.cont., 9 novembre 2015; M. C. Amoroso, L’utilizzo della posta elettronica certificata nel processo penale, Relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione n. 42/2018, reperibile al sito https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/studiPubblicazioni.do; W. Nocerino, I limiti normativi all’uso della pec nel processo penale, in Dir.pen.proc., 2020, p. 812 ss; A. Diddi, Quale futuro per l'elettronica nel processo penale? Osservazioni a margine dell'impiego della PEC per le notificazioni, in Proc.pen.giust., 2/2017.
[3] Così, L. Bresciani, Denuncia e rapporto, in Dig.disc.pen., vol. III, Torino, 1989, p. 397. Più in generale, sul tema della denuncia quale notizia di reato, si veda V. Gianturco, Denuncia penale (denuncia, rapporto e referto), in Enc.dir., vol. XII, 1964, 189 ss; G. Fumu, Sub art. 333 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. IV, Torino, 1990, p. 54 ss; G. Amato - M. D’Andria, Organizzazione della polizia giudiziaria nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, p. 77 ss; R. Aprati, La notizia di reato nella dinamica del procedimento penale, Napoli, 2010, p. 23 ss; ID, Notizia di reato, in G. Garuti (a cura di), in Trattato di procedura penale, vol. III, Torino, 2009, p. 17 ss; P. P. Paulesu, Sub art. 333 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2017, p. 307 ss.
[4] Invero, secondo M. Mercore, L’inutilizzabilità penalprocedimentale degli anonimi, in Cass.pen., 1995, p. 753, il principio in dubio pro reo precluderebbe l’avvio del procedimento penale a carico di un soggetto anche in caso di dubbio o incertezza sull’identificazione del mittente dell’atto/denuncia.
[5] Cfr., Richiesta di archiviazione, p. 3.
[6] A mero titolo esemplificativo, si veda il sito internet della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento: «Si rammenta che, allo stato attuale, le istanze, gli esposti e le comunicazioni in genere dirette a questa Procura, non possono essere ritenute ricevibili se trasmesse via e-mail, non garantendo tale strumento di comunicazione la piena, immediata e certa identificazione della fonte di provenienza» (https://www.procura.trento.giustizia.it/comefare.aspx?id_ufficio_giudiziario=929&cfp_id_scheda=3107). Nello stesso senso, il sito internet del Tribunale di Torino: «Ma poiché non hanno valore né possono essere utilizzati gli scritti anonimi, e tali sono quelli provenienti da persona la cui identità non sia certa, la denuncia o querela o istanza non possono essere inviate per via telematica» (https://www.tribunale.torino.giustizia.it/it/Content/Index/43788); sito internet della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Chieti: «Si rende noto che le denunce e/o querele inviate a questa Procura della Repubblica da parte di privati cittadini attraverso messaggi di posta elettronica, ordinaria o certificata, non sono validamente presentate e non produrranno alcun effetto giuridico, non rispondendo ai requisiti fissati dagli artt. 333, 336 e 337 c.p.p.» (http://www.procura.chieti.it/it/Content/Index/55583); sito internet della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania: «Non si possono ricevere denunce e querele inviate a mezzo posta elettronica ordinaria o certificata. 'Si rende noto che le denunce e/o querele inviate da parte di privati cittadini attraverso messaggi di posta elettronica, ordinaria o certificata a questa Procura della Repubblica, non sono validamente presentate e non produrranno alcun effetto giuridico, non rispondendo ai requisiti fissati dagli artt. 333, 336 e 337 c.p.p.» (http://www.procuracatania.it/).
[7] In senso contrario alla tesi in esame sembra porsi la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, nel cui sito ufficiale è dato leggere quanto segue: «Allo stato attuale, le denunce, querele e esposti diretti alla Procura non possono essere ritenute ricevibili se trasmesse via e-mail (salvo non sia posta certificata), non garantendo tale strumento di comunicazione la piena, immediata e certa identificazione della fonte di provenienza» (http://www.procuradicastrovillari.it/it/Content/Index/29619).
[8] Cfr. Circolare del Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli Affari di Giustizia – Direzione Generale della Giustizia Penale dell’11 novembre 2016, reperibile al sito https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page;jsessionid=nKV40TY+KKdrEh2dVCvzXNVt?facetNode_1=0_10&facetNode_2=0_10_67&contentId=SDC1287690&previsiousPage=mg_1_8.
[9] Cfr. Cass., Sez. Un., 27 marzo 2014, n. 40187, in Dejure.it, con nota di I. Guerini, Il diritto del difensore di astensione dalle udienze: la parola delle sezioni unite, in Dir.pen.cont., 30 ottobre 2014. Nello stesso senso, già, Cass., Sez. III, 20 gennaio 2010, n. 10637, in Dejure.it.
[10] Secondo un’efficace definizione di A. Marandola, I registri del pubblico ministero. Tra notizia di reato ed effetti procedimentali, Padova, 2001, p. 71, deve considerarsi anonima «quella denuncia a cui manchi la sottoscrizione o questa risulti imperfetta, oltre a quella carente di una qualsiasi indicazione che consenta di rilevarne l’identità dell’autore». Sul tema, senza pretese di esaustività, si vedano M. Krogh, In tema di delazioni anonime, in Riv.it.dir.proc.pen., 1974, p. 774 ss; G. P. Voena, Via libera alle denunce anonime?, in Giur.Cost., 1975, p. 2131 ss; ID., Aspetti penali e processuali delle delazioni anonime, Milano, 1978; N. D’Argento, Brevi note sulla delazione anonima, in Giust.pen., 1975, p. 333 ss; G. Illuminati, Una deludente pronuncia in tema di delazioni anonime, in Riv.it.dir.proc.pen., 1976, p. 1044 ss; P. Corso, Notizie anonime e processo penale, Padova, 1977; G. Dean, Delazioni anonime e condizionamento dell’azione penale, in Giur.it., 1989, p. 257 ss; G. Di Chiara, Cestinazione, declaratoria di improcedibilità dell’azione penale e notizie anonime, in Cass.pen., 1989, p. 87 ss; P. P. Paulesu, Sulle sorti delle denunce anonimie, in Giur.it., 1989, p. 263 ss; ID., Anonimi, documenti e denunce, in Dig.disc.pen., vol. IV, Torino, 1990, p. 476 ss; R. Cantone, Denunce anonime e poteri investigativi del pubblico ministero, in Cass.pen., 1996, p. 2982 ss; C. Fanuele, L'utilizzazione delle denunce anonime per l'acquisizione della notizia di reato: condizioni e limiti delle attività pre-procedimentali alla luce delle regole sul «giusto» processo, in Cass.pen., 2002, p. 1546 ss; G. Colaiacovo, L’anonimo nella ricerca della notizia di reato, in Cass.pen., 2009, p. 4323 ss; D. De Rosa, Le fonti di conoscenza ed il processo penale, in Arch.pen.online, 2017, p. 10 ss.
[11] Conformemente, in dottrina, A. Marandola, La notizia di reato, l’iscrizione e l’avvio del procedimento, in ID. (a cura di), Procedura penale. Teoria e pratica del processo, Milano, 2015, p. 474.
[12] Cfr. Cass., Sez. Un., 29.5.2008, n. 25932, in Dejure.it.
[13] In questo senso, M. Mercore, op. cit., p. 749 secondo cui «in diritto penalprocessuale, l’anonimo costituisce una species del genus documento, in quanto è anch’esso un mezzo rappresentativo di una realtà fenomenica, mediante il quale si riferisce una notizia di reati (denuncia) o si indicano elementi indizianti di reità (mezzo di prova)». Conformemente, P. P. Paulesu, Sub art. 333 c.p.p, cit., p. 308; G. Colaiacovo, op. cit., p. 4328.
[14] Così, M. Mercore, op. cit., p. 756.
[15] Cfr., fra le moltissime, Cass., Sez. IV, 28 aprile 2016, n. 39028, in Dejure.it; Cass., Sez. VI, 22 aprile 2016, n. 34450 con nota di G. Morgese, I limiti di utilizzabilità della denuncia “anonima” ai fini investigativi, in Giurisprudenza penale web, 9/2016.
[16] Cfr., ex multis, P. P. Paulesu, Sub art. 333 c.p.p., cit. p. 308; R. Cantone, op. cit., p. 2983; A. Gustapane, Gli scritti anonimi tra giusto processo e obblighi dell’azione penale, in Ind.pen., 2010, p. 100; M. Mercore, op. cit., p. 754-755.
[17] Ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. s), del Codice dell’Amministrazione digitale (d.lgs. 82/2005) la firma digitale è definita come «un particolare tipo di firma qualificata basata su un su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare di firma elettronica tramite la chiave privata e a un soggetto terzo tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici».
[18] P. Corso, Le indagini preliminari, in AA.VV., Manuale di procedura penale, Bologna, 1997, 344.
[19] Cfr. Richiesta di archiviazione, p. 3.
[20] In questo senso, si veda anche la Circolare del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento del 31 novembre 2016 reperibile al sito http://www.procuratrento.it/modulistica/Mod_929_6477/Circolare%20del%20Procuratore.pdf.
[21] L. Bresciani, op. cit., p. 393.
[22] Così, A. Zappulla, voce Notizia di reato, in Enc. dir., vol. V, Milano, 2012, p. 899.
[23] A titolo esemplificativo, si veda ancora il sito ufficiale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento nel quale si afferma che «è possibile recapitare [la denuncia] tramite una persona incaricata o spedita per posta con raccomandata. In tali casi deve essere autenticata la firma» (https://www.procura.trento.giustizia.it/comefare.aspx?id_ufficio_giudiziario=929&cfp_id_scheda=250).
Al contrario, il Tribunale di Torino, nel già citato sito ufficiale, allorquando si riferisce all’invio delle denunce tramite ufficio postale, sembra ritenere sufficiente la mera allegazione del documento d’identità: «se inviate per posta, abbiano la firma autenticata da un pubblico ufficiale oppure sia allegata fotocopia di un documento di identificazione del sottoscrittore».
[24] Cfr. Cass., Sez. I, 3 novembre 2020, n. 32566, in Dejure.it, con nota critica di L. Agostino, Art. 24 del decreto “ristori”: l’interpretazione restrittiva della Cassazione in tema di deposito telematico degli atti durante il periodo emergenziale, in questa rivista, 2 dicembre 2020; G. Briola - M. Arienti - M. Picotti, La cassazione delle PEC. Necessari rimedi in sede di conversione del decreto ristori?, in Giurisprudenza Penale Web, 11/2020; L. Granozio, Sulla inammissibilità delle impugnazioni via pec, in www.penaledp.it, 20 novembre 2020; G. Vitrani - R. Arcella, Inammissibilità (presunta?) degli atti di impugnazione depositati a mezzo PEC nel processo penale, in www.IlProcessotelematico.it, 27 novembre 2020.
[25] Cfr. Decreto Ministeriale 21 febbraio 2011, n. 44.
[26] Cfr. G. Vitrani - R. Arcella, op. cit. secondo i quali, peraltro, «contrariamente a quanto si legge nella sentenza in commento, [la firma digitale] trova eccome cittadinanza nel d.m. n. 44 del 2011, prevista com’è dall’art. 12, lett. d) del Provvedimento DGSIA del 16 aprile 2014».
[27] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 27 aprile 2018, n. 10266, in Dejure.it, con nota di A. Merone, Impiego di firme elettroniche secondo formati equivalenti e validità dell’atto processuale telematico, in www.Ilprocessotelematico.it, 18 luglio 2018; M. Reale, SS.UU.: firma PADES ammissibile anche nel processo civile di cassazione, in www.Ilquotidianogiuridico.it, 22 maggio 2018.
[28] La tesi è sostenuta da C. Parodi, Vivere il presente, progettare il futuro: nuove prospettive per denunce e querele, in Dinternet, 14 aprile 2020. L’ Autore, inoltre, osserva come la “denuncia telematica” potrebbe risultare particolarmente efficace per quelle tipologie di reato - quali, ad esempio, i cd. reati informatici - che si prestano ad una forma di standardizzazione della raccolta dei dati attraverso l’utilizzo di moduli ad hoc. Alla luce di tale considerazione, si potrebbe valorizzare ed ampliare l’utilizzo di quello strumento, già previsto dalla Polizia di Stato sul proprio portale online, che realizza una specifica modalità di pre-trasmissione della denuncia per talune categorie di illeciti penali. Attualmente, infatti, il meccanismo, cd. denuncia vi@ web, si limita a semplificare la normale procedura di presentazione della notizia di reato che, in ogni caso, deve comunque essere trasmessa secondo le forme previste dal codice di rito (cfr. https://www.poliziadistato.it/articolo/denuncia-vi--web-in-tutta-italia).
[29] In data 18 dicembre 2020 la Camera dei Deputati ha approvato la legge di conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, reperibile al sito https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=11650 e non ancora pubblicata in GU.
Per un primo commento alla normativa, seppur antecedente alla conversione del decreto e con specifico riferimento all’art. 24, si veda M. Gialuz - J. Della Torre, D.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e processo penale: sulla “giustizia virtuale” servono maggiore cura e consapevolezza, in questa rivista, 9 novembre 2020, par. 9; A. Marandola, Il “pacchetto giustizia” del D.L. Ristori: nuove misure per limitare gli effetti pandemici nelle aule di giustizia, in www.IlPenalista.it, 30 ottobre 2020; L. Giordano, L’art. 24 del cd. decreto Ristori permette la proposizione di impugnazioni a mezzo PEC?, in www.IlProcessotelematico.it, 18 novembre 2020.
[30] Così si legge anche nel “Manuale Utente” messo a disposizione dalla Direzione Generale per i Sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia dell’8 maggio 2020 reperibile al sito http://www.fiif.it/wp-content/uploads/2020/07/Min._Giust._Manuale_avvocati_per_PDP.pdf.
[31] Sulla scorta delle medesime considerazioni, peraltro, si è ritenuto di escludere dall’ambito di applicazione del quarto comma dell’art. 24 anche le impugnazioni spedite via PEC dall’imputato personalmente (così, L. Giordano, op. cit.).
[32] In questo senso, invero, sembra essersi mossa la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano che, nella circolare interna dell’8 marzo 2020, n. 11 (confermata dalla successiva circolare dell’11 aprile 2020, n. 19), ha stabilito come le denunce e le querele possano essere trasmesse via PEC anche dai privati, purché risulti allegata la copia del documento di identità (cfr. http://ordineavvocaticomo.it/uploads/Corona%20virus/PROCURA%20MILANO%20ordine%20di%20servizio%2008_03_2020.pdf; http://www.camerapenalemilano.it/public/file/Procura%20della%20Repubblica%2019-2020.pdf).
[33] Per una panoramica sul processo penale telematico, si vedano, fra gli altri, B. Galgani, Il processo penale paperless: una realtà affascinante, ancora in divenire, in L. Luparia-L. Marafioti-G. Paolozzi (a cura di), Dimensione tecnologica e prova penale, Torino, 2019, p. 245 ss; M. Bozzaotre, Il processo penale telematico dal punto di vista della difesa, in www.giustiziainsieme.it, 25 marzo 2019; G. B. Gallus, Il processo penale telematico, in G. Ziccardi-P. Ferri (a cura di), Tecnologia e diritto. Fondamenti d’informatica per il giurista, vol. I, Milano, 2019, p. 313 ss; F. P. Micozzi - G. B. Gallus - G. Vaciago, Processo penale telematico, in G. Cassano-F. Pappalardo (a cura di), Prontuario del processo telematico, Milano, 2016, p. 181 ss.