G.i.p. Roma, decreto 25 aprile 2021, giud. Sabatini
Pubblichiamo in allegato un recentissimo provvedimento con cui il g.i.p. di Roma ha compiuto una delle prime applicazioni pratiche in Italia di quanto stabilito dalla Grande Sezione della Corte di giustizia UE, nella sentenza del 2 marzo 2021, H.K., C-746/18, in tema di tabulati telefonici e telematici.
Com’è noto, nel menzionato arresto, i giudici europei, rispondendo a un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte suprema estone, hanno precisato la loro già articolata giurisprudenza in materia di data retention (basti pensare solo alle celebri sentenze Corte giust., Grande Sezione, 8 aprile 2014, cause riunite C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland e Grande Sezione, 21 dicembre 2016, cause riunite C-203/15 e C-698/15, Tele2 Sverige AB). Essi hanno, infatti, stabilito che il diritto UE (e in particolare l’art. 15 della direttiva 2002/58/UE, letto alla luce degli artt. 7, 8, 11 e 52 della Carta di Nizza) osta a una disciplina nazionale che: 1) non circoscriva l’accesso di autorità pubbliche a dati idonei a fornire informazioni su comunicazioni effettuate da un utente «a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica»; 2) affidi nel corso di un rito penale al pubblico ministero e non a un soggetto terzo (come un giudice) la competenza ad autorizzare l’accesso a tali dati.
Ebbene, il provvedimento qui pubblicato si occupa di valutare l’impatto (dirompente) che i principi di diritto, proclamati in generale dalla sentenza H.K. della Corte di giustizia, sono in grado di produrre in un sistema processuale quale quello italiano, che presenta notoriamente significative criticità con riguardo all’impiego, per ragioni di law enforcement, di dati relativi al traffico telefonico/informatico e di informazioni relative all’ubicazione di un soggetto che effettui una comunicazione. Non è un mistero che l’art. 132 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cd. codice della privacy) attribuisce proprio alla pubblica accusa il potere di disporre, con decreto motivato, l’acquisizione di tabulati telefonici nell’ambito di un procedimento penale, senza oltretutto compiere alcuna distinzione di sorta a questo riguardo tra fattispecie di reato più o meno gravi. Per di più, va ulteriormente ricordato che, nonostante le condivisibili critiche sollevate dalla dottrina (cfr., ad esempio, Lupária, Data retention e processo penale. Un’occasione mancata per prendere i diritti davvero sul serio, in Dir. di internet, 2019, 757), la Cassazione aveva finora escluso che il codice della privacy ponesse profili di frizione con il diritto eurounitario (cfr., ad esempio, Cass., sez. III, 23 agosto 2019, n. 36380, in questa Rivista, con nota di Neroni Rezende); e ciò, tra l’altro, sulla base della convinzione per cui la figura del pubblico ministero, per come disciplinata nell’ordinamento italiano, rappresentasse un organo sufficientemente indipendente da soddisfare la normativa europea.
Nondimeno, a fronte dell’espresso rilievo attribuito dalla sentenza H.K. (si veda in particolare il § 54) al fatto che l’autorità chiamata ad autorizzare l’acquisizione dei tabulati debba essere terza e neutrale (ovverosia caratteristiche intrinsecamente estranee alla parte pubblica), il g.i.p. di Roma, dopo aver rilevato la piena operatività anche nei confronti dell’Italia dei principi di diritto stabiliti dalla Corte di giustizia nell’ambito del rinvio pregiudiziale estone, ha oggi sconfessato la giurisprudenza tradizionale della Cassazione, rilevando la sussistenza di un «sopravvenuto contrasto tra l’art. 132 comma 3 del d.lgs. 196/2003 e la normativa dell’Unione Europa, così interpretata dal Giudice europeo».
Nel caso che ci occupa, il decisore nostrano non si è tuttavia fermato qui, ma ha sostenuto che la conseguenza di tale conflitto tra fonti dovrebbe essere quella della non applicazione della previsione interna; sostituita dall’operatività diretta della disciplina sovranazionale, senza la necessità di attendere un intervento in proposito da parte del legislatore nazionale. In altre parole, a detta del g.i.p., la parte dell’art. 132, comma 3, del codice della privacy, che autorizza il pubblico ministero a disporre con decreto l’acquisizione dei tabulati, non dovrebbe essere da subito più operativa, essendo necessario, per contro, richiedere a tal fine da subito l’autorizzazione a un giudice.
Nel giungere a siffatta conclusione, la pronuncia ha precisato che la necessità di disporre la diretta applicazione della norma UE, in vece di quella italiana, non sarebbe ostacolata dal fatto che la Corte di giustizia non abbia (inevitabilmente) indicato nella propria giurisprudenza un catalogo di reati specifico per cui l’autorità potrebbe legittimamente acquisire i dati in questione. La dimostrazione di ciò viene data sulla base del rilievo per cui «la categoria delle “forme gravi di criminalità e la prevenzione di gravi minacce per la sicurezza pubblicata” indicata dalla Corte di giustizia quale indispensabile condizione per rendere proporzionata […] l’acquisizione dei dati, [sarebbe] facilmente individuabile con il rinvio integrale ai reati previsti nel catalogo dettato dagli articoli 266 c.p.p. e 266 bis c.p.p.». In buona sostanza, secondo il decisore, dopo la sentenza H.K., non sarebbe sufficiente che sia un organo terzo ad autorizzare l’apprensione dei dati, ma gli stessi potrebbero essere raccolti soltanto laddove si procedesse per fattispecie criminose passibili di un’intercettazione in senso proprio.
Non è difficile immaginare che proprio questa sia la parte della pronuncia in esame che farà maggiormente discutere, data la sua portata indubbiamente creativa. Ciò nonostante, siffatta significativa svolta esegetica presenta il pregio di essere non solo garantista, ma anche pragmatica: suggerendo di applicare in modo sostanzialmente analogico la disciplina delle intercettazioni ai tabulati, il g.i.p. di Roma ha individuato un modo per evitare che l’autorità giudiziaria italiana non possa più avvalersi di uno strumento di importanza chiave nell’accertamento dei reati (se non al prezzo di rischiare di continuare a ledere i diritti fondamentali dell’individuo), nelle more di un (quantomai auspicabile) intervento normativo del legislatore nella materia de qua.
Siamo, insomma, di certo di fronte a una soluzione tampone, ma volta a «garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alla necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alle protezione dei dati personali»; soluzione che si lascia apprezzare ancor di più alla luce del fatto che la stessa giurisprudenza della Consulta ha, in più occasioni, sottolineato «la notevole capacità intrusiva […] di un’attività investigativa che coinvolga i tabulati» (Corte cost., 188/2010), «confermando che, per ogni cittadino, il ricorso a tale strumento d’indagine deve necessariamente essere soggetto alle garanzie previste dall’art. 15 Cost.» (Corte cost., 38/2019).
A ogni modo, vista l’indubbia rilevanza della tematica, questa Rivista ospiterà contributi di approfondimento sul punto, partendo da un commento alla sentenza H.K. della Corte di giustizia di prossima pubblicazione.