CGUE, Quarta Sezione, sent. 19 maggio 2022, C-569/20, IR
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1. Dopo il varo della direttiva 2016/343/UE[1] non sono passate inosservate alcune problematiche e incertezze interpretative sollevate dalla non proprio cristallina formulazione delle disposizioni del Capo III di tale fonte, dedicato al diritto dell’accusato a presenziare al proprio processo: e ciò, specie nell’ottica degli insegnamenti consolidatisi sul punto dal lato di Strasburgo[2]. Basti considerare, in questo esordio, le disposizioni sulle condizioni giustificanti la celebrazione del processo in absentia, racchiuse nell’art. 8, par. 2 della direttiva, le quali, proprio per il loro tenore letterale, non sembrano far trapelare in maniera nitida quel requisito – graniticamente sancito dalla Corte EDU[3] – dell’inequivocabile e consapevole rinuncia del prevenuto a essere presente al proprio processo, quale presupposto legittimante il giudizio in assenza[4].
È, d’altronde, noto che, a fronte di questi pericolosi disallineamenti tra il livello di salvaguardia delle garanzie procedurali degli accusati, l’Unione appresta degli importanti “anticorpi”, che operano sul piano esegetico. Vengono in soccorso, in altre parole, le clausole di equivalenza e di non regressione[5]: da un lato, l’art. 52, par. 3, CDFUE, a tenore del quale, quando la Carta prevede diritti «corrispondenti» a quelli tutelati dalla Convenzione, «il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione», e, dall’altro lato, l’art. 53 CDFUE, riprodotto, per quanto qui interessa, dall’art. 13 direttiva n. 343 del 2016, secondo cui, rispettivamente, la Carta e la misura de qua non possono in alcun modo essere interpretate in maniera tale da diminuire il livello di protezione sancito dalla CEDU. Ed è, tra l’altro, al cospetto di tali fondamentali previsioni di coordinamento che si può cogliere l’importanza del peso rivestito dalla Corte di giustizia in materia. Essa, grazie al meccanismo del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, può superare, a livello interpretativo, le non poche debolezze delle “direttive di Stoccolma”[6], almeno rimuovendo sul piano esegetico i rischi di un abbassamento dello standard di tutela delle garanzie degli accusati, rispetto a quello fissato dalla grande Europa.
Ebbene, nel tracciato di questo auspicabile ruolo giocato dai Giudici di Lussemburgo paiono collocarsi gli ultimi chiarimenti adottati in una recente sentenza emessa sul tema del processo in absentia e dei relativi rimedi ai sensi degli artt. 8 e 9 direttiva 2016/343/UE[7].
Pur avendo la Corte eurounitaria già avuto l’occasione di pronunciarsi sull’art. 8 della fonte in discorso[8], tale decisione si distingue per una lettura sistematica della tematica, improntata a una salvaguardia effettiva del diritto dell’accusato a presenziare al processo, sbarrando, però, al contempo, la strada ad abusi della garanzia.
Non sarà, peraltro, inutile segnalare sin d’ora la particolare portata della pronuncia in esame anche nella dimensione prettamente nazionale, e, più nel dettaglio, alla luce della riforma in atto della giustizia penale. Si allude, come si può intuire, ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 7, l. 27 settembre 2021, n. 134. Essi, invero, nel recepire le proposte della cosiddetta Commissione Lattanzi – mosse proprio dall’esigenza di correggere le storture interne rispetto alla CEDU e alla direttiva 2016/343/UE[9] – intendono ridisegnare la cornice normativa sul processo in assenza[10].
Sulla scorta del quadro tratteggiato e degli spunti di riflessione suscitati dalla lettura della sentenza in esame, lo scopo di questo breve commento è quello di ripercorrere le coordinate essenziali di tale recente arresto, con la riserva di svolgere, per concludere, alcune considerazioni.
2. La fattispecie alla base della decisione concerneva, in particolare, un imputato, accusato in Bulgaria di partecipazione a un’organizzazione criminale rivolta alla commissione di reati tributari punibili con la detenzione. Il prevenuto, dopo aver ricevuto personalmente la comunicazione dell’atto di imputazione, non era risultato reperibile all’indirizzo da lui comunicato, in occasione dei tentativi di convocazione all’udienza; al medesimo era stato, allora, designato un avvocato d’ufficio, il quale, tuttavia, non aveva preso contatti con lo stesso. In un momento successivo, l’atto di imputazione era stato, peraltro, dichiarato nullo, con successivo avvio di un nuovo procedimento. Anche in questo caso, però, l’interessato non era stato in alcun modo rintracciato. A nulla erano valse le ricerche condotte tra i componenti della sua famiglia, i precedenti datori di lavoro e gli operatori della telefonia mobile. Il giudice deduceva, quindi, che l’accusato si era dato alla fuga. Sennonché, incerto sulla portata della direttiva 2016/343/UE, il tribunale della Bulgaria decideva di sospendere il procedimento e di attivare lo strumento di cui all’art. 267 TFUE, al fine di interpellare la Corte di giustizia in proposito.
Il punto centrale dei dubbi avanzati dal giudice del rinvio era rappresentato dall’inquadramento della fattispecie nell’art. 8, par. 2, direttiva n. 343 del 2016, che – lo si ricordi – fissa le condizioni in forza delle quali si può svolgere un procedimento in assenza, o, piuttosto, nell’art. 8, par. 4 dello stesso atto. Quest’ultima previsione consente ai Paesi membri, pur in mancanza dei presupposti ex art. 8, par. 2 dello strumento eurounitario, di svolgere un processo nei confronti di un soggetto non rintracciato dalle autorità, nonostante i ragionevoli sforzi compiuti. Tuttavia, in questa seconda circostanza, occorre rendere edotto l’accusato, una volta informato della decisione, del diritto ai rimedi restitutori, conformemente all’art. 9 della direttiva. Disposizione, quest’ultima, che, a sua volta, sancisce l’obbligo in capo agli ordinamenti di assicurare all’interessato, nei cui confronti si è svolto un procedimento in mancanza dei requisiti dettati dal par. 2 dell’art. 8 della misura, il diritto «a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria».
Alla luce di ciò, il giudice bulgaro formulava, più precisamente, tre questioni pregiudiziali.
La prima atteneva all’interpretazione dell’art. 8, par. 2, lett. b), nonché dei considerando nn. 36-39 della direttiva 2016/343/UE. Si sollecitava, in sostanza, la Corte di giustizia a chiarire l’applicabilità dell’ordito normativo alla fattispecie. In caso di risposta negativa al primo quesito, il giudice a quo interrogava i Giudici di Lussemburgo sulla conformità, rispetto all’art. 9, in combinato disposto con l’art. 8, par. 4, direttiva n. 343, di una disciplina nazionale che preclude una qualsiasi tutela giuridica nell’ipotesi di un prevenuto resosi irreperibile, dopo essere stato informato dell’accusa originaria. Infine, l’ultima questione ruotava intorno all’efficacia diretta o meno attribuibile all’art. 9 direttiva n. 343 del 2016, in combinato disposto con l’art. 47 CDFUE. Va, d’altra parte, precisato come tali quesiti coinvolgessero pure l’interpretazione della decisione quadro 2002/584/GAI in materia di mandato di arresto europeo, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI. In proposito, – argomentava il giudice a quo – non si sarebbe potuto escludere che l’imputato potesse essere arrestato in un altro Paese UE e consegnato alle autorità competenti bulgare in esecuzione di un euro-mandato.
3. Ebbene, per parte sua, la Corte di giustizia ha offerto una risposta alquanto articolata. In via preliminare, e per completezza, vi è da puntualizzare che i Giudici eurounitari hanno considerato irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale nella parte relativa alla decisione quadro 2002/584/GAI. Questo, evidentemente, alla luce della situazione del tutto ipotetica paventata dal giudice del rinvio, circa la possibilità che l’interessato sarebbe stato destinatario di un MAE.
Ciò chiarito, la sentenza si sviluppa in tre passaggi fondamentali, tutti, per ragioni diverse, di notevole portata.
Più nel dettaglio, il primo snodo della decisione è incentrato sull’effetto diretto delle disposizioni in gioco della direttiva n. 343 del 2016. Sul punto, la Corte non ha avuto dubbi. Senza dedicare molte parole al riguardo, i Giudici di Lussemburgo hanno riconosciuto con fermezza l’effetto diretto degli artt. 8, par. 4 e 9 dello strumento in questione, in quanto – hanno argomentato – tali previsioni «enunciano in modo incondizionato e sufficientemente preciso l’ambito di applicazione e la portata del diritto a un nuovo processo».
Inutile sottacere le implicazioni di non poco conto che si riverberano a cascata da una tale presa di posizione nelle dinamiche interne dei sistemi processuali penali. La conclusione cui è giunta la Corte di giustizia legittima, infatti, ogni persona, avente un diritto a un nuovo processo alla luce della direttiva in discorso, a pretendere la sua osservanza davanti ai giudici nazionali, sia laddove lo Stato abbia omesso di implementare l’atto de quo nei termini fissati per il suo recepimento, sia qualora, pur nel rispetto delle tempistiche, abbia attuato la direttiva in maniera non corretta.
A questa prima affermazione segue il secondo rilevante passaggio della sentenza, polarizzato sull’interpretazione da attribuire ai presupposti di cui all’art. 8, par. 2, direttiva 2016/343/UE. Nel constatare, infatti, come il raggio di azione dei rimedi ex art. 9 dell’atto debba essere disegnato sulla scorta della mancata osservanza dei requisiti fissati dal par. 2 dell’art. 8, la Corte di giustizia ha sentito l’esigenza di chiarirne l’effettivo contenuto. Ed è qui che i Giudici di Lussemburgo si sono avvicinati ai paradigmi convenzionali.
La chiave di volta dell’approccio tenuto dalla Corte può essere ravvisata nella valorizzazione della propria costante giurisprudenza sui canoni interpretativi del diritto eurounitario, per nulla limitati a quello meramente letterale, ma inclusivi dei criteri sistematico e teleologico[11]. Ciò ha permesso ai Giudici di riempire di sostanza l’art. 8, par. 2, direttiva 2016/343/UE.
Più nel dettaglio, la Corte di giustizia ha, in primo luogo, ricordato che, secondo il tenore letterale di tale previsione, le condizioni ivi sancite sono rispettate, laddove l’interessato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione, oppure, in alternativa, sia stato semplicemente informato del processo e sia, al contempo, rappresentato da un difensore incaricato, nominato da lui oppure designato dallo Stato.
In questa cornice normativa, la Corte ha, però, compiuto un passo in più, ispirato a una effettiva salvaguardia del diritto dell’accusato a presenziare al proprio processo.
Detto altrimenti, sulla scia dei suggerimenti avanzati dall’Avvocato generale Jean Richard de la Tour nelle sue conclusioni[12], secondo i Giudici eurounitari, il presupposto imprescindibile che sottende tali requisiti è che «l’interessato, debitamente informato, abbia rinunciato volontariamente e in modo inequivocabile ad esercitare il diritto di presenziare al processo». Il che sembra significare la necessità di accertare in concreto – al di là, quindi, del mero dato formale in ordine alla sussistenza delle condizioni stabilite dalla direttiva – la rinuncia volontaria e inequivocabile alla garanzia in questione. Insomma, così facendo, l’impressione è che i Giudici di Lussemburgo abbiano dato prova di accogliere quei rilievi, acutamente sollevati in dottrina, in base ai quali gli elementi previsti dall’art. 8, par. 2, direttiva 2016/343/UE «cannot operate as an irrefutable presumption that there has not been a violation of fair trial rights. Practice shows that even complying scrupulously with all the conditions set out in Article 8(2) DPIRPT […], the fair trial rights of the absent defendant might have been violated»[13].
Che il filo conduttore sotteso alle condizioni enunciate dall’art. 8, par. 2 dell’atto sia quello della rinuncia volontaria e inequivocabile a presenziare al proprio processo è stato giustificato dalla Corte di giustizia proprio alla luce di una lettura sistematica e teleologica della direttiva.
Sotto il primo profilo, è stato valorizzato il considerando n. 35 dello strumento, il quale, sulla falsariga della giurisprudenza di Strasburgo[14], precisa che il diritto dei prevenuti a partecipare al processo non è assoluto, giacché, «a determinate condizioni, gli indagati e imputati dovrebbero avere la possibilità di rinunciarvi, esplicitamente o tacitamente, purché in modo inequivocabile». Va da sé – ha argomentato la Corte – che, alla luce di tale previsione, pur non essendo la garanzia in esame assoluta, la possibilità di svolgere un giudizio in assenza, «senza che sia necessario organizzare, successivamente, un nuovo processo su domanda dell’interessato, rimane tuttavia limitata alle situazioni in cui quest’ultimo si sia spontaneamente astenuto, in modo inequivocabile, dal presenziare al processo avviato nei suoi confronti».
Sul secondo versante, invece, – incentrato su un’interpretazione teleologica – i Giudici hanno constatato la conformità del postulato adottato rispetto alle finalità della direttiva 2016/343/UE, protesa, invero, a irrobustire il diritto all’equo processo, allo scopo ultimo di rafforzare la fiducia reciproca tra i sistemi nazionali.
Una volta fatta propria questa chiave di lettura della disposizione de qua – ispirata al dato sostanziale e non presuntivo dei requisiti giustificanti un processo in assenza senza diritto a rimedi successivi – la Corte ha analizzato nel dettaglio siffatte condizioni. Esse – val la pena rammentarlo nuovamente – si incentrano, da una parte, sulla circostanza che l’imputato è stato informato del processo e delle conseguenze della omessa comparizione (art. 8, par. 2, lett. a), e, dall’altra parte, e alternativamente, sull’evenienza che il medesimo è stato informato del processo ed è, inoltre, rappresentato da un legale «incaricato, nominato dall’indagato o imputato oppure dallo Stato» (art. 8, par. 2, lett. b).
Così, preme osservare come il requisito fondato sull’obbligo di informare l’accusato del processo sia stato riempito alla luce del considerando n. 36 della direttiva, il quale richiede, a tale fine, che «l’interessato [sia] citato personalmente o [sia] informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo in modo tale da consentirgli di venire a conoscenza» dello stesso. Il medesimo considerando è stato, oltretutto, utilizzato pure per declinare la portata dell’obbligo informativo, sempre da destinare al prevenuto, circa le conseguenze della mancata comparizione. In sostanza, egli deve essere posto a conoscenza «del fatto che potrebbe essere pronunciata la decisione nel caso in cui non compaia in giudizio» (così, per l’appunto, il considerando n. 36). Ma non è tutto. A maggiore riprova dell’attenzione mostrata dalla Corte di giustizia nel segno della presa di distanza da semplici criteri formali e presuntivi, la sentenza ha svolto un chiarimento anche in relazione al requisito, condensato nella lett. b) dell’art. 8, direttiva n. 343 del 2016, riguardo alla necessità che l’accusato sia assistito dal difensore. In particolare, la decisione, nell’attribuire un peso dirimente al considerando n. 37 della misura eurounitaria, ha imposto, ai fini dell’operatività di siffatta condizione, l’effettivo conferimento di un mandato a un legale da parte dell’imputato. Sembra essere stato così superato, in via esegetica, un rilevante limite della formulazione letterale dell’articolo in discorso. Quest’ultimo, invero, non pareva necessariamente richiedere «l’esistenza di un mandato conferito al difensore dall’accusato»[15].
In definitiva, alla luce di tali precisazioni, la Corte ha attribuito un peso centrale alla verifica sulla sussistenza di tali presupposti a opera del giudice. Detto altrimenti, secondo quanto affermato dalla pronuncia, spetta al medesimo il compito di vagliare, considerate «le modalità di convocazione al processo previste dal diritto nazionale», se un documento ufficiale, contenente in modo inequivocabile la data e il luogo stabilito per il processo, nonché, in assenza di un legale incaricato, le conseguenze in ordine alla mancata comparizione, sia stato portato all’attenzione dell’accusato. Per di più, devono essere accertate le tempistiche di tale comunicazione, nel senso che queste devono essere tali da consentire all’interessato, qualora desideri comparire, di preparare la propria difesa.
Giunti a questo punto della disamina non resta, infine, che analizzare il terzo, e conclusivo, passaggio della sentenza, specificamente tarato sul caso concreto, da cui aveva preso le mosse il rinvio pregiudiziale.
In proposito, la Corte di giustizia ha statuito in maniera netta che la direttiva osta a una disciplina nazionale che esclude il diritto a un nuovo processo per la sola ragione che l’imputato si è dato alla fuga e che le autorità non sono riuscite a rintracciarlo.
In relazione a una tale circostanza – hanno proseguito i Giudici eurounitari – ciò che occorre accertare è la presenza di «indizi precisi e oggettivi», tali da far ritenere che il prevenuto, «pur essendo stato ufficialmente informato di essere accusato di aver commesso un reato e, sapendo quindi che un processo si sarebbe svolto nei suoi confronti, agisca deliberatamente in modo da evitare di ricevere ufficialmente le informazioni relative alla data e al luogo del processo». A detta della Corte, indizi di questa matrice possono essere rinvenuti nelle ipotesi in cui l’accusato abbia volontariamente fornito un indirizzo errato o non sia stato reperito presso quello indicato.
Ebbene, solo in questi termini, – ha rilevato la pronuncia – la fattispecie può considerarsi rientrante nell’art. 8, par. 2, direttiva 2016/343/UE, con conseguente possibilità di svolgere un procedimento in assenza, senza il diritto ai rimedi successivi di cui all’art. 9 della medesima fonte. Il tutto, però, – ha voluto ulteriormente puntualizzare la Corte – ferme, in ogni caso, le esigenze specifiche delle persone vulnerabili, in linea con i considerando nn. 42 e 43 dello strumento.
Tale interpretazione, secondo i Giudici, sarebbe, anzitutto, corroborata dal considerando n. 38, secondo cui, al fine di vagliare se il modo in cui le informazioni fornite sia sufficiente per garantire la conoscenza del processo da parte dell’interessato, occorre tenere conto non solo della diligenza delle autorità, ma anche di quella del prevenuto.
Per di più, la Corte di Lussemburgo ha suffragato la sua tesi volgendo lo sguardo verso Strasburgo. Ed è a questo punto della pronuncia che la Corte di giustizia ha esplicitato la conformità della propria lettura al diritto all’equo processo, come sancito dagli artt. 47, parr. 2 e 3, e 48 Carta di Nizza, corrispondenti, a loro volta, all’art. 6 CEDU. Su queste basi, è stata richiamata la giurisprudenza EDU sul tema del diritto dell’imputato a partecipare al proprio processo[16], onde rinvenirne conferme per una lettura allineata di siffatta garanzia sul versante eurounitario, nel solco dell’art. 52, par. 3, CDFUE.
In conclusione, a chiusura di questo assai articolato ragionamento, la Corte ha statuito che gli artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE devono essere interpretati nel senso che un prevenuto, che le autorità non sono riuscite a rintracciare, nonostante i loro ragionevoli sforzi, può essere oggetto di un processo in assenza. La regola generale, tuttavia, è che egli, al momento della notifica dell’eventuale condanna, deve avere il diritto a un nuovo processo o comunque a un rimedio giurisdizionale equivalente, in grado di consentire un nuovo esame del merito della causa. Vi è, però, al contempo, un limite all’esercizio di tale diritto. Secondo i rilievi della pronuncia, siffatto limite sussiste qualora, sulla scorta di indizi oggettivi e precisi, si evinca che l’accusato ha ricevuto informazioni sufficienti per potersi avvedere del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, nonostante ciò, «con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo».
4. In linea con quanto ci si era riservati di fare sin dall’esordio di questo breve intervento, val la pena concludere la disamina con alcuni spunti di riflessione sollecitati dalla sentenza.
La portata della decisione non sembra, invero, passare inosservata, anzitutto, se ci si sofferma sull’attribuzione dell’effetto diretto agli artt. 8, par. 4 e 9 direttiva 2016/343/UE.
Il che, se solo si pensa all’ordinamento italiano, sembra innescare riflessi veramente notevoli.
Appaiono, infatti, chiari i profili critici della disciplina nazionale sulla rescissione del giudicato ex art. 629-bis c.p.p. rispetto a tale fonte eurounitaria[17]. Tant’è che, nella piena consapevolezza di ciò, l’art. 1, comma 7, lett. g), l. n. 134 del 2021 contiene una direttiva specifica sul punto. L’esecutivo viene delegato ad «ampliare la possibilità di rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo»; e questo, per l’appunto, «armonizzando la normativa processuale nazionale con quanto previsto dall’articolo 9 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016».
Ebbene, il fatto di aver riconosciuto effetto diretto all’art. 9 dell’atto in discorso sembra rafforzare la posizione soggettiva dei condannati in absentia, proprio in attesa dell’attuazione di tale delega. Invero, grazie ai chiarimenti offerti dall’arresto in esame, allo stato e fintantoché non venga adottata una disciplina espunta dai profili distonici rispetto ai paradigmi europei, il singolo può, a ben vedere, avanzare il riconoscimento del suo diritto a un nuovo processo davanti ai giudici italiani, in linea con il dettato della direttiva in parola.
In altri termini, proiettando tali considerazioni in relazione all’impugnazione straordinaria di cui all’art. 629-bis c.p.p., si vuole dire che l’interessato, nell’invocare l’effetto diretto dell’art. 9 dell’atto, deve vedersi riconosciuta la rescissione del giudicato, senza dover soggiacere a quei requisiti collidenti con la misura UE. Il pensiero corre, in particolar modo, all’onere, imposto al condannato, di provare che «l’assenza è stata dovuta a una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo». Certo, è ben vero che la portata di quest’ultima formula è stata stemperata grazie al recente e significativo lavorio della giurisprudenza di legittimità[18]; nondimeno, non va sottaciuta la persistenza di arresti che privilegiano impostazioni rigorose[19], fedeli, d’altronde, al tenore letterale della previsione.
La seconda riflessione che si intende sviluppare ruota intorno all’opera compiuta dalla Corte di Lussemburgo, nell’ottica di attenuare quell’«ampia ‘tolleranza’ per ipotesi di processi in absentia»[20] che sembrava visibile nella direttiva 2016/343/UE. L’impressione è che sia stata adottata un’interpretazione delle disposizioni dell’atto in discorso, in grado di eliminare alcune perplessità e, in questo modo, ricondurre la misura nel tracciato dei binari della giurisprudenza di Strasburgo. I Giudici eurounitari hanno, infatti, esplicitato, in ossequio ai canoni convenzionali, che l’elemento portante dei presupposti di cui all’art. 8, par. 2, direttiva n. 343, è la rinuncia volontaria ed inequivocabile dell’accusato, debitamente informato, a partecipare al proprio processo[21]. Una situazione che, secondo quanto traspare dal ragionamento della sentenza in esame, non ammette in alcun modo presunzioni, ma poggia su una verifica concreta da parte del giudice nazionale.
L’avvicinamento ai paradigmi convenzionali non sembra, peraltro, essersi fermato al terreno appena tratteggiato, essendosi esteso al fulcro della domanda di pronuncia pregiudiziale, fondata sull’ipotesi in cui non sia stato possibile rintracciare il prevenuto per informarlo del processo, poiché datosi alla fuga.
A quest’ultimo riguardo, peraltro, un approfondimento e due caveat paiono imporsi.
Sotto il primo versante, a ben vedere, come puntualmente rilevato in dottrina, la formulazione della direttiva poneva un problema esegetico. Dall’art. 8, par. 4 e dal considerando n. 39 della misura si sarebbe potuto inferire un diritto incondizionato, senza limitazioni di sorta, a una nuova celebrazione del processo in favore del prevenuto in fuga e del latitante[22]; ciò, tuttavia, avrebbe potuto sollevare dei problemi nei casi di abuso della garanzia, creando sbilanciamenti a scapito della corretta amministrazione della giustizia[23].
Ecco che, adducendo una linea di continuità con Strasburgo, la sentenza in commento pare aver superato l’impasse, conformandosi, oltretutto, a quanto sancito, sempre a livello della grande Europa, dalla Risoluzione (75)11 del 21 maggio 1975 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa[24]. Si è così giunti alla conclusione, secondo cui, salva la possibilità di svolgere in siffatte circostanze un giudizio in absentia, in linea di principio, deve essere assicurato al condannato una restitutio in integrum, con una ripetizione del processo. L’interessato non può, tuttavia, approfittare di tale situazione; di modo che, la garanzia non sorge, laddove egli sia stato ufficialmente informato di essere accusato di un reato e sussistano indizi oggettivi e precisi da cui si ricava la sua volontà di sottrarsi alla ricezione delle informazioni sul processo fornite dalle autorità. Ciò vale, fermi, comunque, a monte, i ragionevoli sforzi incombenti su queste ultime nel tentativo di rintracciarlo.
Sul punto, invero, va osservato come la Corte EDU sia costante nel precisare che la mera qualità di latitante non può essere di per sé sufficiente a fondare una rinuncia a comparire e che, per di più, non spetta all’interessato alcun onere di provare che egli non stava cercando di sottrarsi alla giustizia o che la sua assenza era dovuta a un caso di forza maggiore[25]. Tuttavia, «non vi sono dubbi che ove l’autorità fornisca la prova che un soggetto si sia dileguato per sfuggire alle ricerche sarebbe del tutto irragionevole ammetterlo a un rimedio ripristinatorio del diritto a presenziare, a cui l’interessato ha senz’altro rinunciato per facta concludentia (la fuga)»[26].
E, in quest’ultima ottica, preme ripercorrere brevemente tre sentenze, analizzate, per la verità, nello specifico dall’Avvocato generale Jean Richard de la Tour nelle sue conclusioni[27], alla luce delle quali si può scorgere la convergenza tra le impostazioni delle due Corti.
In particolare, la prima decisione – considerata, a sua volta, dalla Corte di Lussemburgo – ha escluso una violazione della garanzia convenzionale al diritto di presenziare al proprio processo[28]. Vi è da dire che, nella fattispecie concreta, era risultato impossibile comunicare la vocatio in iudicium alla ricorrente a causa del fatto che non era stata reperita all’indirizzo dalla stessa precedentemente indicato[29]. Nonostante ciò, la Corte ha riscontrato che la medesima era stata informata del procedimento penale e delle accuse formulate nei suoi confronti; oltretutto, la ricorrente aveva riconosciuto i fatti a lei addebitati e le autorità avevano compiuto i passi ragionevolmente necessari, al fine di assicurare la ricezione della citazione a comparire in udienza[30]. I Giudici di Strasburgo hanno, dunque, ricavato da tali circostanze una rinuncia consapevole e valida, manifestata in maniera implicita, a comparire al processo[31].
A riscontrare una lesione dell’art. 6 CEDU è, invece, il secondo arresto che merita di essere considerato[32]. Il caso riguardava un soggetto che, dopo essere stato ascoltato dalle autorità di polizia, si era – secondo il Governo bulgaro – dato alla fuga, per venire infine condannato in absentia[33]. Ebbene, la Corte di Strasburgo non ha ritenuto sufficiente che il ricorrente fosse stato sentito sulle ipotesi incriminate, ma ha attribuito un peso dirimente al fatto che all’accusato non fossero state notificate le accuse formulate a suo carico[34]. Di modo che – ha concluso la Corte – «rien dans les éléments produits devant elle ne permet d’établir qu’il a été au courant de l’ouverture des poursuites, de son renvoi en jugement ou de la date de son procès»[35]. Centrale appare, nell’impostazione della pronuncia, il passaggio secondo cui, il ricorrente, essendo stato ascoltato sui fatti dalle autorità di polizia, avrebbe potuto solo supporre l’avvio di un procedimento penale, ma non avrebbe potuto avere una conoscenza precisa delle accuse addebitategli[36].
Alla medesima conclusione è, infine, pervenuta pure la terza decisione[37]. Nel riprendere il celebre leading case Sejdovic c. Italia, la Corte EDU ha condannato la Francia per la lesione del parametro convenzionale in commento[38]. A monte di ciò, si è fermamente escluso che, in assenza di qualsiasi altro elemento, la mera assenza del ricorrente dal luogo di residenza abituale o dal domicilio dei genitori potesse considerarsi sufficiente per desumere la sua conoscenza dell’azione penale e del processo. Nitido appare anche in questo caso il rilievo secondo cui da ciò non poteva, quindi, desumersi alcuna volontà dell’interessato di sottrarsi alla giustizia[39].
Insomma, considerato questo breve quadro, la soluzione della Corte di Lussemburgo pare rispondente a tali affermazioni. Occorre rimarcare come la medesima enfatizzi l’importanza che il prevenuto, non essendo stato rintracciato ai fini della notifica delle informazioni sul processo, abbia avuto almeno ufficialmente contezza dell’accusa addebitatagli. In difetto di ciò, il rimedio di cui all’art. 9 direttiva n. 343 del 2016 non potrà essere in alcun modo precluso. In tale cornice, non pare, oltretutto, potersi ommettere di ribadire il criterio valorizzato dalla Corte di giustizia quanto alla diligenza, ad ogni modo, incombente in capo alle autorità nel trovare l’accusato, al fine di portarlo a conoscenza del processo: un approccio che riecheggia, di nuovo, gli insegnamenti della Corte EDU in materia[40].
Sotto il secondo versante, rimangono da sondare due profili della sentenza da cui preme mettere in guardia, in quanto possibili fonti di pericolosi equivoci.
In primo luogo, conviene notare che, sebbene la pronuncia – nel riprendere la formulazione del considerando n. 38 della direttiva 2016/343/UE – si esprima in termini di “diligenza” dell’interessato, pare doversi escludere che i Giudici eurounitari intendano riferirsi ad atteggiamenti meramente colposi dello stesso nella ricezione delle informazioni sul processo. Piuttosto, il peso è dato ai comportamenti dolosi. Lo si scorge, a più riprese, nel ragionamento della Corte, specie ove essa attribuisce rilievo al fatto che l’accusato «agisca deliberatamente in modo da evitare di ricevere ufficialmente le informazioni relative alla data e al luogo del processo», o, ancora, quando utilizza le espressioni «con atti deliberati» e «al fine di sottrarsi all’azione della giustizia» (corsivo nostro).
In secondo luogo, un breve appunto meritano gli esempi enucleati dalla decisione riguardo ai possibili indizi da impiegare, allo scopo di accertare una volontaria sottrazione alla vocatio in iudicium. Sebbene la Corte non lo dichiari espressamente, occorre osservare che dal suo ragionamento complessivo pare potersi ricavare che la circostanza di aver comunicato volontariamente un indirizzo errato e, soprattutto, il fatto che l’interessato non si trovi all’indirizzo indicato non vanno considerati come semplici presunzioni. Chiarificatrici in proposito sembrano, in particolare, le parole spese dalla Corte di giustizia con riferimento al caso a monte della domanda di rinvio pregiudiziale. In linea astratta, essa ha rilevato che le circostanze del caso potrebbero integrare indizi oggettivi e precisi idonei a far ritenere che il prevenuto, dopo essere stato informato dell’accusa a suo carico[41] e, quindi, del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti, abbia impedito alle autorità di informarlo di siffatto processo; e ciò, più precisamente, fornendo un indirizzo che, in seguito, aveva, però, abbandonato. Sennonché, i Giudici hanno, a questo punto, avuto cura di chiarire che «spetta tuttavia al giudice del rinvio effettuare tutte le verifiche a tal riguardo alla luce dell’insieme delle circostanze del procedimento principale». In buona sostanza, milita sempre l’esigenza di un accertamento concreto demandato al giudice, in linea, del resto, con gli insegnamenti della giurisprudenza EDU, che rifugge da schemi presuntivi al riguardo[42].
Le ultime righe di queste riflessioni non possono che rivolgersi alla prospettiva introdotta dalla cosiddetta riforma “Cartabia”.
I criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 7, l. n. 134 del 2021, innestatisi, peraltro, in un sentiero già inaugurato a livello pretorio dalle Sezioni Unite[43], paiono trovare nuova linfa nella sentenza in esame della Corte di Lussemburgo. La considerazione sembra valere pure rispetto al criterio di delega racchiuso nella lett. f), dell’art. 1, comma 7, l. n. 134 del 2021, il quale mira a prevedere una disciplina derogatoria per il processo in caso di imputato latitante, salvo, ad ogni modo, assicurare un rimedio successivo. Preme, d’altra parte, ribadire che – secondo i chiarimenti della Corte di giustizia – quest’ultimo potrebbe essere negato, ove, sulla scorta di indizi oggettivi e precisi, il giudice accerti che l’interessato, ufficialmente informato di essere accusato di un reato, abbia, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, impedito alle autorità, nonostante i loro ragionevoli sforzi, di informarlo del processo.
[1] Cfr. direttiva 2016/343/UE, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, in G.U.U.E., 11 marzo 2016, L 65/1. Su questo atto, si vedano, tra gli altri, F. Alonzi, La direttiva UE sul diritto dell’imputato di partecipare al giudizio e la disciplina italiana sul processo in absentia, in www.lalegislazionepenale.eu, 21 settembre 2016; S. Cras – A. Erbežnik, The Directive on the Presumption of Innocence and the Right to Be Present at Trial. Genesis and description of the new EU-Measure, in Eucrim, 2016, p. 25; J. Della Torre, Il paradosso della direttiva sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo: un passo indietro rispetto alle garanzie convenzionali?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1835.
[2] Cfr. L. Bachmaier Winter, New Developments in EU Law in the Field of In Absentia National Proceedings. The Directive 2016/343/EU in the Light of the ECtHR Case Law, in Aa.Vv., Personal Participation in Criminal Proceedings. A Comparative Study of Participatory Safeguards and in absentia Trials in Europe, a cura di S. Quattrocolo – S. Ruggeri, Cham, 2019, p. 666; J. Della Torre, Il paradosso della direttiva, cit., p. 1869; S. Quattrocolo, Partecipazione al procedimento e contraddittorio, in www.lalegislazionepenale.eu, 19 ottobre 2020, p. 119; S. Ruggeri, Garanzie partecipative, giudizio in absentia e procedimenti inaudito reo. Quale avanzamento di tutela nel diritto dell’Unione europea?, in Eurojus.it, 1° febbraio 2017, p. 5.
[3] V. per tutte, Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, par. 86. Per una panoramica sul tema, cfr., ex multis, S. Quattrocolo, Partecipazione al procedimento, cit., p. 111 e ss.; nonché, dal preciso angolo visuale delle decisioni della Corte EDU emesse nei confronti dell’Italia, A. Procaccino, Informazione e consapevolezza dell’imputato per la presenza al suo processo. Suggestioni europee e problemi nazionali, in www.lalegislazionepenale.eu, 16 dicembre 2020, p. 1 e ss. Più in generale, per recenti lavori monografici in merito al diritto dell’imputato a partecipare al proprio processo, v., diffusamente, E.A.A. Dei-Cas, L’assenza dell’imputato. Modelli partecipativi e garanzie difensive, Torino, 2021; N. Rombi, Il diritto alla presenza processuale. Garanzie, limiti, rimedi, Milano, 2020.
[4] Cfr. S. Ruggeri, Garanzie partecipative, cit., p. 5.
[5] In merito, v., per tutti, R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamentali, in Aa.Vv., Manuale di procedura penale europea, a cura di Id., 4a ed., Milano, 2019, p. 87 e ss.
[6] V. J. Della Torre, Le direttive UE sui diritti fondamentali degli accusati: pregi e difetti del primo “embrione” di un sistema europeo di garanzie difensive, in Cass. pen., 2018, p. 1408 e ss.
[7] Per un primo commento, cfr. L. Mancano, Convictions In Absentia and the Right to a Fair Trial. The Building of an EU Theory of Justice Continues: Spetsializirana prokuratura (C-569/20), in EULawLive, 3 giugno 2022.
[8] Ci si riferisce a Corte giust. UE, Sez. VI, 13 febbraio 2020, C‑688/18, TX e UV, sulla quale cfr. A. Procaccino, Informazione, cit., p. 68 e ss. Sebbene in misura limitata, i Giudici di Lussemburgo hanno, inoltre, preso in considerazione gli artt. 8 e 9 direttiva 2016/343/UE in Corte giust. UE, Sez. IV, 17 dicembre 2020, C‑416/20 PPU, TR.
[9] Cfr. Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, 24 maggio 2021, p. 13 e ss., consultabile in questa Rivista (v. Riforma del processo penale, del sistema sanzionatorio e della prescrizione del reato: la relazione finale della Commissione Lattanzi, 25 maggio 2021).
[10] In merito, si vedano F. Centorame, Verso un nuovo processo penale in assenza: chiaroscuri della legge delega n. 134 del 2021, in DisCrimen, 2 febbraio 2022; M. Gialuz – J. Della Torre, Giustizia per nessuno. L’inefficienza del sistema penale italiano tra crisi cronica e riforma Cartabia, Torino, 2022, p. 305 e ss.; N. Rombi, Le coordinate del nuovo “processo in assenza” tracciate dalla legge n. 134/2021, in ilPenalista, 7 ottobre 2022.
[11] In proposito, la sentenza richiama Corte giust. UE, Sez. V, 28 gennaio 2021, C‑649/19, Spetsializirana prokuratura, punto 42; Corte giust. UE, Sez. II, 17 novembre 1983, 292/82, Merck, punto 12.
[12] V. Conclusioni dell’Avvocato generale Jean Richard de la Tour, presentate il 13 gennaio 2022, C-569/20, punto 34.
[13] Queste le parole di L. Bachmaier Winter, New Developments, cit., p. 666.
[14] V. Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, parr. 84 e 86.
[15] Così, S. Ruggeri, Garanzie partecipative, cit., p. 5.
[16] Nel suo ragionamento, la decisione in esame richiama Corte EDU, Sez. III, 13 marzo 2018, Vilches Coronado e altri c. Spagna, par. 36; Corte EDU, Sez. V, 26 gennaio 2017, Lena Atanasova c. Bulgaria, par. 52; Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria, par. 48; Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, parr. 86 e 99.
[17] V. L. Ludovici, La rescissione del giudicato ex art. 629-bis c.p.p., in Aa.Vv., Le impugnazioni penali, a cura di G. Canzio – R. Bricchetti, Milano, 2019, p. 634.
[18] V., in particolare, Cass., Sez. V, 15 settembre 2020, n. 31201, in CED. Cass., n. 280137, sulla quale cfr. S. Quattrocolo, La Corte di cassazione svela il vero volto della rescissione del giudicato? Due recenti pronunce segnano una svolta interpretativa nel sistema del processo in absentia e dei relativi rimedi, in questa Rivista, 3/2021, p. 5.
[19] Cfr., ad esempio, Cass., Sez. I, 13 gennaio 2022, n. 6057, in CED. Cass., n. 282813; Cass., Sez. II, 2 novembre 2021, n. 43547, in DeJure.
[20] Così, S. Quattrocolo, Partecipazione al procedimento, cit., p. 118.
[21] Cfr., nuovamente, per tutte, Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, par. 81 e ss.
[22] V. J. Della Torre, Il paradosso della direttiva, cit., p. 1871.
[23] Cfr. F. Alonzi, La direttiva UE, cit., p. 22.
[24] Ci si riferisce, più precisamente, alle regole 1 e 6 della Resolution 75(11) on the criteria governing proceedings in the absence of the accused, 21 maggio 1975.
[25] V., ex plurimis, Corte EDU, Sez. I, 5 settembre 2019, Rizzotto c. Italia, par. 53.
[26] In questi termini, J. Della Torre, Il paradosso della direttiva, cit., p. 1871.
[27] Cfr. Conclusioni dell’Avvocato generale Jean Richard de la Tour, cit., punto 62 e ss.
[28] V. Corte EDU, Sez. V, 26 gennaio 2017, Leta Atasova c. Bulgaria, par. 53.
[29] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 26 gennaio 2017, Leta Atasova c. Bulgaria, par. 28.
[30] V. Corte EDU, Sez. V, 26 gennaio 2017, Leta Atasova c. Bulgaria, par. 52.
[31] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 26 gennaio 2017, Leta Atasova c. Bulgaria, par. 52.
[32] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria.
[33] V. Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria, par. 10 e ss.
[34] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria, parr. 47-54.
[35] V. Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria, par. 49.
[36] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 23 maggio 2006, Kounov c. Bulgaria, par. 49.
[37] V. Corte EDU, Sez. V, 11 ottobre 2012, Abdelali c. Francia.
[38] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 11 ottobre 2012, Abdelali c. Francia, parr. 50-56.
[39] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 11 ottobre 2012, Abdelali c. Francia, par. 54. Assai di recente, si veda pure Corte EDU, Sez. II, 7 giugno 2022, Yeğer c. Turchia, par. 31 e ss., in cui i Giudici di Strasburgo, posto che il ricorrente non era stato mai informato personalmente di alcun atto del procedimento penale, hanno concluso che, «even assuming that the applicant could potentially be reproached for failing to inform the authorities of his address […] it would be too great a leap to attach to such a failure the rationale that the applicant was either aware of the criminal proceedings or intended to evade justice». Analogamente si è sostenuto con riferimento alla circostanza che il ricorrente si era recato all’estero.
[40] A titolo di esempio, può essere utile citare il caso Popovitsi c. Grecia, in cui una lesione del diritto a presenziare al proprio processo è stata riscontrata non solo giacché la ricorrente, di domicilio sconosciuto, non aveva mai avuto contezza delle accuse formulate nei suoi confronti, ma anche in ragione dell’assenza di qualsiasi tentativo da parte delle autorità di rintracciarla ai fini della notifica della citazione a comparire all’udienza. Una circostanza che – hanno affermato icasticamente i Giudici di Strasburgo – «se concilie mal avec la diligence que les Etats contractants doivent déployer pour assurer la jouissance effective et non pas théorique ou illusoire des droits garantis par l’article 6»: Corte EDU, Sez. I, 14 gennaio 2010, Popovitsi c. Grecia, par. 20 e ss. La riscontrata assenza di diligenza da parte delle autorità è, inoltre, posta al centro dell’accertata violazione dell’art. 6 Convenzione in Corte EDU, 28 agosto 1991, F.C.B. c. Italia, parr. 33-36.
[41] In proposito, la Corte di giustizia ha, tuttavia, puntualizzato che questo vale, purché il giudice del rinvio accerti che il secondo atto di imputazione, non notificato personalmente all’interessato, corrisponda al primo, conosciuto, invece, dal prevenuto.
[42] Cfr., ex plurimis, Corte EDU, 12 febbraio 1985, Colozza c. Italia, par. 28.
[43] Si allude a Cass., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 23948, in questa Rivista, 2 marzo 2021, con nota di S. Quattrocolo, La Corte di cassazione, cit., p. 5. Si veda, inoltre, Cass., Sez. Un., 26 novembre 2020, n. 15498, in CED. Cass., n. 280931, sulla quale cfr. F. Peroni, Sul controverso confine tra incidente d’esecuzione e rescissione del giudicato, in Arch. pen., 2021, n. 2 (versione web); S. Quattrocolo, Actio finium regundorum tra incidente di esecuzione e rescissione del giudicato, in questa Rivista, 18 maggio 2021.