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18 Marzo 2021


Giudizio abbreviato nel caso di reati puniti con l’ergastolo: la Corte costituzionale chiamata a decidere se la preclusione è giustificata anche per il soggetto non imputabile

GUP Rimini, ord. 19 gennaio 2021, giud. Vitolo



1. Dopo la sentenza n. 260 del 2020[1], che ha sopito la querelle sulla tenuta costituzionale della nuova disciplina del giudizio abbreviato, torna all’attenzione della Consulta una questione relativa alla possibilità di accedere al rito anche nel caso di reati puniti con l’ergastolo, questa volta con riguardo al soggetto non imputabile.

Con l’ordinanza in epigrafe, il g.u.p. presso il Tribunale di Rimini ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., introdotto dalla legge 12 aprile 2019, n. 33, nella parte in cui non prevede che un soggetto infermo di mente, «riconosciuto incapace di intendere e di volere al momento del fatto con perizia accertata in sede di incidente probatorio», imputato per un delitto astrattamente punibile con la pena dell’ergastolo, possa chiedere di ricorrere al giudizio abbreviato.

L’asserita incompatibilità costituzionale della norma censurata deriverebbe dal contrasto con il principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost., giacché la necessaria celebrazione dell’iter dibattimentale comporta un’inutile dilatazione dei tempi processuali, con un conseguente dispendio di risorse organizzative. In particolare, la preclusione dell’accesso al rito abbreviato sarebbe ingiustificata in virtù della non imputabilità del richiedente: trattandosi di soggetto non punibile, la cui incapacità è stata già «incontrovertibilmente accertata con perizia», l’approdo dibattimentale non potrebbe condurre a conseguenze diverse da quelle già appurate, né ad altro esito che non sia l’applicazione di una misura di sicurezza. Dunque, il nucleo argomentativo dell’ordinanza di rimessione si focalizza sulla superfluità del rito ordinario rispetto alla peculiare situazione descritta, evidenziando l’assenza di logiche esigenze che potrebbero legittimarne la celebrazione.

2. La vicenda de qua vede imputato per omicidio aggravato un soggetto, reo confesso, riconosciuto totalmente incapace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto, socialmente pericoloso e in grado di partecipare al processo dalla perizia effettuata durante le indagini preliminari nelle forme dell’incidente probatorio. In sede di udienza preliminare, l’imputato ha chiesto, per mezzo del difensore, in subordine all’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, di essere ammesso al rito abbreviato. In relazione a detta richiesta, il pubblico ministero ha presentato, in una memoria, l’invito rivolto al giudice a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., per violazione degli artt. 2, 3, 27, 32 e 111 Cost.

Secondo il rappresentante della pubblica accusa, la norma introdotta dalla l. n. 33 del 2019, è irragionevole in quanto prevede il medesimo trattamento per situazioni tra loro disomogenee, con effetti discriminatori e lesivi della dignità umana nei confronti del soggetto affetto da vizio totale di mente. Tale patologia richiede una celere definizione del processo, affinché possa essere applicata la misura di sicurezza che consente al reo di continuare a vivere dignitosamente. Viceversa, la disciplina in parola, imponendo indiscriminatamente la celebrazione del rito ordinario per i reati puniti con la pena dell’ergastolo, produce un’irragionevole dilatazione dei tempi processuali, difettando di qualsiasi legittima ratio giustificativa. Infatti, il pubblico ministero non ha ravvisato alcuna delle ragioni che, alla luce della recente sentenza n. 260 del 2020 della Corte costituzionale, potessero legittimare la preclusione con riguardo al caso di specie: non l’intenzione di evitare la riduzione di pena per i delitti più gravi, che evidentemente non si attaglia alla situazione del soggetto non imputabile; né l’interesse da parte delle vittime alla celebrazione di un pubblico processo, trattandosi di fatti particolarmente dolorosi di cui sarebbe auspicabile non riprodurre il ricordo vittimizzante in dibattimento.

3. In merito a tale prospettazione, il giudice rimettente ha valutato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, seppur limitatamente al parametro di cui all’art. 111, comma 2, Cost. Quanto alla rilevanza, ha evidenziato che il fatto era stato commesso dopo l’entrata in vigore della l. n. 33 del 2019, introduttiva della preclusione de qua, e che la richiesta avanzata dal difensore, munito di procura speciale, aveva ad oggetto la possibilità di accedere al rito. Dunque, risultava necessaria l’applicazione della norma reputata incostituzionale.

Con riguardo alla non manifesta infondatezza, dopo aver ripercorso i principali precedenti della Corte costituzionale sull’argomento, il g.u.p. di Rimini ha ritenuto legittimo l’interesse dello Stato a un processo pubblico, dinanzi a un giudice collegiale con formazione mista, per i delitti di particolare allarme sociale, anche nei casi in cui l’imputato non sia punibile. Inoltre, non ha riscontrato alcuna lesione del diritto di difesa o della riservatezza, né alcuna manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della scelta legislativa, con ciò decretando l’art. 438, comma 1-bis, c.p.p. non incompatibile con i principi di cui agli artt. 2, 3, 24, 27 e 32 Cost.

Tuttavia, ha superato lo scrutinio di non manifesta infondatezza la censura relativa al principio di ragionevole durata del processo. Il parametro ex art. 111, comma 2, Cost., declinato “in positivo”, impone al legislatore di predisporre gli strumenti che ne consentano la concreta realizzazione: rispetto a questo obiettivo, la norma censurata si pone, però, in antitesi. Secondo il giudice a quo, l’impossibilità di ricorrere al rito abbreviato anche per il soggetto che, in pieno contraddittorio, sia stato riconosciuto incapace di intendere e di volere, collide, in effetti, con i principi costituzionali di ragionevolezza e di efficienza del sistema penale.

Per un verso, anche laddove si procedesse con la fase dibattimentale, non sarebbe possibile pervenire a risultati probatori differenti da quelli già cristallizzati. Atteso che l’incapacità di intendere e di volere dell’imputato era stata accertata con perizia nelle forme dell’incidente probatorio (dunque, assicurando il rispetto del contraddittorio), il dato della non punibilità dell’imputato appare incontrovertibile, non modificabile e determinante per la decisione. Di conseguenza, l’esito di un eventuale processo dibattimentale e collegiale non potrebbe che essere identico a quello raggiungibile in sede di giudizio abbreviato. Di qui, l’irragionevolezza di una disciplina inutilmente dilatoria.

Per altro verso, nell’ordinanza di rimessione viene accordato rilievo al profilo difensivo. Si sostiene, infatti, che l’esercizio del diritto di difesa non possa risultare compromesso dalla definizione del processo nelle forme del rito abbreviato; di talché non potrebbe sostenersi che il ricorso obbligato al rito ordinario sia giustificato in virtù della necessità di garantire un più alto livello di tutela del diritto di difesa.

In ultima analisi, il giudice rimettente ha evidenziato che, a mente dell’art. 425, comma 1, c.p.p., è preclusa, in sede di udienza preliminare, la possibilità di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità quando si debba procedere all’applicazione di una misura di sicurezza. Questa norma, unitamente alla preclusione di accesso al giudizio abbreviato, rende inevitabile la celebrazione del dibattimento, producendo un’irragionevole lungaggine processuale e un correlato dispendio di risorse organizzative.

4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, si può osservare che con il presente provvedimento è stato rievocato il dibattito sulla compatibilità costituzionale della novellata disciplina del giudizio abbreviato[2], nonostante sembrasse ormai risolto dal più recente arresto della Corte costituzionale sull’argomento. Pur non volendo in questa sede ripercorrere l’evoluzione normativa che ha tratteggiato e rimodulato, nel tempo, la fisionomia di questo rito speciale[3], né trattare esaustivamente le ragioni sottese all’ultimo intervento del legislatore[4], giova sinteticamente rilevare la precisa sfumatura assiologica che caratterizza la recente scelta di politica criminale[5].

La rigida inapplicabilità del giudizio abbreviato ai processi concernenti delitti puniti con l’ergastolo deriva, infatti, dall’intenzione legislativa di rinsaldare la pressione punitiva per i reati più gravi, oltre che di assicurare un processo pubblico e collegiale per l’accertamento dei fatti connotati dal disvalore più severo. In tal modo, la previsione edittale della pena perpetua diventa il presupposto di un meccanico sbarramento[6] che rende l’iter processuale ordinario lo sbocco fisiologico di questi giudizi. Non si può fare a meno di notare come, in realtà, la nuova disposizione tradisca un giudizio negativo del legislatore sull’effettiva proporzione del giudizio abbreviato come strumento processuale per la repressione di reati così gravi, quasi a voler suggerire che, a fronte di una scelta sanzionatoria della massima intensità sul piano sostanziale, non possa poi seguire un’opzione “di favore” sul versante processuale.

5. Su quanto la disciplina in parola sia effettivamente conforme a Costituzione, la Consulta è stata più volte chiamata a esprimersi. A partire dalla sentenza n. 176 del 1991[7], la preclusione non è stata reputata irragionevole, «né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».

La stessa posizione di apertura alle preclusioni di natura oggettiva, basate sul titolo astratto del reato, è stata riaffermata in occasione dello scrutinio di costituzionalità della disciplina del c.d. “patteggiamento allargato”: nell’ordinanza n. 455 del 2006[8], la Corte ha ricondotto alla discrezionalità legislativa la previsione di un trattamento, sostanziale o processuale, più rigoroso per talune categorie di reati, non ravvisando alcuna incompatibilità con i parametri costituzionali.

Da ultimo, il consolidato orientamento è stato ribadito nella citata sentenza n. 260 del 2020. In essa, sono state esplicitamente escluse la manifesta irragionevolezza e l’arbitrarietà dell’opzione legislativa condensata nell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., «in quanto la comminatoria che determina la preclusione è quella della pena più grave prevista nel nostro ordinamento, che segnala – come parimenti si è osservato – una valutazione di massimo disvalore del reato per il quale si procede». D’altra parte, sono state in quell’occasione vagliate dalla Corte anche le finalità perseguite dal legislatore con la l. n. 33 del 2019, individuate in un generale inasprimento delle pene concretamente inflitte per i delitti più gravi e nell’opportunità della celebrazione di un processo pubblico e collegiale, «con le piene garanzie sia per l’imputato, sia per le vittime, di partecipare all’accertamento della verità». In proposito, né le finalità in sé, né i mezzi individuati dal legislatore per raggiungerle sono apparsi alla Consulta manifestamente irragionevoli o arbitrari, bensì in linea con una scelta discrezionale del Parlamento, non sindacabile dal Giudice delle leggi[9].

6. Tutto ciò premesso, la questione sollevata dal g.u.p. di Rimini restringe l’angolo visuale a un solo profilo di presunta incostituzionalità, quello relativo alla ragionevole durata del processo, sgombrando il campo da riflessioni sulla potenziale violazione di altri parametri costituzionali. Dunque, la prospettiva di ragionamento che la Corte sarà chiamata ad assumere ruota intorno all’art. 111, comma 2, Cost. Anche con riguardo a questo aspetto, la sentenza n. 260 del 2020 offre un aggancio interpretativo, laddove lega la violazione del principio all’eventualità in cui «l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa»[10]. In particolare, in quell’occasione, la Consulta ha reputato che la lungaggine temporale dovuta alla norma censurata non producesse alcuna “irragionevole” durata del processo. In altre parole, atteso che il concetto di ragionevole durata del processo è frutto di un bilanciamento tra molteplici e opposte esigenze, la scelta legislativa era da ascrivere a una “ragionevole” ponderazione degli interessi in gioco.

In effetti, la misura della ragionevolezza della durata del processo è un dato vago ed estremamente variabile che dipende dalle singole esigenze di accertamento del fatto storico di reato[11]. Tuttavia, volendo individuare una cifra “universale” di ragionevolezza, si condivide quanto efficacemente sostenuto da chi, in dottrina, ha concluso «che sia ragionevole tutto il tempo dedicato ad attuare le garanzie individuali nel processo»[12]. A contrario, è irragionevole tutto il tempo che nel processo non è impegnato per la tutela di siffatta esigenza.

Ora, con riguardo al giudizio abbreviato, è agevole guardare al rito come a una “scorciatoia” processuale che riduce tempi, costi e risorse evitando i ritardi dell’iter ordinario. Finché, però, sussiste una valida esigenza che giustifica la celebrazione del dibattimento, ravvisabile nell’interesse a un migliore accertamento della responsabilità e nella tutela delle posizioni di tutti i soggetti coinvolti, il prolungamento dei tempi, dovuto alla celebrazione del dibattimento e previsto da una norma di legge come esplicazione della volontà parlamentare, non può ritenersi irragionevole.

7. Al netto di queste considerazioni, resta da valutare l’elemento che caratterizza indefettibilmente il caso di specie, ovvero l’incapacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto, che lo rende soggetto non imputabile ai sensi degli artt. 85 e 88 c.p. Il vizio totale di mente dell’autore del reato è, infatti, causa di esclusione della punibilità. Da un lato, in linea con la funzione rieducativa della pena, il condannato deve essere psicologicamente capace di cogliere il significato del trattamento punitivo; dall’altro, rispetto alla funzione general-preventiva, è necessario che il soggetto, al momento della commissione del fatto, sia in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia della sanzione[13].

Proprio la stretta correlazione tra imputabilità e funzione della pena relega in un angolo le disquisizioni sull’inidoneità del giudizio abbreviato ad assicurare un trattamento sanzionatorio sufficientemente rigoroso a fronte di delitti della massima severità. In effetti, con riguardo al soggetto non imputabile, perdono valore le argomentazioni a sostegno della scelta legislativa operata nel segno dell’aumento della pressione punitiva. Allora, ciò induce a chiedersi se perduri, anche in situazioni siffatte, quella cifra di ragionevolezza che giustifica la dilatazione dei tempi processuali prodotta per effetto dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., in considerazione del parametro di cui all’art. 111, comma 2, Cost.

Se è vero che le condizioni personali del reo, riconosciuto incapace di intendere e di volere, escludono la rimproverabilità soggettiva del fatto all’agente, d’altra parte, sul piano oggettivo, il fatto commesso, astrattamente punibile con la pena dell’ergastolo, produce un allarme sociale che giustifica – in linea teorica – l’interesse dello Stato alla celebrazione di un processo dibattimentale che possa coinvolgere il controllo dell’opinione pubblica e delle vittime. E tale esigenza, secondo l’affermazione contenuta nella sentenza n. 260 del 2020, potrebbe, invero, sorreggere l’effetto dilatorio della disciplina.

8. In ultima analisi, giova rilevare che il soggetto non imputabile che sia riconosciuto socialmente pericoloso risulta, comunque, destinatario di una misura di sicurezza. Questa non presenta alcun connotato punitivo ma risponde alla duplice esigenza di assistere il soggetto e tutelare la collettività dalle ulteriori manifestazioni pregiudizievoli della sua pericolosità. Come puntualizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2003, «le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell'infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell'infermo “pericoloso”), e non all'altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile»[14].

La Consulta ha, inoltre, di recente puntualizzato, nella sentenza n. 73 del 2020 che «la misura di sicurezza dovrebbe auspicabilmente essere conformata in modo da assicurare, assieme, un efficace contenimento della pericolosità sociale del condannato e adeguati trattamenti delle patologie o disturbi di cui è affetto (secondo il medesimo principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003, in relazione al soggetto totalmente infermo di mente), nonché fattivo sostegno rispetto alla finalità del suo “riadattamento alla vita sociale”»[15]. Così, la Corte ha escluso che, con l’applicazione di una misura di sicurezza, possano ritenersi sacrificate le esigenze di tutela della collettività contro la pericolosità sociale di un soggetto.

In tale ultimo arresto, si coglie la valorizzazione degli stati di incapacità del soggetto agente, che anche nel caso di un vizio di mente solo parziale «merita una punizione meno severa rispetto a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica». Questo ragionamento ha indotto la Corte a ritenere non accettabile un’equiparazione tra situazioni oggettivamente disomogenee che si risolva nell’applicazione della stessa pena al colpevole seminfermo e al reo immune da patologie mentali. In quel caso, è stato espunto dall’ordinamento il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art. 89 c.p. (vizio parziale di mente) sull’aggravante della recidiva reiterata, cosicché fosse possibile per il giudice discernere – sotto il profilo sanzionatorio – fatti connotati da diverso disvalore. Tuttavia, le affermazioni ivi contenute sono destinate a produrre un’eco significativa anche con riguardo ad altre situazioni, in cui l’incapacità di intendere e di volere di un imputato altera l’impianto strutturale di una disciplina pensata per l’ordinarietà dei casi.

9. Tornando alla questione sollevata dal g.u.p. di Rimini, appare doveroso soffermarsi proprio sull’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere dell’imputato, che è posta a base di tutto l’impianto argomentativo dell’ordinanza di rimessione. L’ipotesi di incostituzionalità avanzata si basa sull’inutilità di un processo dibattimentale non voluto dall’imputato e che non potrebbe condurre a conseguenze diverse sul piano probatorio e punitivo: si sostiene, infatti, che il reo non potrebbe, in ogni caso, essere destinatario di una pena, in quanto soggetto non imputabile.

Tuttavia, dal provvedimento emerge che l’infermità mentale è stata riconosciuta con una perizia effettuata in sede di incidente probatorio: ciò significa che, in pieno contraddittorio, sebbene in un momento antecedente al giudizio, è stata formata una prova ritualmente utilizzabile ai fini della decisione. È solo in sede di giudizio, però, che il giudice effettuerà la propria valutazione e potrà dirsi accertata l’incapacità di intendere e di volere.

In altre parole, il giudice a quo pone come presupposto della superfluità di un processo dibattimentale la condizione di non punibilità del reo scaturita dalla sua incapacità di intendere e di volere, che, per quanto diagnosticata, non è stata ancora oggetto di accertamento in giudizio. Allora, è come se nel dubbio di compatibilità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p. in relazione alla situazione presentata si celi – in realtà – un cortocircuito logico, per effetto del quale la possibilità di accedere al rito abbreviato dovrebbe essere concessa in virtù di un elemento (il vizio di mente) su cui non è ancora intervenuta alcuna deliberazione giudiziale.

Questa prospettiva induce a chiedersi se possa, effettivamente, essere reputato «inutile» un momento processuale (quello del dibattimento) in cui si realizza l’accertamento del fatto, in tutti i suoi aspetti, attraverso la valutazione delle prove. Quello che stupisce, in realtà, non è il fatto che il rimettente suggerisca di escludere l’obbligatorietà del dibattimento. Infatti, anche in sede di giudizio abbreviato, cui si accede per esplicita richiesta dell’imputato, il giudice procede alla valutazione delle prove e all’accertamento della responsabilità, potendo – se del caso – anche esercitare poteri di integrazione probatoria d’ufficio. Piuttosto, non pare sufficientemente fondato porre a base dell’incostituzionalità della preclusione, per violazione del principio di ragionevole durata del processo, l’elemento discretivo della non punibilità, che deriva da una prova assunta ma non ancora valutata, soprattutto a fronte di una scelta di politica criminale già reputata costituzionalmente legittima per la generalità dei casi.

10. In conclusione, non sembra che la censurata preclusione di accesso al rito abbreviato possa ritenersi incostituzionale per effetto di una perizia realizzata in sede di incidente probatorio, sulla premessa che quanto riscontrato sia incontrovertibile. Diversamente, si dovrebbe affermare che da una prognosi effettuata dal giudice in sede di udienza preliminare si possa ricavare la necessità, costituzionalmente imposta, di una più celere definizione del processo.

Certo, se si considera che la principale finalità percorsa dal legislatore è quella di irrobustire la risposta sanzionatoria per i reati più gravi, non convince del tutto il fatto che a “subire” la preclusione vi siano anche soggetti che, all'esito del processo, saranno dichiarati non imputabili e, dunque, del tutto non punibili. Sembra mancare, cioè, quella necessaria simmetria tra intenzioni legislative e risultato concreto ogniqualvolta non si realizzi, di fatto, l’obiettivo proposto ex ante in sede legislativa.

Tuttavia, tale segnale di distonia del sistema processuale non può essere risolto come suggerito dal rimettente, dal momento che sulla non punibilità del reo nessun giudice si è ancora pronunciato. Né potrebbe immaginarsi, de iure condito, una deliberazione contestuale e funzionale alla decisione sull’ammissione al rito.

Alla luce di ciò, il caso descritto nell’ordinanza di rimessione non presenta un grado di certezza circa l’effettivo esito del giudizio tale da rendere irragionevole la dilatazione dei tempi processuali determinata dal dibattimento, con la conseguenza che la preclusione dell’accesso al giudizio abbreviato in tutti i processi concernenti delitti punibili con l’ergastolo rimane il frutto di un esercizio non irrazionale della sovranità parlamentare, la cui finalità non può dirsi smentita.

Di fronte allo scoglio della discrezionalità legislativa sembrano esserci pochi margini per addivenire a una declaratoria di incostituzionalità. Sarebbe, in definitiva, condivisibile se la Corte riportasse la questione negli stessi termini della sentenza n. 260 del 2020 e ritenesse che, anche in questo caso, si riscontrano quelle “logiche esigenze” tali da escludere la violazione del principio di ragionevole durata del processo, alla luce della cautela speciale che è richiesta nel controllo di costituzionalità delle scelte legislative.

 

 

[1] C. cost., sent. 3 dicembre 2020, n. 260, in questa Rivista, 7 dicembre 2020, con nota di G. Leo, L’esclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo: infondate o inammissibili le questioni di legittimità costituzionale.

[2] Il dibattito, com’è noto, aveva coinvolto direttamente i giudici di merito. A fronte di provvedimenti che hanno evidenziato i dubbi di legittimità costituzionale poi sciolti dalla Consulta, non sono mancate pronunce di senso contrario che invece avevano ritenuto manifestamente infondate le questioni proposte dalle parti. Così, a titolo di esempio, G.i.p. Alessandria, ord. 28 maggio 2020, in questa Rivista, 25 giugno 2020, con nota di E. Crippa, Pena perpetua e giudizio abbreviato: manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale; C. Ass. Santa Maria Capua Vetere, Sez. I, ord. 10 giugno 2020, ivi, 24 luglio 2020, con nota di A. Franceschini, Giudizio abbreviato e reati puniti con l’ergastolo: storia di un rapporto tormentato e di ricorrenti dubbi costituzionali.

[4] Per una ricognizione della novella del 2019, si rimanda a A. Cisterna, I consistenti impatti di una novella sulle corti di assise, in Guida dir., 2019, 21, p. 22 ss.; A. De Caro, Le ambigue linee di politica penale dell'attuale legislatore: giudizio abbreviato e reati puniti con la pena dell'ergastolo, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1627 ss.; G. Di Chiara, Giudizio abbreviato, reati “da ergastolo”, populismo penale e Stato di diritto, in Proc. pen. giust., 2019, 5, p. 1037 ss.; F. Giunchedi, De profundis per i procedimenti speciali. Considerazioni a margine della legge di inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo, in Arch. pen. web, 2019, 2, p. 1 ss.; A. Marandola, La riforma del giudizio abbreviato: prime questioni applicative ed esegetiche della legge n. 33 del 2019, in Studium iuris, 2019, p. 1428 ss.; C. Marinelli, Giudizio abbreviato ed ergastolo: la legge 33/2019 tra aporie esegetiche e ricadute sistematiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 37 ss.; R. Pilloni, Giustizia penale negoziata e divieto di giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, in Arch. pen. web, 2020, 1, p. 1 ss.; G. Spangher, Incidere sui benefici e sulle sanzioni come strada ulteriore, in Guida dir., 2019, 21, p. 19 ss.; D. Vigoni, Ancora una riforma del giudizio abbreviato: l’inammissibilità per i delitti puniti con l’ergastolo, in Dir. pen. proc., 2019, p. 918 ss.; F. Zacchè, Inammissibile l’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: osservazioni a margine della l. 12 aprile 2019, n. 33, in Proc. pen. giust., 2019, 5, p. 1202 ss.

[5] In dottrina, A. Scalfati, L’uso strategico dei procedimenti differenziati, in Arch. pen. web, 2019, 3, p. 5, parla, con riguardo agli ultimi interventi legislativi, di «antidoti alla proliferazione del giudizio abbreviato». Quanto alle intenzioni, M. Borgobello, Inapplicabilità del rito abbreviato ai reati puniti con l’ergastolo: una prima lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 260 del 2020, in Giur. pen. web., 2021, 1, p. 8, ravvisa che il legislatore ha confermato «un approccio rigorista e una mentalità intrinsecamente “punitiva”».

[6] Così, G. Di Chiara, Giudizio abbreviato, reati “da ergastolo”, populismo penale e Stato di diritto, cit., p. 1038.

[7] C. cost., sent. 23 aprile 1991, n. 176, in cortecostituzionale.it. Con il citato provvedimento, la Corte costituzionale dichiarò illegittimo, per eccesso di delega, l’art. 442, comma 2, c.p.p. nella parte in cui prevedeva che «alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta». Il venir meno di tale disposizione produsse l’effetto di rendere inapplicabile il giudizio abbreviato ai «processi concernenti delitti punibili con l’ergastolo». L’inapplicabilità del giudizio abbreviato a questi, determinata come conseguenza della sentenza n. 176 del 1991, rimase in vigore fino all’introduzione della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge Carotti), che ha ripristinato la possibilità di accesso al rito.

[8] C. cost., ord. 28 dicembre 2006, n. 455, in cortecostituzionale.it.

[9] La dottrina è, in generale, più scettica circa l’effettiva “bontà” della scelta del legislatore, ravvisando soluzioni alternative alle istanze, pur meritevoli di rilievo, affrontate dalla novella legislativa, che prendano più in considerazione le esigenze difensive. Si vedano, in proposito, A. Scalfati, L’uso strategico dei procedimenti differenziati, cit., p. 6.; F. Zacchè, Inammissibile l’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: osservazioni a margine della l. 12 aprile 2019, n. 33, cit., p. 1203, e, nello stesso senso, L. Agostino, Legittima l’inammissibilità del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, in Arch. pen. web, 2021, 1, p. 20. Si veda, altresì, F. Barbero, La preclusione al rito abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo: la Consulta si pronuncia, in Giur. pen. web, 2020, 12, p. 17, che evidenzia come sia «contraddittorio questo trend legislativo in controtendenza rispetto alla costante incentivazione di strumenti deflattivi del processo penale».

[10] Il medesimo concetto si ritrova anche in C. cost., sent. 29 gennaio 2016, n. 12; C. cost., sent. 6 giugno 2014, n. 159; C. cost., sent. 27 febbraio 2009, n. 56, tutte in cortecostituzionale.it.

[11] Per una ricostruzione organica del principio, anche da una prospettiva sovranazionale, si veda S. Buzzelli, Processo penale (ragionevole durata del), in Enc. dir., Annali III, Milano, Giuffrè, 2010, p. 1017 ss.

[12] Così, G. Pansini, La ragionevole durata del processo: dalla enunciazione astratta alla devastazione quotidiana, in Arch. pen., 2009, 1, p. 12.

[13] V. G. Fiandaca – E. Musco, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 2010, p. 332.

[14] C. cost., sent. 18 luglio 2003, n. 253, in cortecostituzionale.it.

[15] C. cost., sent. 24 aprile 2020, n. 73, in questa Rivista, 24 aprile 2020, con nota di G. Leo, La Consulta ristabilisce la piena discrezionalità del giudice per la comparazione tra recidiva e diminuente della seminfermità mentale. V. anche F. Lazzeri, La rimproverabilità soggettiva come vincolo di proporzionalità della pena in una nuova sentenza della Corte costituzionale sull'art. 69 c. 4 (in relazione alla seminfermità mentale), in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 2, p. 1104 ss. e  E. Mariani, Seminfermità e recidiva. Incostituzionale il divieto di prevalenza della seminfermità sulla recidiva reiterata: una nuova pronuncia della Corte costituzionale sull’art. 69, 4° comma, c.p., in Giur. it., 2020, 11, p. 2547 ss.