Scheda  
16 Aprile 2024


Lo stato dell’arte nella colpa medica, tra leggi temporanee ed aperture giurisprudenziali


Gianfranco Iadecola

1. Il testo dell’art. 4, co. 8 septies, della legge di conversione del cd. decreto cd. mille proroghe (d.l. 215/2023), approvata dal Senato il 21 febbraio 2023, contiene la estensione del beneficio della “limitazione della punibilità ai soli casi di colpa grave” – prevista per i cd. “professionisti sanitari” dall’art. 3 bis del d.l. n. 44/2021 (conv.to nella l. n.76/2021) in relazione ai reati di omicidio e lesioni colpose consumati “durante lo stato di emergenza epidemiologica” legata al COVID-19 (ossia nel lasso temporale che va dal 31 gennaio 2020, momento di dichiarazione di detto “stato”, sino al 31 marzo 2022, epoca di scadenza dell’ultima proroga di esso) – "ai fatti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. commessi fino al 31 dicembre 2024 nell’esercizio di una professione sanitaria in situazioni di grave carenza di personale sanitario".

Si tratta di disposizione che potrebbe essere specularmente catalogata sia quale legge sopravvenuta più favorevole rispetto alla disciplina penale vigente in tema di responsabilità sanitaria (artt. 589, 590, 590 sexies c.p.), atteso che, ai fini della configurazione del reato, conferisce rilievo alla sola colpa grave, sia quale norma introduttiva di una causa di non punibilità per le condotte non contrassegnate da gravità della colpa; la classificazione risultando, peraltro, priva di rilievo ai sensi e per gli effetti del fenomeno successorio, attesa la natura di “norma temporanea” della previsione, che ne esclude la efficacia retroattiva (cfr art 2, co. 5, c.p.).

È opportuno dedicare ad essa una adeguata attenzione, anche perché forti sembrano essere le istanze, per così dire, “ambientali”, volte a sollecitarne la adozione in via ordinaria, in sostituzione dell’attuale regolamentazione della responsabilità colposa dei professionisti sanitari.

 

2. La recentissima disciplina, chiaramente orientata alla “protezione” dell’esercizio professionale del personale sanitario, alla pari di quella sullo “scudo penale” da COVID 19, non si dispone però in piena continuità con quest’ultima, poiché, pur richiamando, di essa, il disposto in punto di ridotta punibilità della condotta (al limite della colpa grave), ne condiziona poi l’applicazione al diverso presupposto funzionale  (rispetto alla “situazione di emergenza epidemiologica” in cui “i fatti devono trovare causa”, considerata nella precedente previsione) della “situazione di grave carenza di personale”, nella quale i comportamenti “sanitari” (inadeguati) posti in essere devono trovare scaturigine e causazione.

V’è invero discontinuità anche in relazione ai fattori di valutazione che “possono escludere” la “gravità” del “grado della colpa”, poiché la nuova regolamentazione (cfr. art. 4, co. 8 octies, della citata legge di conversione), accanto alla “entità” delle “risorse umane e materiali concretamente disponibili” (correlate “al numero dei casi da trattare”) ed “al minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato” (parametri circostanziali già presenti nella normativa del cd. scudo COVID 19), prevede altresì la rilevanza, nel giudizio sul “grado della colpa”, “delle condizioni di lavoro”, della “entità” delle stesse “risorse finanziarie” disponibili, e del “contesto organizzativo in cui i fatti cono commessi”.

Le diversità di contesto e di presupposti di operatività della sopravvenuta normazione di favore (nella quale non compaiono riferimenti letterali allo “stato di emergenza epidemiologica”) inducono a ritenere che debbano rimanerne investite soltanto le condotte del personale sanitario relative al periodo che va tra la entrata in vigore della menzionata legge di conversione e la data del 31 dicembre 2024 (la quale indica il termine finale di vigenza della nuova disciplina), senza che – dunque – possa individuarsi un fenomeno di proroga (da parte di essa) delle disposizioni del cd. scudo COVID 19.

Dal che deriva che le ultime disposizioni non possano “coprire” le condotte colpose dei professionisti sanitari che siano state commesse nella fase temporale che si colloca tra la perenzione dello “scudo penale” da Covid 19 (ossia il sopra indicato termine del 31 marzo 2022) e l’entrata in vigore della legge di conversione in oggetto, le quali dovrebbero essere assoggettate alla disciplina penale per così dire “ordinaria” in tema di colpa.

 

3. Ci si è già espressi nel senso di individuare prima facie, nelle nuove regole penali ad efficacia temporanea, una normativa di favore, dal momento che esse introducono un regime di disciplina che risulta più vantaggioso di quello ordinariamente riservato dall’ordinamento alle prestazioni dei professionisti sanitari, e, ciò, anche se appare evidente come la sua effettiva operatività sia disposta in stretta e necessaria correlazione con il configurarsi di specifiche situazioni, e poi, all’interno di esse, alla presenza di determinati fattori condizionanti.

Viene infatti sì varato l’innovativo – ed inedito – principio della normale rilevanza della sola “colpa grave” quale che sia la natura della colpa dell’agente, e dunque non solo – ed unicamente – quando venga in rilievo l’imperizia del “professionista sanitario” a fronte della “soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà” (secondo i dicta di Corte Cost. n.166/1973 ed il conseguente insegnamento giurisprudenziale applicativo in sede penale dell’art. 2236 c.c.), ma anche in caso di comportamenti inficiati (oltre che da imperizia, pur al di fuori del perimetro del citato art. 2236 c.c.) da negligenza od imprudenza; come è altresì vero che manca, nel testo delle nuove prescrizioni, qualsiasi riferimento al vincolante presupposto applicativo del rispetto delle linee guida o delle buone pratiche cliniche, che agiva quale vera e propria condicio sine qua non del trattamento penale di favore recato dalla pregressa legislazione di settore  (cfr. cd. leggi Balduzzi, n.  189/2012, e Gelli-Bianco, n.24/2017).

E peraltro, come si è visto, il legislatore circoscrive l’applicazione di dette più propizie previsioni alle sole manchevolezze comportamentali avvenute in contesti di “grave carenza di personale sanitario” che (secondo la lettura più ragionevole) abbiano avuto incidenza causale rispetto al loro inverarsi (il che implica la necessaria verifica “controfattuale” che dette “deficitarietà operative” non sarebbero occorse se il “personale sanitario” non fosse stato assai rilevantemente -gravemente- insufficiente; circostanza – quest’ultima – essa stessa, perciò, destinata ad essere doveroso oggetto di riscontro giudiziale).

Né sfugge come una ulteriore delimitazione dello spazio applicativo del criterio di colpa – di novello conio- agli “esercenti una professione sanitaria” derivi dai fattori, di espressa e fondatamente “tassativa” previsione normativa, che possono avere rilievo ai fini della identificazione di essa, i quali sono alternativamente integrati: (1) dalle “condizioni di lavoro”, (2) dall’“entità delle risorse umane, materiali e finanziarie concretamente disponibili in relazione ai casi da trattare”, (3) dal “contesto organizzativo in cui i fatti sono commessi” e (4) dal “minor grado di esperienza e di conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato”.

Ne scaturisce che, in chiave di applicazione della nuova disciplina della “colpa grave”, il vaglio giudiziale dovrà svolgersi investendo dapprima il profilo della dipendenza causale della condotta colposa del professionista sanitario da una (previamente accertata) situazione “di grave carenza di personale”, per poi riguardare, all’interno di un tale contesto, ai fini della catalogazione del grado della colpa, la ricorrenza di una delle (quattro) circostanze fattuali (ad elencazione, dunque, non cumulativa) rappresentate nella norma (art. 4, c. octies, già sopra citato), essa stessa dotata di efficacia causativa rispetto alla condotta non corretta osservata dall’agente.

Si tratterà, in ultima analisi, di operare una doppia verifica del nesso di derivazione, che ancora una volta non avrà ragione di discostarsi dalle cadenze dell’immarcescibile ed insuperato “giudizio prognostico-ipotetico di tipo controfattuale”; naturalmente trattandosi poi, all’esito positivo del riscontro delle dette correlazioni, di accertare che lo “scostamento” del comportamento praticato – rispetto ai livelli di adeguatezza (anche tecnica) della condotta pretesi dalla prescrizione cautelare violata – non sia assai elevato, sì da risultare ingiustificabile.

3.1. Al riguardo, valga ricordare come, da parte sua, la giurisprudenza di legittimità abbia ormai definito i parametri di valutazione del grado della colpa, comunemente identificandoli: (a) nella misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella alternativa doverosa (alias: nella gravità della violazione della regola cautelare), (b) nella misura del rimprovero personale, sulla base delle specifiche condizioni dell’agente, (c) nella motivazione della condotta (se osservata in urgenza/emergenza, o in situazione di elettività e routinarietà), (d) nella consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass., 4^: n. 22405/2015; n. 15258/2020; n. 9443/2023; n. 33370/2023).

Ma, nonostante la disponibilità di tali indici di riferimento, che certo agevolano ed orientano più precisamente il vaglio sullo spessore della colpa sanitaria, sembra ragionevole preconizzare che l’apprezzamento giudiziale sia comunque destinato ad essere presieduto da inestirpabili margini di discrezionalità tecnica (naturalmente da motivarsi), sia pure da esercitarsi nel necessario confronto con le peculiarità circostanziali della fattispecie concreta.

Può in ogni caso affermarsi (anche tenendo a mente gli enunciati della giurisprudenza contabile in materia di responsabilità erariale) che, all’interno dei richiamati canoni valutativi, il comportamento non corretto del professionista sanitario attinga il livello della colpa grave (non già sulla base degli effetti -più o meno gravemente lesivi- cagionati dalla condotta bensì dei tratti di quest’ultima: cfr. Cass., Sez. 4^, n. 15258/2020, ric. Agnello, bensì) quando risulti affetto da errori inescusabili, tali da denotare l’ignoranza dei principi elementari che regolano l’esercizio dell’attività sanitaria, ovvero da inadeguatezze grossolane e macroscopiche, che appaiano del tutto ingiustificabili, perchè nessun soggetto del medesimo livello professionale vi sarebbe incorso.

 

4. Il novum legislativo fornisce l’occasione per qualche rapida riflessione sullo stato dell’arte della giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione della colpa sanitaria in ambito penale, e ciò anche al fine di apprezzare in modo più congruo la effettiva misura della percentuale di innovatività da riconoscersi alle recenti disposizioni.

4.1. In tale prospettiva, è doveroso ricordare, in via generale, come, nell’approccio ai profili penali della responsabilità sanitaria, la Corte di Cassazione abbia assecondato, all’incirca sin dagli anni 2.000, un approccio ermeneutico assai diverso da quello (per sintesi: pro aegroto, ossia a – peraltro dichiarata – protezione del paziente, quale “soggetto debole del rapporto terapeutico, e, quindi, sostanzialmente, contra medicum) adottato nella sede civile (ove, come è noto, si è pervenuti ad elaborare, a partire dalla sentenza –della 3^ Sezione Civile – n. 589/1999, un vero e proprio sottosistema di principi, valido per la sola responsabilità medica, imperniato sull’istituto – non autoctono – del cd. contatto sociale e sulle relative implicazioni giuridiche – oggettivamente svantaggiose per la posizione del sanitario convenuto – in punto di ripartizione degli oneri probatori nel processo e di prescrizione dell’illecito).

I giudici di legittimità, in territorio penale, hanno infatti provveduto a rimuovere talune, pregresse, punte di eccessiva severità nel sindacato dell’operato del medico, approdando su posizioni più equanimi, nonché più convincenti sul piano giuridico.

4.2. Basti considerare la svolta sopravvenuta sui due punti-cardine (a) dell’accertamento della causalità omissiva (ridescritto, nel suo innovato protocollo di verifica, in termini di rassicurante garanzia probatoria fondata sulla certezza processuale, dalle notissime Sezioni Unite “Franzese” del 2002, vera e propria pietra angolare nella storia della responsabilità professionale medica, i cui principi di diritto tuttora guidano l’analisi giudiziale), e (b) della violazione della regola del consenso del paziente (ritenuta – dopo precedente di esorbitante rigore : Cass., Sez. 5^ su cd. caso “Massimo”, 1992, in cui si era addebitata la morte del paziente non informato a titolo di omicidio preterintenzionale – persino esente da rimprovero penale dalle Sezioni UniteGiulini” del 2008, che ha estromesso (per lo meno in via ordinaria) il trattamento medico-chirurgico eseguito senza consenso dalla classe dei delitti sia contro la vita e l’incolumità individuale, sia – a parte l’ipotesi della prevaricazione del rifiuto di cure espresso dal paziente maggiorenne e compos sui – contro la stessa libertà morale).

Può, in merito, incidentalmente rilevarsi che, in seguito, regolando la materia del consenso del paziente, lo stesso legislatore si è astenuto dal prevedere ipotesi di reato in relazione all’infrazione del principio del necessario consenso del paziente da parte del medico (cfr. legge n. 219/2017).

4.3. È poi noto come lo stesso profilo penale della colpa medica sia venuto progressivamente guadagnando regole di giudizio univocamente più favorevoli, che hanno superato i confini originariamente segnati, in tema di rilevanza della colpa grave, dalla (già citata) sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale (che, richiamando l’art. 2236 c.c., limitava l’applicazione di detto parametro alla sola colpa per imperizia e, peraltro, solo se consumata in contesti di speciale difficoltà tecnica della prestazione eseguita) e dalla successiva, conforme, linea interpretativa della Cassazione.

In tale chiave, vanno di certo considerate le previsioni della già citata legge Balduzzi (l. n. 189/2012, cfr. art. 3, co. 1), che si spingono persino a contemplare la depenalizzazione della “colpa lieve” del professionista sanitario che si sia “attenutoa linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma, anche e soprattutto, le applicazioni in melius, di esse, da parte dei Giudici di legittimità.

La Suprema Corte, infatti, non solo si è attestata nel senso di declinare – quale “colpa lieve” del medico – qualsiasi sua colpa “non grave” (con l’evidente assicurazione di spazi assai più ampi di irrilevanza penale del contegno colposo del sanitario rispetto alla littera ed alla voluntas legis: in quanto estesi sino a coprire ogni livello di colpa, anche non lieve, purché, appunto, non grave, alias plateale ed eclatante), ma è apparsa anche incline, dopo una iniziale lettura “restrittiva” (cfr. Cass. n. 11493/2013; Cass. n. 16944/2015; Cass. n. 26996/2015), ad estendere ben oltre il perimetro della imperizia la tipologia di colpa (lieve, rectius, non grave) divenuta penalmente lecita, sì da ricomprendervi la stessa negligenza e l’imprudenza (e ciò nei casi in cui le linee-guida contengano regole prescrittive di particolare attenzione e cura nello svolgimento di attività considerate “pericolose”, investendo esse “più la sfera dell’accuratezza” e cioè della prudenza e della diligenza “che quella dell’adeguatezza professionale, della prestazione”: cfr. Cass. 23283/2016, Cass. n.45527/2015, Cass. n. 47289/2014; si pensi, ad esemplificazione di siffatti contesti, alla “conta delle garze”, alle misure per la prevenzione di gesti autolesivi da parte dei pazienti ricoverati, alle procedure per la disinfezione, alle dimissioni dei pazienti, ecc.).

Tale deriva interpretativa esprime emblematicamente l’afflato di benevolenza e comprensione che viene alimentando l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità nel vaglio della colpa medica, in quanto si estende per la prima volta l’utilizzo del parametro della colpa grave (che, come già visto, il Giudice delle leggi prima, ed, a seguire, la Corte di Cassazione, avevano rigorosamente riservato all’area operativa dell’art. 2236 c.c., e quindi alla sola imperizia, purchè correlata a prestazioni tecniche assai complesse) anche rispetto ai vizi della negligenza e della imprudenza: e questo persino a prescindere (come accade del resto per la stessa imperizia) dalla ricorrenza del  requisito necessario (ai sensi della richiamata disposizione civilistica) della “speciale difficoltà” tecnica della prestazione sanitaria.

4.4. Ora, è ben vero che le norme appena evocate (la cui favorevolezza era stata accresciuta dalle – appena menzionate – magnanime posizioni giurisprudenziali) sono state espressamente rimosse dalla successiva legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017), la quale ha introdotto un nuovo regime di disciplina, complessivamente di minore vantaggiosità per la condizione penale del medico.

In esso, infatti, la “non punibilità” (e non più la irrilevanza penale, ex legge Balduzzi!) del contegno colposo del professionista sanitario è limitata alla presenza della sola imperizia (quale che ne sia però il livello) ed è inoltre condizionata ai due presupposti del (a) rispetto delle raccomandazioni previste (unicamente) dalle linee-guida cd. statuali (“come definite e pubblicate ai sensi di legge”), ovvero, in mancanza di queste, delle “buone pratiche clinico-assistenziali”, e (b) della “adeguatezza” di dette raccomandazionialle specificità del caso concreto”.

Al che si deve immediatamente aggiungere che i Giudici di legittimità hanno, con autorevole e sollecito intervento, provveduto a ridurre la prevista area di non punibilità, riservandola alle sole condotte non inficiate da imperizia grave, “tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico” (Sezioni Unite “Mariotti”, n. 8770/2018).

Può, in via parentetica, osservarsi in merito (al di là del dubbio che insorge sulla potestà della giurisdizione penale di ridimensionare spazi di “non punibilità” di previsione normativa, di fatto così ampliando il novero delle condotte punibili), come la scelta del legislatore del 2017 di mandare esente da punizione condotte affette da imperizia, a prescindere sia da coefficienti di (elevata) difficoltà tecnica della prestazione eseguita, sia dal grado del vizio (e, dunque, anche in caso di imperizia madornale, alias grave), si distaccasse nettamente dai criteri di valutazione di tale profilo della colpa  ormai sedimentati nel diritto vivente, a partire dagli enunciati della più volte ricordata sentenza n.166/1973 della Corte Costituzionale e dalla pluriannale applicazione di essi da parte della Corte di Cassazione (dapprima attraverso l’esplicito richiamo  del precetto dell’art. 2236 c.c., e, in prosieguo, come avviene nella stessa -citata- sentenza “Mariotti”, mediante il recupero del “nucleo di razionalità di giudizio” e della “regola di esperienza” insiti in tale disposizione).

Ma la circostanza di grande rilievo da segnalare è che le rilevate variazioni -“non migliorative”- dello status penale del medico (rispetto alle previsioni della “legge Balduzzi”) recate dalla “legge Gelli-Bianco” (come restrittivamente “rivisitata”, nella sua portata applicativa, dalla pronuncia “Mariotti”), risultano significativamente compensate dall’avvento di un percorso interpretativo di legittimità (che si delinea già assai prima dell’entrata in vigore della legge Balduzzi -2012- e poi si radica a cavallo e dopo di essa), che contiene una importante svolta verso criteri di giudizio della colpa sanitaria per imperizia improntati a maggiore equità e discernimento.

4.4.1. Sopravvengono -in effetti- decisioni della Cassazione in cui si afferma che il vaglio del giudice, da un lato (ed in aderenza all’indiscusso -ed antico- precetto secondo cui la colpa va accertata secondo giudizio ex ante ed in concreto, come sancito anche dalla richiamate Sezioni Unite “Mariotti” ed energicamente ribadito, tra le altre, da Cass., Sez. 5^, n. 46467/2022), debba tenere in conto il contesto circostanziale in cui il soggetto autore della prestazione lesiva si è trovato ad agire, dall’altro, (il vaglio medesimo) debba aprirsi all’apprezzamento del cd. “versante soggettivo” della colpa.

Lungo tale direttiva (che persegue la “colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente soggettivo, che richiede di ponderare le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi”: cfr. Cass., Sez. 4^, P.C. in proc. Di Lella, n. 4391/2012), diventano momenti indeclinabili dell’indagine giudiziale non soltanto la intervenuta violazione di una prescrizione cautelare (cd. componente oggettiva della colpa), bensì, anche, la effettiva rimproverabilità personale della condotta osservata dal sanitario, in quanto nella situazione in cui ha operato fosse realmente da lui esigibile la messa in atto del comportamento alternativo (doveroso) capace di salvaguardare l’interesse protetto, ossia la salute del paziente (cfr., per tale lettura, tra le altre più significative: Cass., Sez. 4^, sentt. n.: 39592/2007, ric. Buggè; 16328/2011, ric. Montalto; 16237/2013, ric. Cantore; 22281/2014, ric. Cavallaro; 23283/2016; ma poi, anche, n. 10396/2018, ric. Capuano; n. 15258/2020 ric. Agnello + 1).

Si ritrova affermato in tali pronunce ciò che la classe dei medici ha tradizionalmente rimproverato ai giudici di non considerare, e cioè che essi non operano in una campana di vetro, e vi si ritiene dovuta una “attenuazione dell’imputazione soggettiva” (e quindi un giudizio sul grado della colpa per imperizia ispirato a clemenza e larghezza di vedute) non soltanto nei casi di elevata difficoltà tecnica della prestazione da eseguire (per la ambiguità, l’atipicità, l’oscurità, la novità del quadro patologico del paziente), ma anche in relazione ad ogni fattore contingente capace di complicare la situazione in cui il sanitario viene ad operare : l’urgenza – e, tanto più, l’emergenza terapeutica  (“che intossica la prestazione e che, solitamente, rende quasi sempre difficili anche le cose facili”: Cass. P.C. in proc. Di Lella, cit.), la mancanza di presidi e di strumenti adeguati, la complessità ed il disagio organizzativi, le difficoltà di specifici settori di cura tra cui, in particolare, quello riferibile alla medicina psichiatrica, che presenta ampie zone ancora sottratte alla conoscenza scientifica); dovendo il giudicante tenere anche in conto (quali elementi di valutazione) il grado di esperienza ed il livello professionale del sanitario chiamato in causa e le sue stesse condizioni personali al momento dell’intervento (si vedano in particolare, per tutte, Cass., Sez. 4^: n. 16237/2013, n. 22281/2014, n.15258/2020, già citate); trattandosi di indicatori che vanno sottoposti “ad una valutazione complessiva, ponendo in bilanciamento anche fattori di segno contrario, che ben possono coesistere nell’ambito della fattispecie esaminata, non dissimilmente da quanto avviene in tema di concorso di circostanze” (Cass., Sez. 4^, n. 22281/2014, cit.).

Le stesse – più volte ricordate – Sezioni Unite “Mariotti” assecondano tale indirizzo interpretativo, evocando una valutazione giudiziale della gravità della imperizia che “esplori” tutte le ragioni circostanziali di complessità del caso concreto, di ordine tecnico o comunque legate al particolare contesto operativo; sicché esse richiamano gli indici parametrici dell’art. 2236 c.c. ed i cd. fattori contingenti appena menzionati, cui, anzi, aggiungono anche l’elemento delle “risorse disponibili”, che sembra introdurre un profilo di valutazione che, oltre ad investire la presenza “di presìdi adeguati”, rimanda anche ad aspetti di tipo finanziario, nelle precedenti decisioni di legittimità non considerati (anche se poi, deve dirsi, non pare disporsi in linea con la larghezza di vedute di tali enunciati il principio di diritto finale della pronuncia circa la delimitazione della causa di non punibilità alla sola ipotesi di errore nella trasposizione applicativa delle linee-guida (correttamente prescelte) e non anche nella selezione delle stesse o nella stessa preliminare, errata valutazione diagnostica, e questo pur nei casi in cui ricorrano contingenze di particolari difficoltà tecniche o operative).

Se così è, sembra davvero che i giudici di legittimità abbiano avviato un promettente percorso di lettura della colpa medica (meno rigoristico e più comprensivo) nel campo della imperizia, anche se, come si sa, è forte l’auspicio, in primis della dottrina penalistica, che esso venga esteso anche alle ipotesi della negligenza e della imprudenza (sia pure con specifico riferimento, e limitatamente, alle situazioni in cui il concreto perimetro circostanziale sia in grado di condizionare, riducendolo, il coefficiente necessario di attenzione, di accortezza, di impegno e di ponderatezza, alias di diligenza e di prudenza, esigibile dal professionista sanitario).

4.4.2. Alla luce delle proposizioni sin qui articolate, può pervenirsi a qualche riflessione conclusiva:

- il giudizio sul grado della colpa per imperizia si è affrancato, nel diritto vivente, dai limiti dettati dalla “regola di ponderazione” di cui all’art. 2236 c.c., secondo la quale “il prestatore d’opera risponde solo per colpa grave quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, risultandone ormai estesa l’applicazione ad ogni contesto operativo “turbato” e reso impervio da contingenze ambientali, oggettive  o soggettive, capaci di complicarlo, siccome individuate ed elencate (in formulazione esemplificativa) dalla giurisprudenza;

- nella prospettiva del cd. “versante soggettivo” della colpa, e quindi della personalizzazione del relativo rimprovero, le elevate complessità di tipo tecnico della prestazione e le impervietà del concreto contesto operativo (di tipo personale, gestionale o economico) non rappresentano solo le “piattaforme fattuali” sulle quali commisurare il grado della colpa, ma  costituiscono altresì fattori in base ai quali verificare la stessa ricorrenza della colpa (in tali termini, che paiono coerenti con la regola aurea – sopra ricordata – di un giudizio di colpa che deve avvenire in concreto, cfr. Cass. 4^, n.15258/2020, cit.);

- non può sfuggire come la (invalsa) storicizzazione del giudizio sulla colpa (e la correlata personalizzazione dell’addebito) interpellino criticamente la tradizionale teorica dell’agente modello (parametrata su di una entità astratta e decontestualizzata, ed inoltre pretensiva – dall’agente in concreto – “del massimo concepibile”), esigendo, nella misurazione del rimprovero di colpa (e nello stesso accertamento della colpa), il confronto con la effettiva possibilità dell’”autore fisico” (alias “in carne ed ossa”), nella particolare situazione circostanziale e personale in cui si è trovato ad agire, di adeguarsi a quel modello.

Del resto, nel senso che il modello di agente debba essere calato nella realtà effettuale in cui ha operato l’imputato, si è già più volte espressa la stessa Suprema Corte: cfr., tra le altre, Sez. 4^, n. 12175/2017, Mazzanti, e, specificamente in tema di responsabilità sanitaria, le già citate Sez. 4^, n. 15258/2020, Agnello e le Sezioni Unite “Mariotti” (2018), secondo le quali (ultime), nell’accertamento della colpa medica, debba sì tenersi conto dell’homo eiusdem condicionis ac professionis, ma per questi intendendosi “il modello di agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi”);

- come s’è più sopra visto, allo stato della analisi giurisprudenziale (ed a parte la – parentetica e già ricordata – ermeneutica benevola nell’ applicazione dei precetti della legge Balduzzi), è solo la colpa per imperizia che può beneficiare (ricorrendo i contesti condizionati “intossicati” – dalle complicanze esemplificate dai giudici di legittimità) di una valutazione conformata al criterio della colpa grave.

Sarebbe arduo negare che una tale chiave di lettura, che si diparte dai princìpi di diritto stabiliti dalla (varie volte evocata) sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale, risulti rispondente a ragionevolezza, apparendo invero equo ritenere che quando l’applicazione delle cd. leggi dell’arte medica (in cui si sostanzia la perizia) costituisca esercizio (per talune delle svariate ragioni, tecniche e non, di turbativa sopra segnalate) elevatamente difficile, essa meriti larghezza di vedute e comprensione presso il giudice penale: non si potrebbe in effetti pretendere, da tutti i “professionisti sanitari”, il “livello più alto” della bravura tecnica, sì da punirne ogni e qualsiasi errore, pur se lieve (solo perché “il medico più bravo del mondo” non l’avrebbe commesso); e sembra viceversa adeguato e giusto che, nei contesti di impervietà tecnico-operativa considerati, il sanitario sia assoggettato a rimprovero di colpa non per qualsiasi deficit di perizia, ma solo se risulti essere privo dei “fondamentali” della sua professione (che ogni altro sanitario del suo livello professionale possieda), e cioè quando si configuri una imperizia grave;

- per converso, ove la prestazione eseguita dal sanitario sia tecnicamente semplice ed agevole nella sua “routinarietà”, o si tratti di condotte affette da trascuratezza, disattenzione o ritardo, ovvero da superficialità, precipitosità o temerarietà (e dunque in presenza di deficitarietà espressive – rispettivamente – di negligenza o di imprudenza: che non potrebbero ritenersi tollerabili in un “professionista sanitario”, il cui imperativo categorico è proprio di porre -nella sua attività- il massimo dell’impegno dell’attenzione, dell’accuratezza, della tempestività, nonchè della ponderazione e della cautela), non possono non valere gli ordinari criteri di valutazione della colpa, che ne implicano la rilevanza al limite della levità.

Non troverebbero, infatti, logica giustificazione, in tali ipotesi, canoni valutativi ispirati a benevolenza o regole penali speciali di favore; altrimenti insorgendo serio dubbio sulla conformità alla Costituzione della disciplina di riferimento, con un forte rischio di scrutinio negativo del Giudice delle leggi:  specie alla luce dell’insegnamento da questi impartito (e reiteratamente citato), secondo il quale, solo in caso  di speciale difficoltà tecnica della prestazione -come sancito in relazione alla imperizia dall’art. 2236 c.c.- “la deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una adeguata ragione d’essere”, dovendo essere “l’indulgenza del magistrato direttamente proporzionata alla difficoltà del compito”;

- diversa fortuna dovrebbe fondatamente arridere, rispetto ad un vaglio della Consulta, ad una disciplina penale o ad una lettura giurisprudenziale che adottassero il canone valutativo della colpa grave rispetto ad ogni matrice della colpa allorchè (e purchè) commessa in situazioni connotate da contingenze soggettive ed oggettive (diverse da quelle di tipo tecnico considerate nell’art. 2236 c.c.) capaci di turbare assai rilevantemente (“intossicare”) la normale ed ordinaria regolarità dell’operato del sanitario.

In tali contesti, infatti, si verserebbe in ambiti ragionevolmente assimilabili a quello cui l’art. 2236 c.c. connette una valutazione di benevolenza per l’imperizia, sicchè non si disporrebbe in contrasto con la regola di ragionevolezza insita nell’art. 3 Cost. un trattamento penale che desse rilievo alla sola colpa grave;

-alla stregua di tali proposizioni, si dovrebbe ritenere esente da dubbio di costituzionalità la stessa recentissima normativa del 2024 (da cui hanno preso spunto le presenti note), introduttiva della menzionata regolamentazione di favore (applicabile ad ogni profilo di colpa ed anche indipendentemente dall’intralcio di complesse problematiche tecniche), quando la prestazione resa dal “professionista sanitario” sia stata condizionata e compromessa da un contesto di tipo emergenziale quale può considerarsi quello dipendente da “grave carenza di personale sanitario”;

- nella medesima prospettiva, dovrebbe egualmente sottrarsi a vizio di non conformità a Costituzione una (nuova) disciplina della colpa che, con riferimento allo svolgimento di un’attività sanitaria implicante elevate difficoltà operative (riconducibili all’ampia e varia matrice selezionata dalla giurisprudenza di legittimità), elevi a regola generale il principio della rilevanza penale della sola colpa grave, in quanto tale applicabile sia all’imperizia che all’imprudenza ed alla negligenza (tra loro, come si sa, di ardua decifrazione differenziale, pur dovendosi considerare l’imperizia la forma elettiva di colpa per il professionista, anche “sanitario”; alla quale peraltro, nei casi incerti, possono essere ricondotte gli altri due profili di colpa, in base al canone generale del favor rei: così Cass., 4^, n. 15258/2020 cit.).

Valga ricordare che sostanzialmente di tale tenore è la proposta di articolato del nuovo art. 590 sexies c.p. formulata dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (in essa viene individuata un indicatore di gravità della colpa, costituito da “una deviazione” dalle regole cautelari, di tipo generico o specifico, che risulti “particolarmente rilevante” e che abbia “creato un rischio irragionevole per la salute del paziente”).