1. Con una serie di disposizioni, contenute nel capo II del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 ("Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali"), il legislatore opportunamente interviene apportando modifiche alla disciplina della crisi d’impresa. Opzione appropriata, posto che gli effetti sull’economia – e, dunque, sul fattore economico essenziale: le imprese – della pandemia da Covid-19 hanno portata che, oggi di impervia e comunque azzardata determinazione per profondità, ampiezza e durata, sarebbe ingenuo non riconoscere come enormi. Sicché sarebbe stato irragionevole lasciare del tutto inalterati i meccanismi regolatori della crisi d’impresa – naturalmente modellati su una situazione di contesto ‘fisiologica’ – quando tale situazione è tanto radicalmente mutata, mutamento che per necessità si riflette sulle dinamiche della gestione della crisi.
Gli interventi, di cui tra breve si dirà, non riguardano direttamente norme penali, ma alcune delle previsioni interessate dalle modifiche finiscono con l’incidere su ambiti che costituiscono a loro volta scenari nei quali sono ambientate figure d’incriminazione (per la più considerevole parte: reati fallimentari).
Fra le disposizioni contenute nel ricordato Capo II (significativamente intitolato “Misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall’emergenza Covid-19”) si possono riconoscere previsioni come l’art. 5, che dispone il differimento al 1° settembre 2021 dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs 14/2019), altre (art. 10) che stabiliscono la improcedibilità temporanea dei ricorsi e delle richieste per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza, altre ancora (si vedano gli artt. 6, 7, 8 e 9) che intervengono su disposizioni del codice civile o della legge fallimentare, modificandone (anche in questi casi, temporaneamente) la disciplina per adattarla alla situazione contingente.
2. Principiando dall’art. 5, il differimento dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza dall’originario termine del 15 agosto 2020 al 1° settembre 2021 è opzione del tutto condivisibile in quanto risponde a molteplici esigenze, tutte razionalmente fondate.
Come noto, l’impianto e la struttura del Codice della crisi si regge sull’idea forte – radicalmente divergente da quella che informa la legge fallimentare nella sua originaria formulazione – che la situazione di crisi dell’impresa vada disciplinata secondo cadenze capaci di assicurare nella maniera più ampia il salvataggio dell’impresa come fattore economico essenziale. In questa prospettiva, nella quale il fallimento (per il Codice dell’impresa: la liquidazione giudiziale) diviene la ratio extrema, il nuovo sistema si articola in una serie di strumenti alternativi e procedure variamente modellate, la parte preponderante delle quali implicano interventi di ristrutturazione che, a loro volta, necessitano di investimenti anche finanziari. Condizioni, soprattutto queste ultime, che potrebbero far difetto in un tessuto economico colpito da una crisi gravissima. Sicché l’intero percorso risanatorio prefigurato secondo il modello del Codice rischierebbe di essere vanificato per fattori estranei alla condizione intrinseca dell’impresa.
Strettamente connessa all’esigenza qui sopra rappresentata vi è la considerazione che, in coerenza con l’opzione di fondo di gestire la crisi d’impresa in un’ottica non liquidatoria, è necessario cogliere i sintomi della crisi fin dal loro primo manifestarsi, in modo da assicurare le massime probabilità di successo dell’intervento risanatorio: in questo senso il Codice contempla un sistema di “misure di allerta”, destinato appunto a far emergere tempestivamente la crisi delle imprese. Sistema che si fonda su una serie di parametri e indicatori, concepiti ovviamente nell’ambito di un quadro economico stabile e caratterizzato da oscillazioni fisiologiche, al sorgere dei quali è collegata una serie consequenziale di obblighi e di interventi. Ma un simile impianto sconta non soltanto un contesto non patologicamente e gravemente alterato, ma anche che la situazione di crisi non abbia colpito la maggior parte delle imprese: diversamente, da un lato, i parametri e gli indicatori perderebbero la loro valenza selettiva e, dall’altro, gli strumenti d’intervento per superare la crisi finirebbero con l’essere quantitativamente inadeguati. Sicché potrebbe addirittura sortirne un effetto pernicioso.
Non deve poi sfuggire il rilievo che l’introduzione di una nuova disciplina (per di più: radicalmente innovativa rispetto a quella previgente) importa fisiologiche incertezze legate alle fasi di prima applicazione: ciò che è ragione da sola bastevole a sconsigliarne l’attuazione in una fase caratterizzata da criticità profonde, che richiedono un quadro normativo stabilizzato e sperimentato. Per altro verso, v’è da considerare che l’assetto originario della legge fallimentare ha conosciuto – a partire dalle riforme del 2005 – una serie di interventi che hanno introdotto procedure di gestione della crisi secondo modelli informati alla stessa opzione di fondo sulla quale è oggi organicamente strutturato il Codice della crisi: in questo senso le già sperimentate procedure ‘alternative’ al fallimento (piani attestati ex art. 67 l. fall., procedure e accordi di ristrutturazione, concordato preventivo) finiscono con l’essere strumenti più affidabili (tanto più che sono stati – come si vedrà – opportunamente ‘ritoccati’ per adeguarli alla straordinaria contingenza) rispetto a novità del tutto inedite.
Da ultimo, il differimento riesce opportuno non soltanto per una più meditata predisposizione del c.d. decreto correttivo, destinato ad apportare modifiche al Codice della crisi, sulla base di una serie di riflessioni critiche da più parti emerse, ma anche per rendere possibile la previsione di misure ulteriori, la eventuale revisione degli indici di allerta e di quant’altro si renda necessario per tener conto degli effetti di situazione economica al contorno profondamente mutata. D’altro canto, il tempo a venire prima dell’entrata in vigore permetterà l’adeguamento del Codice della crisi alla Direttiva UE 1023/2019 in materia di ristrutturazione preventiva delle imprese.
3. Con l’art. 10 co. 1 d.l. 23/2020 viene stabilita l’improcedibilità di “tutti i ricorsi ai sensi degli articoli 15 e 195” l. fall. nonché di quelli di cui all’art. 3 d.lgs 270/1999 “depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020”, mentre il secondo comma prevede che “nel periodo di cui al comma precedente sono sospesi i termini di cui all’articolo 69 bis” l. fall..
La disposizione ha, all’evidenza, natura eccezionale e temporanea e – stando alla relazione – sembra essenzialmente indirizzata a “sottrarre le imprese ai procedimenti finalizzati all’apertura del fallimento e di procedure anch’esse fondate sullo stato di insolvenza (…) per evitare di sottoporre il ceto imprenditoriale alla pressione crescente delle istanze di fallimento di terzi e per sottrarre gli stessi imprenditori alla drammatica scelta di presentare istanza di fallimento in proprio in un quadro in cui lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, con il correlato pericolo di dispersione del patrimonio produttivo, senza alcun correlato vantaggio per i creditori dato che la liquidazione dei beni avverrebbe in un mercato fortemente perturbato; dall’altro bloccare un altrimenti crescente flusso di istanze in una situazione in cui gli uffici giudiziari si trovano in fortissime difficoltà di funzionamento”.
Motivi del tutto plausibili, rispetto ai quali qualche notazione a margine è forse non inopportuna. La previsione ha portata generale, posto che non distingue se lo stato d’insolvenza sia collegato alla situazione derivante dalla pandemia ovvero se dipenda da fattori ad essa estranei: indipendentemente da qualunque considerazione in ordine alle difficoltà intrinseche di una valutazione differenziale di tal genere, non è chi non veda che una opzione normativa in tal senso avrebbe implicato accertamenti complessi e inutilmente macchinosi, del tutto incompatibili con la realtà dei Tribunali in questi delicatissimi momenti.
Ricordato che ne restano escluse le realtà imprenditoriali per le quali si applica la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese (d.l. 347/2003 conv. con modificazioni da l. 39/2004), merita d’essere segnalato che, concernendo la disposizione anche i ricorsi presentati in proprio dall’imprenditore, se da un lato essa permette una valutazione maggiormente meditata in ordine all’eventuale attivazione di procedure e strumenti alternativi per la soluzione della crisi, dall’altro l’ambito temporale in essa contemplato viene ex lege ‘sterilizzato’ rispetto alla valutazione del ritardo nella presentazione del ricorso e della conseguente responsabilità penale nell’ipotesi che tale ritardo abbia aggravato il dissesto (art. 217 co. 1 n. 4 l. fall. nonché art. 224 co. 1 n. 1 l. fall.).
La sospensione dei termini previsti dall’art. 69-bis l. fall. evita che l’improcedibilità (ancorché temporanea) possa avere effetti negativi sulla tutela della par condicio creditorum, in quanto sospende – nel periodo d’interesse – il decorso dei termini per la proposizione delle azioni revocatorie.
4. Anche l’art. 6 (Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale) ha natura temporanea ed eccezionale, limitata com’è la sua operatività all’ambito temporale compreso fra l’“entrata in vigore del presente decreto” e la “data del 31 dicembre 2020”. Per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro il 31.12.2020 non si applicano gli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, 2482-bis, commi 4, 5 e 6 e 2482-ter c.c. in materia di riduzione del capitale per perdite e di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale. Ricordato che per lo stesso periodo sono altresì inapplicabili gli artt. 2484 co. 1 n. 4, e 2545-duodecies c.c. che contemplano come causa di scioglimento della società la riduzione o la perdita del capitale sociale, l’intendimento della norma è evidente e condivisibile. L’eccezionalità della crisi economica derivante dalla pandemia finisce con il produrre conseguente a vasto raggio anche su imprese in precedenza in condizioni floride, conseguenze che potrebbero determinare perdite di capitale, ciò che imporrebbe la immediata messa in liquidazione della società. Si tratterebbe tuttavia di una perdita di capitale patologica, non espressiva della effettiva capacità e potenzialità dell’impresa e che rischierebbe di dover essere fronteggiata in un contesto di ben difficile reperimento di mezzi finanziari. Sicché la previsione del presente art. 6 d.l. 23/2020 scongiura l’anomala alternativa fra la menzionata messa in liquidazione (con tutte le deteriori conseguenze) e il rischio per gli amministratori di incorrere nella responsabilità per gestione non conservativa ex art. 2486 c.c. e di quelle penali in un’eventuale prospettiva fallimentare.
Non deve sfuggire infine che – opportunamente – rimane ferma la previsione in tema di informativa ai soci per le società per azioni (art. 2446 co. 1 c.c.), che garantisce ad un tempo trasparenza e controllabilità.
5. Di interesse notevole quanto stabilito dall’art. 7 co. 1 d.l. 23/2020 (Disposizioni temporanee sui principi di redazione del bilancio), secondo cui “nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci nella prospettiva della continuazione dell’attività di cui all’articolo 2423 bis, comma primo, n. 1), del codice civile può comunque essere operata se risulta sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020, fatta salva la previsione di cui all’articolo 106 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18”. Precisato che il richiamo all’art. 106 d.l. 18/2020 fa salva la proroga di sessanta giorni del termine per l’adozione dei rendiconti o dei bilanci d’esercizio relativi all’esercizio 2019, ordinariamente fissato al 30 aprile 2020, il ricordato primo comma prescrive altresì che “il criterio di valutazione è specificamente illustrato nella nota informativa anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente”, mentre il secondo comma della presente norma estende le disposizioni del primo comma anche ai bilanci chiusi entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati.
La temporaneità e la eccezionalità della disposizione – per vero evidenti – sono altresì strumentali alla delicata funzione che la stessa è chiamata a svolgere in relazione al tema essenziale della correttezza e della trasparenza della informazione societaria, notoriamente presidiata sul versante penale dagli artt. 2621 e segg. c.c.. La prospettiva della continuazione dell’attività (la c.d. continuità aziendale) è canone che informa e condiziona la valutazione di pressoché tutte le voci del bilancio, ma nel contesto attuale profondamente anomalo l’applicazione delle regole elaborate in relazione a contesti non drammaticamente patologici rischierebbe di imporre la redazione di bilanci per l’esercizio in corso nel 2020 secondo criteri deformati senza la possibilità di adottare l’ottica della continuità aziendale, con grave ricaduta sulla valutazione di tutte le voci.
Per ‘neutralizzare’ l’effetto contingentemente distorsivo della crisi straordinaria, la norma permette alle società che prima della crisi presentavano una regolare prospettiva di continuità di conservarla nella redazione dei bilanci degli esercizi in corso nel 2020, escludendo tuttavia quelle che tale prospettiva non avevano indipendentemente dalla crisi derivante dalla pandemia. Appena il caso di notare che per tal modo viene resa possibile l’approvazione tempestiva dei bilanci, assicurandone la essenziale funzione informativa in quanto le voci verranno apprezzate con riferimento alla situazione fisiologica precedente all’insorgere dell’emergenza. In questo senso merita sottolineatura l’espresso richiamo (ultimo alinea dell’art. 7 co. 1) che esige che tale criterio di valutazione sia “specificamente illustrato nella nota informativa anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente”. Più analiticamente può dirsi che la redazione e l’approvazione dei bilanci avvenga operando la valutazione delle voci secondo il principio della prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell'elemento dell'attivo o del passivo considerato di cui all’articolo 2423-bis, co. 1 n. 1 c.c. con riferimento alla situazione esistente al 23 febbraio 2020, e cioè alla data di entrata in vigore delle prime misure collegate all’emergenza (d.l. 6/2020, n. 6, conv. con modificazioni da l. 13/2020).
Come s’è poco sopra accennato, la presente disposizione finisce con lo spiegare i suoi riflessi anche sul versante penale, posto che incide sull’apprezzamento della ‘falsità’ del bilancio di cui si occupano gli artt.2621 e segg. c.c. e, – come è stato efficacemente e autorevolmente notato (il riferimento va a Cass. SS UU 31.3 - 27.5.2016, n. 22474, ric. Passarelli) – trattandosi di una ‘valutazione di valutazioni’, la presenza di uno specifico criterio per la considerazione di un parametro di tale sostanziale rilievo non può non svolgere un ruolo di portata essenziale.
Né deve sfuggire che anche nella prospettiva dei fatti di bancarotta contemplati dall’art. 223 co. 2 n. 1 l. fall. (che espressamente richiama le fattispecie delle false comunicazioni sociali), la norma in discorso potrà venire in considerazione.
6. L’art. 8 (Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società) muove dall’esigenza di agevolare il rifinanziamento delle imprese in forma societaria; in questo senso la disposizione – eccezionale e temporanea – prevede la non applicabilità degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., che contemplano meccanismi di postergazione dei finanziamenti effettuati dai soci o da chi esercita attività di direzione. Le predette norme mirano a prevenire indirettamente fenomeni di c.d. sottocapitalizzazione nominale (situazioni in cui la società dispone sicuramente dei mezzi per l'esercizio dell'impresa, ma questi sono in minima parte imputati a capitale, perché risultano per lo più concessi sotto forma di finanziamento). Nel contesto della straordinaria crisi derivante dalla pandemia è stata plausibilmente ritenuta controproducente la disciplina in discorso in un contesto nel quale invece un maggior coinvolgimento dei soci nell’accrescimento dei flussi di finanziamento si presenta opportuno. Non deve sfuggire che la deroga ha un ben preciso limite cronologico, posto che concerne i soli finanziamenti effettuati entro il 31 dicembre 2020.
7. L’art. 9 (Disposizioni in materia di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione) contempla una serie di interventi – tutti di portata temporale limitata – che riguardano le procedure di concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, quegli strumenti che, come s’è accennato in principio, l’attuale legge fallimentare prevede per la gestione della crisi d’impresa in una prospettiva non esclusivamente liquidatoria.
All’evidenza la situazione determinatasi a seguito della pandemia implica conseguenze che rischiano fortemente di compromettere le probabilità di successo degli strumenti di soluzione della crisi d’impresa, con ricadute potenziali sulla conservazione dei complessi imprenditoriali.
In sintesi estrema e senza addentrarci in un dettaglio eccentrico agli interessi ‘penalistici’, si possono così riassumere i principali interventi.
E’ qui bastevole ricordare che le procedure menzionate dall’art. 9 d.l. 23/2020 rientrano fra quelle considerate dall’art. 217-bis l. fall. nella loro funzione di “esenzioni dai reati di bancarotta” per avvedersi della rilevanza che la disciplina ‘temporanea’ per tal modo introdotta potrà avere anche in sede penale.