Una articolata normativa che stabilisce condizioni e procedure per l’esercizio di un “diritto” a ottenere la prestazione di un “aiuto a morire” in forma diretta o indiretta
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Le citazioni testuali tradotte dallo spagnolo, a cura dell’autore, sono qui riportate tra virgolette alte.
1. Il 18 marzo 2021 il Congresso dei Deputati, la Camera bassa del Parlamento spagnolo, ha definitivamente approvato, in seconda lettura, dopo gli emendamenti introdotti dal Senato, un atto normativo volto a disciplinare sotto molteplici aspetti le pratiche di eutanasia consensuale attiva in contesto medico-sanitario.
Si tratta di una c.d. legge organica, ossia lo strumento normativo che la Costituzione spagnola (art. 81) richiede per regolare materie di rilievo, tra cui lo “sviluppo dei diritti fondamentali” (c. 1), sottoponendone l’adozione a una maggioranza qualificata e a un iter rafforzato (c. 2).
I tratti salienti che caratterizzano la nuova legge e che permettono subito di comprenderne l’importanza sono (i) il riconoscimento espresso alla persona di un diritto a ricevere un aiuto a morire; (ii) una regolamentazione dettagliata delle condizioni sostanziali e procedurali per l’esercizio del diritto; (iii) la previsione dell’esonero da responsabilità penale per il professionista sanitario che nel rispetto di tali condizioni procura la morte altrui, causandola direttamente o cooperando con l’interessato.
La legge entrerà in vigore dopo tre mesi dalla pubblicazione nel Bollettino Ufficiale dello Stato, che al momento in cui si scrive non è ancora avvenuta.
2. Un interessante ed esteso preambolo riassume i termini della ‘questione eutanasia’ come vivente nel dibattito bioetico e penalistico spagnolo, che per molti profili riproduce schemi e riferimenti teorici familiari all’osservatore italiano. Premessa la distinzione tra eutanasia attiva, passiva e indiretta, vengono ricordate le ragioni alla base della crescente emersione del problema nella realtà sociale (l’aumento della vita media, il progresso della scienza e della tecnica, la secolarizzazione della società e la sensibilità per le istanze di autodeterminazione) e la necessità di ricercare un equilibrio tra contrapposti interessi, quali in particolare il diritto alla vita e la libertà individuale. Al tempo stesso è acquisita la consapevolezza circa l’impossibilità di offrire adeguata tutela agli interessi in gioco attraverso una mera depenalizzazione, che non contempli chiaramente presupposti e procedure tali da garantire una “assoluta libertà di scelta” dalle pressioni di più vario genere o anche solo da decisioni affrettate.
Per quanto riguarda il fondamento sostanziale della disciplina, che consente di ritenere meritevole di positiva considerazione la richiesta di morire, il legislatore evoca il diritto all’integrità fisica e morale della persona, il valore della dignità umana e della libertà personale, la libertà di pensiero e di coscienza nonché il diritto alla “privatezza”: quando l’individuo percepisce che questi diritti e valori sono vulnerati, come può accadere appunto nelle ipotesi che legittimano l’eutanasia («contexto eutanasico»), e sceglie di morire in piena capacità e libertà, il bene della vita si rivela recessivo “poiché non esiste un obbligo costituzionale di imporre o di tutelare la vita a ogni costo, anche contro la volontà del titolare”.
Sul piano più strettamente regolatorio, non è estranea all’intervento normativo la prospettiva comparatistica, richiamandosi brevemente i due modelli che alcuni Stati europei (non specificamente individuati) hanno finora adottato nel prevedere una qualche forma di regolazione dell’eutanasia: il modello che attribuisce rilievo alla finalità non egoistica dell’azione – caratteristico della Svizzera – e il modello imperniato su “requisiti e garanzie” – che potremmo definire ‘procedurale’ e associare ai classici esempi di Belgio, Olanda e Lussemburgo (e forse in linea di principio anche alla disciplina del nostro Paese, al netto della sua genesi peculiare).
È a questo secondo filone che intende dichiaratamente rifarsi il legislatore spagnolo, anche alla luce delle indicazioni ricavabili dalla Corte EDU (in particolare, dalla sentenza Gross del 2013) circa l’importanza, una volta riconosciuta la liceità dell’eutanasia, di un quadro normativo chiaro e preciso quanto a modalità di attuazione delle pratiche ammesse.
3. La parte dispositiva della legge organica si apre (art. 1, c. 1-2) con l’enunciazione degli ambiti oggetto dell’intervento normativo, ispirato a un approccio globale e integrato alla materia: non solo il diritto della persona interessata e le sue modalità di esercizio, ma anche gli obblighi del personale sanitario e i doveri di amministrazioni e istituzioni, coessenziali all’effettività del diritto.
4. L’art. 4 sancisce, con formula solenne, “il diritto di ciascuna persona […] di chiedere e ottenere la prestazione di aiuto a morire”.
Conviene subito chiarire come l’azione con cui si forniscono i mezzi necessari alla morte debba sempre essere compiuta da personale sanitario e possa realizzarsi in una duplice forma (cfr. art. 3, lett. g): la prestazione può infatti consistere nella somministrazione diretta di una sostanza oppure nella prescrizione o messa a disposizione di una sostanza che la persona provvederà ad auto-somministrarsi.
Se ne evince che, in linea con quanto affermato nel preambolo, ambito di operatività della disciplina è l’intero insieme delle condotte che, dal punto di vista fenomenologico e assiologico, si è soliti ricondurre alla eutanasia (consensuale) c.d. attiva, in quanto la morte vede come antecedente necessario la condotta attiva di un terzo o, più precisamente, concretizza un fattore causale introdotto dal terzo; vengono quindi in rilievo fatti che, secondo la tipizzazione del nostro codice penale, andrebbero a configurare non solo il delitto di aiuto al suicidio (art. 580), ma anche di omicidio del consenziente in forma commissiva (art. 579).
Dal punto di vista dell’ambito soggettivo di applicazione della disciplina (art. 5 c. 1 lett. a), il diritto è riconosciuto e garantito, nei termini che vedremo, alle sole persone maggiori di età che presentano un nesso qualificato con la Spagna (nazionalità, residenza o permanenza legalmente riconosciuta per un periodo superiore a dodici mesi).
Esso sorge al ricorrere di due condizioni specifiche, che il legislatore provvede a descrivere analiticamente.
a) Una “affezione grave, cronica e invalidante” (art. 3 lett. b): vi rientrano le limitazioni “che incidono direttamente sull’autonomia fisica e sulle attività della vita quotidiana” di intensità tale “da impedire alla persona di badare a sé stessa”, nonché sulle “capacità di espressione e relazione”; in aggiunta, si richiede che tale condizione sia associata “una sofferenza fisica o psichica costante e intollerabile” e che vi sia quantomeno una “grande probabilità” che le limitazioni siano destinate “a perdurare nel tempo senza possibilità di cura o di apprezzabile miglioramento”.
Il legislatore sembra così prendere in considerazione anche situazioni di generica non autosufficienza, che a prescindere da una precisa connotazione nosografica impongono alla persona di avvalersi della assistenza altrui anche per i bisogni e le attività più elementari. Si dà quindi rilevanza ai casi che la Corte d’assise di Massa nel caso Trentini aveva ritenuto riconducibili in via analogica alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale”, trattandosi pur sempre di ipotesi di indispensabilità di un supporto esterno – umano e non meccanico – per la sopravvivenza. E tale conclusione è avvalorata dalla precisazione del legislatore spagnolo per cui le situazioni considerate solo “eventualmente” («en ocasiones»: letteralmente “a volte”) possono comportare “la dipendenza assoluta da supporti tecnologici”.
Mentre resta da chiarire il ruolo delle limitazioni che colpiscono le “capacità di espressione e relazione” – se debba ritenersi ipotesi autonoma o requisito atto a circoscrivere ulteriormente un’unica fattispecie – occorre sottolineare la necessarietà di una valutazione in ordine al dolore che tali situazioni causano alla persona: e a questo proposito pare significativa la clausola, frutto di un emendamento del Senato, in forza della quale si esplicita che la sofferenza deve risultare intollerabile “per chi la patisce”, alla stregua dunque di un metro prettamente soggettivo.
b) Una “infermità grave e incurabile” (art. 3 lett. c): consiste in uno stato patologico (non specificamente qualificato) che “per sua natura è fonte di sofferenze fisiche o psichiche costanti e insopportabili”, connotato dalla mancanza di una “possibilità di sollievo che la persona consideri tollerabile” e da una “aspettativa di vita limitata, in un contesto di fragilità progressiva”.
Questa ipotesi condivide con quella che precede la centralità della sofferenza nel legittimare, agli occhi del legislatore, e nel motivare, a livello individuale, la scelta di morire, che si presenta appunto come unico modo – o, in questo caso, come unico modo accettabile – per liberarsi dal dolore.
L’autonomia della fattispecie si coglie invece considerando che la legge consente di prescindere dall’esistenza di condizioni invalidanti (di ‘dipendenza’, per evocare la nozione nostrana), e in sostituzione richiede una prognosi infausta e dunque la letalità della patologia sottostante.
Di particolare interesse risulta l’inciso finale della definizione normativa: il “contesto di fragilità progressiva” potrebbe rafforzare l’idea che la condizione in esame legittimi la richiesta di aiuto a morire in caso di patologie cronico-degenerative (ad es. di tipo neurologico o neuro-muscolare, ma si pensi anche a un tumore maligno dal decorso inarrestabile) anche se intercettate in uno stadio precoce, a prescindere dall’attualità di un decadimento fisico tale da richiedere sostegni esterni (meccanici o umani). Sembra invece indispensabile l’attualità della sofferenza – che però, come visto, ben può essere anche “psichica”.
5. Una disciplina specifica è dedicata alle modalità di manifestazione della volontà di richiedere un aiuto a morire.
Detto che il consenso legittimante si caratterizza per essere libero e informato (come definito dall’art. 3 lett. a), alla verifica di tali presupposti è prevalentemente finalizzato un articolato procedimento, che fin dal suo avvio pone anche a carico del paziente alcuni oneri formali (art. 5 c. 1 lett. c).
Devono infatti essere formulate due richieste a distanza di almeno quindici giorni l’una dall’altra – con possibilità di derogarvi, ammettendo un intervallo più breve, nei casi di imminente perdita della capacità di intendere e di volere.
Ciascuna richiesta (art. 6) deve essere contenuta in un documento scritto datato e firmato dal paziente o espressa attraverso un altro mezzo comunque idoneo a registrare in modo inequivoco la provenienza e la data dell’atto. Oltre a tale seconda modalità equipollente è ammessa anche la sostituzione meramente materiale da parte di un terzo nella redazione del documento, nel caso in cui le condizioni del richiedente gli rendano impossibile provvedere in prima persona (senza però alterare, evidentemente, la capacità di prestare un valido consenso: può pensarsi a ipotesi di menomazioni o disturbi del movimento a base neurologica). In ogni caso è necessario che alla sottoscrizione assista un professionista sanitario (non sembra che debba necessariamente trattarsi di un medico).
Il consenso informato dovrà essere nuovamente prestato prima di ricevere la prestazione di aiuto a morire: qui il legislatore non richiede una formalità particolare, ma è necessario che esso sia comunque documentato, come evidente dalla previsione che impone di includere anche tale manifestazione di volontà – al pari delle precedenti – nella cartella clinica del paziente (art. 5 c. 1 lett. e).
È fatta salva la possibilità, fino all’ultimo momento, di revocare il consenso o di ottenere un rinvio.
6. La legge contempla poi anche l’ipotesi in cui il paziente, per incapacità naturale, non sia in grado di esprimere un valido consenso.
A differenza della disciplina italiana, in cui manca tuttora un coordinamento delle ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio con il sistema delle disposizioni anticipate di trattamento di cui all’art. 4 della l. 219/2017 (la Corte costituzionale ha richiamato solo le modalità di manifestazione e verifica del consenso di cui agli artt. 1 e 2), il legislatore spagnolo (art. 5 c. 2) ammette che i documenti aventi valore di “testamento biologico” o equipollente possano contenere anche istruzioni in tema di eutanasia.
In tal caso non troveranno applicazione i requisiti formali e procedurali visti in precedenza per la richiesta. Qualora il paziente abbia espresso la volontà di ottenere l’aiuto a morire, una richiesta dovrà comunque essere presentata, ma vi potrà provvedere una persona maggiorenne e pienamente capace (senza particolari limitazioni soggettive) oppure, in mancanza, il medico curante (art. 6 c. 4).
7. Una parte consistente della legge regola la fase del procedimento successivo alla (doppia) richiesta, che cercheremo di riassumere evidenziandone i principali passaggi.
Un ruolo centrale per tutto il corso della procedura spetta alla figura del “medico responsabile” (art. 3 lett. d): questi, sebbene senza sostituirsi alle competenze dei colleghi chiamati a dare il proprio apporto professionale specialistico, svolge compiti di coordinamento e soprattutto si presenta quale “interlocutore principale del paziente” per tutte le questioni burocratiche e terapeutiche. In altri termini, sembra che il legislatore abbia voluto dare al procedimento non solo un riferimento sicuro sul piano organizzativo, ma anche un ‘volto umano’, per scongiurare i ben noti timori di spersonalizzazione connessi a una gestione medicalizzata e procedurale della fase terminale della vita.
Il medico responsabile è il destinatario della richiesta del paziente e a lui spetta anche il compito di provvedere a una prima valutazione circa la sussistenza dei requisiti per ottenere la prestazione di aiuto a morire.
A questo punto si prospetta un’alternativa.
Entro dieci giorni dalla prima richiesta (art. 7), il medico può respingere la domanda per carenze formali o per mancanza di legittimazione dell’istante (che non rientra tra le categorie soggettive viste sopra o non versa nelle condizioni di salute previste) ed è tenuto a comunicare al paziente una motivazione scritta del rigetto. Chi ha presentato l’istanza – quindi il paziente o, nei casi eccezionali di cui si è detto, anche un terzo – può presentare reclamo entro quindici giorni a un organo apposito (v. infra).
Qualora invece alla luce della prima richiesta ritenga soddisfatti i requisiti sostanziali e formali della richiesta (art. 8), entro un termine brevissimo (due giorni) il medico responsabile è chiamato a incontrare il paziente per dar vita a un «proceso deliberativo» (c. 1). La locuzione sembra compendiare l’auspicio del legislatore che il formarsi della decisione risponda tanto a un principio di progressività quanto di collaborazione; il tutto in nome della massima consapevolezza del paziente, con il quale il medico dovrà discutere della diagnosi, delle alternative terapeutiche (compresa i piani integrati di cure palliative offerti dal servizio pubblico) e dei risultati che da queste ci si può attendere, assicurandosi che tali informazioni siano comprensibili e disponibili anche in forma scritta.
Una volta ricevuta anche la seconda richiesta (c. 2), entro un termine parimenti breve dovrà svolgersi un nuovo incontro, in cui il medico è tenuto a “riprendere” il processo deliberativo. Con l’uso del verbo «retomar» si dà l’idea di un canale comunicativo costantemente aperto, più che di una somma di atti separati: e in effetti, a marcare questa continuità, il nuovo incontro dovrà essere dedicato ai dubbi e alle richieste di informazioni ulteriori che nel paziente possano essere sorte dopo la presentazione della richiesta.
Dopodiché il paziente ha a disposizione un ulteriore spatium deliberandi di ventiquattro ore (c. 3): in caso di conferma della domanda, il medico dovrà darne comunicazione all’équipe sanitaria con cui gestisce il caso e, se il paziente lo richiede, anche ai familiari, e il consenso informato dovrà essere nuovamente manifestato per iscritto.
Giunti a questo stadio, si aprono due sub-procedimenti in sequenza.
7.1. Il primo prevede l’intervento di un “medico consulente”, ossia un professionista specializzato nel campo delle patologie da cui è affetto il paziente ed estraneo all’équipe del medico responsabile (art. 3 lett. g). Questi, entro dieci giorni dalla seconda richiesta, dovrà redigere una relazione in ordine alla presenza dei requisiti sostanziali e formali che legittimano la richiesta, dopo aver studiato la documentazione clinica e dopo aver visitato il paziente (art. 8 c. 3: il testo della legge parla di «examinar», senza ulteriori specifiche, ma sembra di potervi leggere senza difficoltà la necessità di un vero e proprio esame obiettivo di persona).
Evidente la finalità del legislatore di fornire una garanzia aggiuntiva attraverso la previsione di una classica ipotesi di ‘second opinion’, munita dei caratteri della competenza specialistica e della indipendenza.
A riprova della sua importanza, il parere del “medico consulente” non solo è obbligatorio, ma può avere anche efficacia vincolante, perché se la conclusione è negativa la procedura subisce una battuta d’arresto (art. 8 c. 4), salva la possibilità per il paziente di proporre ricorso a un apposito organo (v. infra).
Se invece il controllo del medico consulente ha esito positivo, spetta al medico responsabile dare impulso al secondo sub-procedimento.
7.2. Questo prevede il coinvolgimento di un organo collegiale che la legge stessa provvede a istituire: la Commissione di garanzia e valutazione (di seguito, per brevità, la Commissione).
La composizione e i compiti della Commissione trovano una disciplina puntuale rispettivamente agli artt. 17 e 18. In sintesi, segnaliamo che si tratta in realtà di un organo amministrativo a base territoriale, poiché ne esisterà uno per ciascuna Comunità autonoma (entità di governo locale assimilabile, almeno per estensione, alle nostre Regioni). Sebbene la concreta regolamentazione venga demandata dalla legge ai Governi autonomi, viene stabilito un numero minimo di sette membri di provenienza multidisciplinare, tra cui necessariamente professionisti sanitari (medici ma anche infermieri) e giuristi.
Le funzioni svolte dalla Commissione hanno anzitutto natura giustiziale, operando alla stregua di organo di ricorso al quale, come visto, il paziente può presentare reclamo in caso di provvedimenti sfavorevoli nel corso del procedimento (fermo che per le decisioni della Commissione stessa si prevede espressamente la possibilità di impugnazione in sede giurisdizionale); a ciò si aggiungono un ruolo consultivo e un ruolo di monitoraggio in ordine alle questioni che possono sorgere nella attuazione della disciplina, la cui valutazione dovrà essere oggetto di una relazione pubblica annuale (a sua volta destinata a confluire in una comunicazione annuale del Ministero della Salute).
Come accennato, però, il compito principale della Commissione consiste nella partecipazione alla fase istruttoria nel procedimento avviato dalla richiesta del paziente e nella titolarità esclusiva della fase decisoria finale (art. 10).
In particolare, laddove sia il medico responsabile sia il medico consulente abbiano dato parere favorevole, il procedimento prosegue presso la Commissione, che in questi casi opera nella persona di due membri – un professionista sanitario e un giurista – cui sono affidate tutte le attività di verifica necessarie, a partire dall’analisi della documentazione clinica ma potenzialmente estese anche a colloqui con l’équipe medica che segue il paziente e con il paziente stesso.
La valutazione deve essere completata entro sette giorni, all’esito dei quali viene reso un nuovo parere: se favorevole, esso vale come determinazione conclusiva ai fini della autorizzazione dell’eutanasia; in caso di parere negativo o di dissenso tra i due membri sono previsti meccanismi di risoluzione del conflitto interni alla Commissione (con possibilità di ricorso all’autorità giudiziaria avverso il diniego, comunque espresso).
8. Il parere positivo, tempestivamente trasmesso al medico responsabile, consente di avviare la procedura per l’effettiva realizzazione della prestazione di aiuto a morire (art. 11), la cui concreta definizione negli aspetti di dettaglio è rimessa a protocolli da elaborarsi a cura di un organo di coordinamento tra le autonomie territoriali.
La delicatezza del momento induce il legislatore a valorizzare anche in questo frangente l’autodeterminazione individuale, non solo in negativo – potendo fino all’ultimo momento revocarsi il consenso – ma anche in positivo, poiché se il paziente è ancora cosciente avrà facoltà di indicare le modalità con cui desidera ricevere l’aiuto a morire. Pare naturale ritenere che la scelta debba mantenersi nei limiti legali (e che quindi, ad esempio, la morte debba realizzarsi pur sempre per via farmacologica), ma per il resto sembrerebbe consentito al paziente cambiare idea sulla preferenza tra eutanasia diretta o indiretta oppure regolare aspetti organizzativi concreti (ad es. un particolare orario o la presenza di persone nella stanza).
La legge per questa fase – verosimilmente destinata a essere regolata più dall’empatia che dal diritto – si limita a stabilire alcuni doveri generali del personale medico, differenziandoli a seconda della forma di eutanasia: in caso di somministrazione diretta, si stabilisce il dovere di “assistere” il paziente fino al momento del decesso; in caso di auto-somministrazione, l’équipe è chiamata a svolgere un ruolo “di osservazione e supporto”.
Non è prevista dalla legge alcuna forma di registrazione video della prestazione, ma non può escludersi che anche questo aspetto sia oggetto di regolazione da parte dei protocolli sopra citati.
Una tra le “disposizioni aggiuntive” di chiusura stabilisce peraltro che la morte che si verifica all’esito della procedura ha il “valore legale di morte naturale a ogni effetto”.
All’esito del procedimento, il medico responsabile è tenuto a un’ultima comunicazione rivolta alla Commissione. Dovranno essere redatti due documenti distinti (art. 12), uno contenente i dati identificativi del paziente e degli altri soggetti che sono intervenuti (tra cui medico responsabile e medico consultore), e uno contenente, in forma anonima, informazioni relative alle condizioni di salute del paziente e al consenso da questi espresso, allo svolgimento della procedura (comprese le modalità concrete della prestazione di aiuto a morire) e persino alla formazione del medico consulente.
I due documenti sono strumentali all’esercizio dei compiti di controllo affidati alla Commissione, sia in termini di sorveglianza generale sull’attuazione della legge sia di verifica della sua corretta applicazione nel caso concreto, cui si dovrà procedere nel termine di due mesi, eventualmente chiedendo integrazioni al medico responsabile (art. 18 lett. b). Si apprezza qui, sotto il profilo della tutela dei dati personali, la creazione di due documenti separati: solo in caso di dubbio sarà possibile accedere alle informazioni in grado di identificare il paziente per disporre ulteriori approfondimenti.
9. Un apposito Capo della legge si occupa della “garanzia dell’accesso alla prestazione di aiuto a morire”: una serie di questioni tutt’altro che secondarie, in grado di incidere sulla effettività del diritto riconosciuto al paziente.
In primo luogo, sul piano strettamente amministrativo e di contabilità pubblica (art. 13), la prestazione di aiuto a morire viene inclusa nella “carta dei servizi comuni”, in particolare tra i servizi coperti per intero dal finanziamento pubblico, e in capo alle strutture del sistema sanitario pubblico viene previsto un dovere di organizzarsi per assicurare il rispetto della legge.
Nondimeno, si ammette (art. 14) che la prestazione di aiuto a morire possa avvenire anche presso strutture private o a domicilio.
Da segnalare infine l’espressa attribuzione di un “diritto alla obiezione di coscienza” in capo al personale sanitario coinvolto nel procedimento, che dovrà esercitarlo “anticipatamente e per iscritto” (art. 16). Le dichiarazioni così rese dovranno essere conservate in uno speciale registro che – in quanto riservato – non sembra rappresentare una misura sanzionatoria dissimulata né una forma di pressione sociale, bensì uno strumento funzionale al dovere organizzativo delle strutture sanitarie (imposto dall’art. 14) di garantire comunque, nonostante le obiezioni di coscienza, accesso alla prestazione e qualità assistenziale.
10. È inserita tra le disposizioni transitorie e finali la modifica della disciplina penalistica rilevante.
A questo proposito viene in considerazione l’art. 143 del codice penale, che nei suoi quattro commi contempla tre diverse figure di reato una ipotesi di portata trasversale: la fattispecie di istigazione al suicidio (c. 1) è autonoma e punita più severamente rispetto alla fattispecie di aiuto al suicidio (c. 2), a sua volta distinta nel trattamento sanzionatorio dall’omicidio del consenziente (c. 3, integrato quando la “cooperazione” arriva al punto in cui diventa “esecuzione” rispetto all’evento morte); il c. 4 prevede una pena ridotta in misura differenziata qualora le condotte di cui ai c. 2 e 3 sono poste consensualmente pietatis causa, in essere “su richiesta esplicita, seria e inequivoca” di un soggetto (che il codice chiama “vittima”) la quale soffra di una malattia mortale o versi in una condizione di dolore cronico e difficile da sopportare.
Ora la nuova legge interviene con una duplice modifica.
In primo luogo, riforma il comma 4, individuando come circostanze legittimanti la riduzione di pena situazioni di fatto corrispondenti a quelle che possono giustificare la richiesta di aiuto al suicidio (“affezione grave, cronica e invalidante o una infermità grave e incurabile, con sofferenze fisiche o psichiche costanti e insopportabili”); interessante segnalare che nella nuova versione scompare – opportunamente – il termine “vittima”, sostituito da “persona”.
La novità più significativa consiste però nella introduzione di un comma 5, che, derogando espressamente alla disposizione che precede, stabilisce che “non incorrerà in responsabilità penale chi causa o coopera attivamente alla morte di un’altra persona in conformità alle previsioni della legge organica che disciplina l’eutanasia”. Evidente quindi come anche la “non punibilità” spagnola abbia un ancoraggio procedurale, posto che a parità di condizioni sostanziali la condotta di aiuto a morire potrebbe essere comunque sanzionata (sia pure con pena più mite).
La stessa legge organica (seconda disposizione aggiuntiva) peraltro fa espressamente salve le responsabilità che a diverso titolo – civile, penale amministrativo o disciplinare – potrebbero configurarsi, anche in capo agli enti, per violazione delle prescrizioni ivi contenute.
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11. È appena il caso di ribadire come la materia che qui si affronta non solo sia fortemente divisiva, ma imponga a ogni aspirante regolatore una miriade di scelte opinabili, sia in ordine alle questioni di fondo – l’ammissibilità di forme di somministrazione diretta del farmaco letale – sia per quanto concerne aspetti (apparentemente) minori o di dettaglio – l’esatta definizione dei requisiti che consentono di accedere alla prestazione, la scansione delle fasi della procedura o l’abilitazione delle strutture private.
Posta tale premessa, la legge in esame non può che meritare apprezzamento per il tentativo di elaborare un modello di disciplina in sé coerente e organico, oltre che animato, come si è cercato di evidenziare, da preoccupazioni e principi comuni anche alla riflessione italiana, che senza dubbio potrà beneficiare di un nuovo termine di paragone normativo; ma pur sempre di un modello si tratta, tra i molti possibili, forse perfettibile ma senza dubbio discutibile a seconda delle opzioni ‘politiche’ dell’interprete o, più semplicemente, del cittadino.
Per questo motivo, ripercorrere a volte pedissequamente le tappe del procedimento ci è sembrato prima di tutto – a prescindere dalle soluzioni di merito di volta in volta individuate dal legislatore spagnolo – un esercizio assai utile per toccare con mano e avvalorare alcune considerazioni di metodo che nel dibattito interno vengono talora date per scontate e, come tali, sottovalutate.
In primo luogo, dinanzi alla mole e alla complessità dei diciotto articoli e delle tredici disposizioni aggiuntive, transitorie e finali della legge spagnola, si può meglio comprendere il compito immane e, di conseguenza, la posizione di impotenza con cui si è trovata a fare i conti la Corte costituzionale al momento di pronunciare l’ordinanza 207/2018, quando, una volta rilevata l’illegittimità della disciplina vigente, ha ritenuto necessario tentare almeno un rinvio della decisione nella speranza che fosse il Parlamento a compiere i «delicati bilanciamenti» necessari.
Senonché, come noto, il legislatore non è intervenuto e il ruolo di supplenza è infine stato svolto giocoforza dalla stessa Corte costituzionale, tramite una sentenza dal contenuto dispositivo peculiare, che nel dichiarare l’illegittimità parziale di una norma incriminatrice, presenta visibili innesti di tipo ‘regolatorio’ – necessariamente scarni ed essenziali.
Al che però segue a ruota la seconda considerazione: il confronto della disciplina di risulta vigente nel nostro Paese con la legge spagnola dimostra con tutta evidenza che in termini di regolamentazione del fenomeno in Italia è possibile fare molto di più. Non si tratta di un rilievo che investe l’operato della Corte costituzionale, che al netto di alcuni profili critici ha comunque voluto offrire al paziente una forma minima di tutela, prima compressa dalla assolutezza del precetto penale; è piuttosto l’ennesimo monito, indiretto ma assai eloquente, rivolto al soggetto istituzionale competente a disciplinare la materia, cioè ancora una volta il Parlamento.
D’altra parte, ove si consideri in modo globale la normativa italiana in materia di fine vita è possibile cogliere alcuni appigli normativi promettenti, soprattutto valorizzando – come già suggerito dalla Corte costituzionale – il fatto di avere a già disposizione come punto di partenza la l. 219/2017. Alcuni passi in avanti nella disciplina dell’eutanasia attiva, con risultati che ci avvicinerebbero parzialmente a modelli di regolazione completa come quello spagnolo, potrebbe essere compiuti con uno sforzo ridotto, tramite un’opera di coordinamento o comunque estendendo in alcuni punti la portata precettiva della l. 219: per fare un esempio, si pensi al problema della compatibilità tra la prestazione di aiuto a morire e le dichiarazioni anticipate di trattamento, con le quali già oggi può essere richiesta l’eutanasia ‘passiva’, esprimendo ora per allora il rifiuto di cure salva-vita.
Tuttavia, a febbraio 2021 il quadro più completo disponibile delle proposte di legge pendenti non risulta confortante, considerato che solo una parte di esse risultano in corso di esame in commissione e che la seduta più recente si è svolta, se non erriamo, il 29 ottobre 2020.
Certo lo stallo politico che ha anticipato e accompagnato la crisi di governo di gennaio-febbraio non ha giovato ai lavori parlamentari, e si potrebbe anche sostenere che la campagna vaccinale e le misure di sostegno dell’economia debbano in questa fase assorbire le principali energie delle istituzioni. Anche da questo punto di vista si rivela interessante guardare a quanto recentemente accaduto in Spagna, dove nella stessa seduta il Congresso dei Deputati ha approvato, oltre a quella in esame, anche una legge di conversione di un decreto contente misure di contrasto al covid-19, offrendo una dimostrazione pratica del fatto che anche la gestione dell’emergenza (o meglio, della crisi) sanitaria e l’attività legislativa in tema di diritti civili possono talora coesistere.