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09 Maggio 2023


Prove di stabilizzazione interpretativa del peculato per spese di rappresentanza in una importante pronuncia della Cassazione

Cass. Sez. VI, sent. 17 novembre 2022 (dep. 16 marzo 2023), n. 11341, Pres. Fidelbo, rel. Tripiccione, Di Geronimo



1. Il peculato torna a occupare un posto di rilievo nella giurisprudenza della corte di cassazione. Con diverse ragguardevoli pronunce, la Suprema Corte ha promosso, negli ultimi anni – coerentemente con la valorizzazione dei più diretti corollari del principio di stretta legalità operata dalla recente giurisprudenza costituzionale[1] – indirizzi interpretativi che hanno saputo restringere il campo di una fattispecie che rischia di avere applicazioni particolarmente estese – in taluni casi cripto-analogiche – se non accompagnata dal ricorso a filtri ermeneutici che investono sia gli elementi costitutivi, sia le sue ricadute probatorie, in questo modo preservando un assetto di stabilità e di prevedibilità[2].

Questa impostazione caratterizza anche la sentenza in commento[3], nella quale i giudici di legittimità fanno ancora una volta dialogare con sapienza la dimensione empirica del fatto, lo statuto della prova e la ricostruzione giuridica della fattispecie legale. Essa – è bene metterlo in rilievo – sembra inserirsi felicemente nel filone che ha visto impegnata, negli ultimi anni, la sesta sezione, caratterizzato dal recupero di una dimensione di sempre maggiore tassatività sul terreno dell’interpretazione delle norme dello statuto penale della p.a. (si fa riferimento, in particolare, alle pronunce che hanno interessato i delitti di corruzione, di turbativa d’asta e abuso d’ufficio).

La decisione si lascia apprezzare, al netto della chiarezza e linearità espositiva e della ricchezza dell’analisi, per la capacità di fissare principi di diritto e protocolli probatori differenziati in rapporto alle diversità casistiche delle vicende giudicate. Nella specie, si era riproposto il tema della rilevanza penale della appropriazione, o indebito conseguimento, delle cd. spese di rappresentanza. L’importanza della pronuncia sta nel fatto che, in parte, consolida – come si è detto – indirizzi interpretativi sviluppati di recente e, dall’altra, spazza via una certa confusione interpretativa che aveva interessato la sotto-fattispecie anche ora considerata, quella, per l’appunto, delle spese di rappresentanza. Meritevole di segnalazione, inoltre, è l’impegno profuso dai giudici di legittimità a ‘vivisezionare’ le caratteristiche del fatto storico, al fine, innanzitutto, di prevenire il ricorso a precedenti non adatti alla species facti e, di conseguenza, di comprendere quale disciplina penale applicare[4].

Per queste ragioni, la sentenza in commento si candida a fungere da vero e proprio vademecum per l’interprete che si approcci al tema.

 

2. La sentenza in epigrafe si pronuncia sulla vexata quaestio della rilevanza penale dell’uso dei fondi nella disponibilità dei gruppi consiliari regionali.

Al vaglio della cassazione erano pervenuti i ricorsi di trentasei imputati, consiglieri regionali della Lombardia, contro la sentenza della corte d’appello che aveva confermato la configurabilità del peculato per i fatti loro contestati, pronunciando condanna per quelli commessi tra il 2009 e il 2012 e dichiarando il non doversi procedere per prescrizione per le condotte di epoca precedente.

I giudici del merito avevano ritenuto integrata la distrazione a fini appropriativi di fondi messi a disposizione dei vari gruppi consiliari per consentire l’espletamento del mandato da parte dei consiglieri, rispetto ad operazioni di spesa di varia natura, talune dall’incontestabile connotazione privatistica – quali quelle connesse all’acquisto di sigarette, gratta e vinci, caramelle e beni voluttuari di diverso genere – e, perciò, “ontologicamente incompatibili” con le finalità istituzionali del mandato; altre riguardanti esborsi dalla natura “ambivalente”, poiché la loro legittimità è strettamente connessa alle peculiarità della situazione (si pensi a quelle per ristoranti o spese di viaggio).

La differenza di queste tipologie di spesa assume portata significativa nella motivazione della sentenza annotata, allorché il supremo collegio costruisce rispetto ad esse un distinto regime probatorio.

Posta innanzi ad articolate doglianze difensive che investivano l’inquadramento giuridico dei fatti, i giudici di legittimità adottano un proficuo metodo di scomposizione analitica delle vicende riflesso nella divisione in paragrafi della motivazione – distinguendo, innanzitutto, le posizioni dei consiglieri regionali dai presidenti dei loro gruppi. A tale differenziazione, obliterata dalle decisioni di merito sulla base di un discorso di omologazione fattuale e giuridica di tutte le figure, la sentenza attribuisce importanza risolutiva per l’individuazione della fattispecie entro cui sussumere i fatti.

Dall’attento studio della disciplina regionale della gestione dei fondi assegnati ai gruppi consiliari, la Cassazione ricava che i singoli consiglieri non ne avevano la diretta disponibilità, in quanto potevano accedervi solo attraverso il meccanismo del rimborso, autorizzato dal presidente del gruppo previa verifica della inerenza delle spese alle finalità del mandato da parte della struttura deputata alla contabilità amministrativa. Nella scia dell’indirizzo inaugurato dalla sentenza Bernardini[5], la Suprema Corte ribadisce come nei confronti dei consiglieri regionali non sia configurabile il delitto di peculato, a causa dell’assenza di un requisito del suo tipo costituito dalla disponibilità delle somme di denaro.

Diversa la soluzione relativa al ruolo dei presidenti dei gruppi, gli unici, insieme ai tesorieri, a disporre dei fondi. Nei loro confronti, pertanto, è senz’altro ravvisabile una responsabilità a titolo di peculato, anche nei casi nei quali l’erogazione indebita avvenga in favore di terzi. In questi casi, per giungere ad una affermazione di responsabilità ai sensi dell’art. 314 c.p., il focus si sposta sia sul concetto di spesa di rappresentanza, già oggetto di apprezzabili sforzi di tassativizzazione da parte del giudice della nomofilachia, sia sulle ricadute probatorie della sua esclusione: ove, infatti, dovesse accertarsi che la spesa si collochi all’esterno del perimetro semantico di quella nozione – e, di conseguenza, all’esterno di un’area immunizzata da illiceità penale – emerge il problema di definire il regime della sua prova in giudizio. Anche rispetto a questo profilo, la risposta della Corte è in continuità con il suo pregresso orientamento espresso in re Marino[6].

Nei confronti dei consiglieri, la Cassazione riqualifica l’imputazione di peculato nel sensibilmente meno grave delitto di indebita percezione di erogazione ai danni dello Stato (art. 316-ter c.p.) e annulla senza rinvio la sentenza di condanna per intervenuta prescrizione; nei confronti dei presidenti dei gruppi e dei consiglieri concorrenti nel peculato, la Corte, invece, annulla con rinvio la pronuncia di appello, censurandone il metodo di accertamento utilizzato dai giudici del merito. Questi avevano aggirato l’onere di prova a carico dell’accusa, sostanzialmente gravando gli imputati del compito di dimostrare la compatibilità delle spese contestate con il regime di scopo dei fondi nella disponibilità dei gruppi, secondo un’impostazione che era invalsa nella giurisprudenza di legittimità antecedente alla sentenza Marino.

L’approccio chirurgico praticato dalla Corte nell’analisi della vicenda è risultato decisivo per una valutazione dei fatti secondo il diritto. Così, la vicenda in esame ben evidenzia l’imperatività del paradigma di reato quale illecito di modalità di lesione, ove una diversa ricostruzione dei profili di fatto ne muta la prospettiva offensiva con il conseguente inquadramento in una differente fattispecie legale. Nel peculato, che appartiene alla categoria di illeciti da usurpazione unilaterale del rapporto tra l’originario proprietario e il bene, il disvalore ruota, infatti, attorno al concetto di cosa[7]: mancando quella “relazione cosale” costitutiva dell’appropriazione[8], la sotto-fattispecie del rimborso indebito mai avrebbe potuto integrare peculato. Diversamente, il meccanismo del rimborso richiama una dinamica di cooperazione necessaria della vittima, di natura, anche minimamente, decettiva, ove l’attenzione offensiva si concentra sul danno perpetrato al soggetto passivo. La disponibilità, così ragionando, fa da presupposto logico al tipo criminoso della appropriazione, poiché rappresenta il pre-requisito individuato dal legislatore per aggredire in quel modo (rectius, attraverso quelle modalità) il bene tutelato, che, in via immediata, è costituito dal patrimonio della p.a., e, in via mediata, anche da suoi profili funzionali[9]. Nel caso del peculato per spese di rappresentanza, questi ultimi sembrano peraltro colorarsi di ulteriori sfumature di tutela, offerte dalle funzioni di rappresentanza che intersecano l’essenza della democrazia rappresentativa.

 

3. Il procedimento deciso in sede di legittimità dalla sentenza in commento offre il quadro delle contrapposte visioni giurisprudenziali del rapporto tra peculato e spese di rappresentanza.

La Corte d’appello aveva ravvisato l’elemento della disponibilità dei fondi in capo ai singoli consiglieri regionali, rifacendosi all’argomento del pregresso indirizzo di legittimità secondo cui quei soggetti, allorché presentano un’autocertificazione alla struttura amministrativa del gruppo che agisce quale ufficio di tesoreria, vanno qualificati come “ordinatori di spesa”. In questi casi, la relazione con la cosa viene fatto coincidere con una presunta “disponibilità mediata del fondo”[10] (§7.3).

La Suprema Corte censura il carattere analogico di tale ragionamento. Innanzitutto, essa rileva che l’indirizzo interpretativo assunto a “precedente” si era formato su una diversa tipologia di casi, nella quale i fondi venivano assegnati ab origine ai consiglieri regionali, che dunque ne avevano la disponibilità[11].

In secondo luogo, la Cassazione specifica che il requisito del possesso, rilevante per l’integrazione della disponibilità, deve tradursi nel potere di attribuire in autonomia una diversa destinazione alla cosa. In altre parole, la disponibilità coincide con il potere di firma, che nel caso giudicato spettava solo ai presidenti dei gruppi (§§7.4 e 7.5)[12], al contrario dei singoli consiglieri i quali, ai sensi dell’art. 2, comma 4, l.  17/1992, potevano inoltrare con cadenza mensile istanze di rimborso, “adeguatamente documentate”. Solo dopo una prima verifica dell’ufficio amministrativo del gruppo, il presidente ne autorizzava l’erogazione.

Analogamente a quanto statuito nel caso Bernardini – vero e proprio turning point in materia – la sentenza esclude che l’eventuale assenza dei controlli, conforme ad una prassi interna, e da cui poteva ricavarsi la certezza del rimborso, equivarrebbe a prova della disponibilità, poiché questo trasformerebbe la prassi interna sui controlli preventivi un fatto costitutivo la disponibilità giuridica (§7.5), con la creazione di “una figura ibrida di disponibilità giuridica, in cui il rapporto tra il pubblico agente e la res non è diretto, ma «mediato» da un terzo”, costituito dal presidente del gruppo (§7.5, p. 38). Peraltro, questa impostazione non avrebbe potuto essere seguita nel caso di specie, essendo emerso come non tutte le richieste fossero state accolte.

Secondo la Corte, il consigliere, più che un “ordinatore di spesa”, è un creditore, la cui posizione è “condizionata” all’espletamento di controlli (§7.5).

La tesi sostenuta dalle sentenze di merito determinerebbe una situazione inaccettabile anche per la ragione che la configurabilità del peculato, figura monosoggettiva che concentra il proprio disvalore sull’usurpazione unilaterale del pubblico agente, dipenderebbe dall’intervento di un terzo estraneo alla dinamica descritta dalla fattispecie. Ad uscirne sacrificato – sottolinea la Corte – sarebbero “il principio di tassatività e il divieto di analogia nell’interpretazione dell’art. 314 c.p.” (§7.5, p. 39).

 

4. L’esito del ragionamento che scardina la tesi del peculato consiste – è bene ricordarlo perché si tratta di un passaggio importante nell’economia della sentenza – nella riqualificazione dei fatti nel delitto di cui all’art. 316-ter c.p. (§8). Rivalutata la vicenda in termini (para)truffaldini, i giudici di legittimità propendono per questa alternativa, preferendola a quella della truffa aggravata, considerando che “l’erogazione risulta conseguita senza alcuna induzione in errore da parte della competente struttura amministrativa, sulla base di un’istanza corredata da documentazione inadeguata a giustificare la spesa sostenuta ed approfittando delle maglie larghe dei controlli che avrebbero dovuto essere espletati sull’inerenza delle spese al funzionamento del gruppo o alle attività di comunicazione ed informazione” (§8, p. 41)[13]. Il frammento di condotta descritta dall’art. 316-ter c.p., reato a forma vincolata, che la Corte ritiene integrato sembra, dunque, essere quello della “omissione di informazioni dovute”, non necessariamente fornito di capacità decettiva degli uffici contabili.

La scelta di ripiegare sull’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato porta i giudici della sesta sezione ad affrontare il tema della soglia di punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 316-ter c.p., che configura un illecito amministrativo quando “la somma indebitamente percepita è pari o inferiore ad euro 3.999.96”[14].

Questa formulazione normativa ha dato luogo a problemi interpretativi nelle ipotesi in cui l’erogazione di denaro avesse ad oggetto la somma di diverse voci di spesa, che determinava il superamento della soglia. In altre parole, il punto focale riguardava il dubbio se il perimetro di fattispecie potesse dipendere da ragioni di comodità contabile. Tale questione è sorta in merito alla riscossione dei cd. bonus cultura: se incassati singolarmente, l’indebita percezione sarebbe stata sanzionata a titolo di illecito amministrativo; qualora l’esercente avesse chiesto il rimborso, in unica soluzione, del prezzo di molti crediti, in quantità tali da superare la soglia, la condotta avrebbe integrato il delitto. Rispetto a questa ipotesi, la Cassazione, superando un suo precedente[15], ha affermato che “è irrilevante che il beneficiario consegua in momenti diversi contributi che, sommati tra loro, determinerebbero il superamento della soglia, in quanto rileva il solo conseguimento della somma corrispondente ad ogni singola condotta percettiva”[16].

Anche nella vicenda dei consiglieri regionali in oggetto, avrebbe potuto trovare seguito questo schema argomentativo, in relazione ai rimborsi che risultassero dalla somma complessiva di diverse spese. I giudici di legittimità ritengono, tuttavia, che “la questione vada risolta considerando che le richieste di rimborso e la conseguente percezione delle erogazioni avveniva su base mensile e, quindi, non deve tenersi conto delle singole spese – il più delle volte di minima entità – bensì del totale mensile indicato dai consiglieri, posto che l’indebita percezione era riferita all’ammontare mensile frutto della sommatoria delle singole spese” (§8.2, p. 42).

 

5. Le osservazioni qui svolte rispetto alla disponibilità diretta dei fondi da parte dei consiglieri regionali non aderiscono alla posizione dei presidenti dei gruppi consiliari per i quali legittimamente può configurarsi una responsabilità a titolo di peculato. La Corte ricorda che “i presidenti dei gruppi erano coloro cui competeva la disponibilità diretta delle somme stanziate per il funzionamento dei gruppi, ne consegue che l’utilizzo di tali risorse per finalità diverse da quelle previste dalle leggi regionali integra necessariamente il delitto di peculato” e, di conseguenza, “analoga fattispecie è configurabile nei confronti dei singoli consiglieri che, sottoscrivendo il documento contabile posto a fondamento delle richieste di rimborso materialmente presentate dal capogruppo, hanno posto in essere il presupposto fattuale necessario per la successiva commissione del reato di peculato” (§9.1, p. 43)

L’attenzione si sposta, dunque, dal requisito della disponibilità alla verifica dell’idoneità delle richieste di rimborso ad essere soddisfatte, in virtù della loro appartenenza o meno al concetto di spese di rappresentanza. Soprattutto al fine di valutare l’inerenza delle spese alle funzioni istituzionali, la Corte compie un penetrante esame della disciplina regionale di settore, giungendo a censurare le argomentazioni della Corte d’appello che aveva limitato la nozione alle sole spese sostenute in occasioni di eventi ufficiali di rappresentanza esterna (dell’ente o del gruppo), escludendo quelle connesse all’attività politica del singolo consigliere. I giudici del merito, così, sembrano condividere l’indirizzo della sesta sezione che, nell’ottica di contenere il concetto di spese di rappresentanza, lo hanno circoscritto agli esborsi destinati “alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente che le sostiene, strumentali a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico ovvero aventi il fine di accrescere il prestigio della sua immagine e la diffusione delle relative attività istituzionali”[17]. Tale indirizzo, che resta – è opportuno sottolinearlo – un imprescindibile punto di partenza in una materia deficitaria di chiare e affidabili indicazioni normative, segna il solo confine semantico esterno della perifrasi. Quest’ultima, infatti, deve essere integrata dalle prescrizioni poste dalla normativa regionale, pena l’apertura di un conflitto tra disposizione amministrativa e norma penale. È indubbio che la sotto-fattispecie del peculato per spese di rappresentanza necessiti della eterointegrazione (in senso ampio) con la disciplina regionale per definire il nucleo di disvalore del tipo appropriativo, poichè, priva di quel riferimento, la formula normativa dell’art. 314 c.p. cessa di svolgere una funzione selettiva.

Consapevole della difficoltà di ricostruire una relativa nozione adatta ad ogni situazione, la Suprema Corte assembla le diverse previsioni in materia, distribuite tra fonti di diverso rango. Essa ricorda, allora, che l’art. 2-ter l. 34/1972 ammette le spese “al fine di assicurare l’espletamento del mandato consiliare”, con cui si fa indubbio riferimento al mandato del singolo e, dunque, alle attività individuali dello stesso, purché rientranti tra le finalità dell’ente regionale ma non tra quelle del partito. Così, risultano ammessi, ad esempio, incontri dei consiglieri con le comunità territoriali per “attività di informazione e comunicazione” (§12); che l’art. 1, lett. b), del Regolamento 19 giugno 2001, stabilisce la rimborsabilità delle spese di formazione, aggiornamento, consulenze esterne, rappresentanza, divulgazione ed accesso alle nuove tecnologie sostenute dai consiglieri per l’espletamento del mandato; che l’art. 1, comma 2-bis, l. 17/1992 consente ai singoli consiglieri di organizzare attività di informazione e comunicazione in proprio e che l’art. 2 detta un elenco esemplificativo e non tassativo – come si desume dalla clausola di chiusura ad analogia esplicita – delle iniziative che vi rientrerebbero, tra cui l’organizzazione di convegni, conferenze stampa, pubblicazione di articoli, nonché progetti editoriali vari.

Sulla scorta di un simile quadro normativo, la Corte ha ritenuto che i consiglieri ricorrenti ben avessero potuto svolgere attività in autonomia, chiudendo il problema interpretativo relativo al tipo di attività svolta.

Sul punto, è opportuno osservare come la drastica riduzione della nozione di spese di rappresentanza sia foriera di ulteriori e notevoli conseguenze – indirettamente legate agli aspetti della responsabilità penale – che attengono al rischio di un chilling effect dei diritti sottostanti. Nel caso di specie, a risultare pregiudicata sarebbe la funzione di rappresentanza, che coincide con il core business del nostro sistema democratico: quanto più si restringe il campo semantico delle “spese di rappresentanza”, limitandola ai soli eventi del gruppo o dell’ente, tanto più aumenta il rischio che il singolo consigliere si astenga da quelle attività di “informazione e comunicazione” necessarie a rendere più forte il collegamento con il territorio. Ciò avverrebbe, peraltro, nell’ambito di un sistema elettorale incardinato sul rapporto diretto tra i singoli candidati/consiglieri e il corpo elettorale.

 

6. Logicamente connessa a quest’ultimo aspetto è la questione della natura delle spese rimborsabili, cui si accompagna il tema della prova delle condotte appropriative. In soccorso giunge un limpido orientamento che distingue tra “spese ontologicamente incompatibili” con la funzione istituzionale e “spese ambivalenti”, cioè astrattamente compatibili con il mandato consiliare.

La Corte mette sin da subito al bando il metodo di accertamento della responsabilità seguito dalla sentenza d’appello, smascherando “una vera e propria inversione dell’onere della prova”. I giudici di secondo grado si erano conformati ad un pregresso filone ermeneutico di legittimità[18], in forza del quale si riteneva che integrasse il delitto di peculato anche la mancata puntuale giustificazione dell’impiego dei fondi (§10). Secondo questo assunto, “tutte le spese per le quali non emergesse ictu oculi la compatibilità con le finalità istituzionali, devono essere imputate a titolo di peculato”, poiché “sarebbe onere della difesa allegare la documentazione giustificativa delle spese, in presenza di elementi significativamente idonei a corroborare sul piano logico l’ipotesi accusatoria” (§10.1, p. 46). Tale modo di argomentare – osserva la Corte – introduceva una presunzione di appropriazione dei fondi in caso di mera irregolarità contabile, che, quando assoluta, può avere una valenza altamente significativa dell’utilizzo indebito del denaro, ma di per sé non è in grado di provarne la strumentalizzazione ai fini privati. Così, come anticipato, questa impostazione è stata superata già con la sentenza Marino, in cui si afferma come sia onere dell’accusa provare anche le “infinite voci di spesa minimali”, posto che “nel processo penale l’imputato può rimanere anche totalmente inerte, eventualmente confidando nell’incompleta o insufficiente prova dell’accusa”, in ossequio al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che fa ricadere sull’accusa le conseguenze di un claudicante compendio probatorio (§10.1, p. 46).

La Cassazione critica altresì il metodo di valutazione probatoria praticato dalla Corte d’appello, che aveva elevato al rango di prova diretta dei semplici elementi indiziari, quali, ad esempio, il tipo di esercizio commerciale dove era stata effettuata la spesa. I giudici di legittimità ribadiscono che se è vero che la prova indiziaria trova spazio solo per le spese ontologicamente incompatibili[19], essa non è per questo bandita del tutto anche nel caso delle spese ambivalenti. Il limite è rappresentato dall’insufficienza dei soli elementi indiziari e, naturalmente, dal divieto di surrettizie inversioni dell’onere probatorio. Ai fini della costruzione dell’impianto accusatorio – chiarisce la Corte – occorre, inoltre, evitare una sovrapposizione di piani tra giudizio erariale e giudizio penale: una spesa non rimborsabile per contrarietà a regole di bilancio che dia luogo a responsabilità erariale può non essere incompatibile con le finalità istituzionali dell’ente e, per questo, può legittimamente restare fuori dall’ambito di illiceità penale (§12.1). Nella medesima ottica, si pone l’affermazione secondo cui il giudice penale può valutare la congruità della spesa, escludendosi però ogni automatismo tra la sua eccessività e la relativa natura privata[20].

Così – conclude la Corte – “nel caso in cui la natura ambivalente della spesa non consenta di affermare, in termini di certezza, che la stessa non era ricollegata ad alcuna delle molteplici attività consentite dalla normativa regionale, non potrà che prendersi atto del mancato raggiungimento della prova del reato, a prescindere dal fatto che l’imputato abbia o meno offerto giustificazione della causale della spesa” (§12.2, p. 55).

 

6.1. La cassazione contesta un’ulteriore violazione in tema di prova. Essa consiste nel fatto che sin dal primo grado agli imputati è stato sostanzialmente impedito di fornire elementi a discarico, con grave pregiudizio del diritto di difesa. La pronuncia d’appello aveva confermato l’ordinanza di rigetto del tribunale relativa alla ammissione di testi rilevanti per la difesa. Ad avviso dei giudici di appello, i ricorrenti avrebbero dovuto eccepire la nullità del provvedimento in udienza immediatamente dopo la sua lettura, piuttosto che dedurla con l’atto di impugnazione. La Suprema Corte censura la decisione, osservando che il principio della sanatoria della nullità di ordine generale non eccepita in udienza era stato affermato in giurisprudenza in rapporto alla diversa ipotesi di esclusione di testi già ammessi (§10.2).

In questo modo, la Cassazione ristabilisce la legalità processuale violata, riconoscendo la correttezza della scelta degli imputati di impugnare l’ordinanza unitamente alla sentenza, dal momento che “l’impugnazione concerneva il merito della decisione di rigetto e le sue conseguenze sull’accertamento della penale responsabilità” (§10.3, p. 48).

 

7. La sentenza in commento aggiunge un tassello importante nella stabilizzazione ermeneutica di un caso tipologico, quello del peculato per spese di rappresentanza, che da sempre ha scoperto il fianco a controversie interpretative. L’obiettivo viene raggiunto dalla sentenza esaminata dando continuità alle affermazioni contenute nelle decisioni Marino e in Bernardini.

Rispetto alle condivisibili motivazioni che hanno sorretto le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di legittimità, restano taluni dubbi relativi alla ricomprensione dei fatti nel delitto di cui all’art. 316-ter c.p.

Una prima questione riguarda l’individuazione del riferimento contabile cui ancorare l’erogazione punibile: la richiesta mensile di rimborso, ottenuta dalla sommatoria di molte voci di spesa, ovvero la singola transazione. Il punto appare importante poiché alla sua soluzione è legato il rischio di sperequazioni casistiche che potrebbero aprire le porte ad una vera e propria regionalizzazione della fattispecie, laddove, ad esempio, una normativa regionale non obblighi al rendiconto mensile ma consenta di avanzare richieste liberamente. In quest’ultima situazione, nella quale la tipicità del fatto discende dalla scelta contabile, il consigliere regionale potrà sfuggire alle maglie della punibilità presentando richieste di rimborso aventi ad oggetto singole transazioni, per un importo inferiore alla soglia di punibilità.

Un secondo problema potrebbe riguardare la tipicità stessa del delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. La Corte di legittimità fonda l’integrazione di questa fattispecie sull’“omissione di informazioni dovute” da cui deriva causalmente l’erogazione del rimborso. Si verifica spesso, tuttavia, che la normativa regionale non contempli particolari doveri di rendicontazione, ritenendo sufficiente allegare la documentazione fiscale o contabile che attesti la spesa. Il rischio, niente affatto peregrino in queste ipotesi, è quello della processualizzazione di una tipicità postuma, dal momento che sarà il giudice a configurare, ex post, i doveri informativi del consigliere la cui violazione assuma carattere punibile in quanto dotata di rilevanza, seppur minima, decettiva.

Nella vicenda dei consiglieri regionali lombardi, la richiesta di rimborso veniva filtrata da controlli della struttura contabile e, successivamente, dall’autorizzazione del presidente del gruppo. La presenza di questi meccanismi di verifica – come sottolineato dalla Suprema Corte – non sempre portava all’approvazione del rimborso, certificando l’effettività degli stessi, laddove sembra che l’art. 316-ter c.p. faccia riferimento a ipotesi in cui tali controlli manchino e l’erogazione venga fatta de plano. Ciò significa che, sulla scia delle Sezioni Unite in tema di confini tra indebita percezione e truffa aggravata[21], la decisione di accogliere la richiesta di rimborso potrebbe essere espressione dell’inganno indotto da istanze fraudolente, con conseguente applicabilità della truffa aggravata.

Un’altra fattispecie che, in questa intricata rete normativa, potrebbe scendere in campo quale valida alternativa, potrebbe forse essere quella negletta del peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.).

Tale disposizione incriminatrice, anch’essa costruita sul modello della cooperazione necessaria della vittima, punisce la condotta della ricezione indebita, “per sé o per un terzo”, di “denaro o altra utilità”, connotata dalla nota modale del giovamento dell’errore altrui. Ai fini del suo perfezionamento, la cassazione ritiene che l’errore “deve cadere sull’an o sul quantum debeatur, poiché il disvalore penalmente rilevante va individuato nella “disonestà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che viene meno al suo dovere di non accettare denaro o cose che gli siano consegnate per errore, o a quello di restituirle subito dopo essersi avveduto dell’errore”[22]. Quanto alla connotazione modale della condotta, la giurisprudenza della cassazione è nel senso che deve trattarsi di “un errore preesistente”. In rapporto alle vicende dei consiglieri regionali, esso potrebbe rinvenirsi nell’esistenza di una prassi di generosa concessione dei rimborsi a causa di controlli colpevolmente superficiali o neghittosi da parte degli uffici amministrativi. Questa diversa riqualificazione dei fatti – è opportuno chiarirlo – potrebbe avere luogo nel caso di istanza di rimborso priva di una caratterizzazione mendace/ingannatoria, ma avente ad oggetto una spesa non rimborsabile o anche solo dalla dubbia rimborsabilità. Come si è visto, infatti, ad essere indeterminato è sovente il concetto stesso di spesa di rappresentanza: questa, se costituente oggetto di una richiesta di rimborso senza artifici o raggiri, non può certamente rappresentare il mezzo attraverso cui si inganna chi eroga il contributo, poiché costituirebbe, al più, l’esito (l’evento) della truffa.

Così ragionando, si darebbe luogo ad una costruzione differenziata del caso tipologico in esame, distribuita su quattro piani: i) quello del peculato, in caso di disponibilità del denaro da parte del soggetto qualificato; ii) quello della indebita percezione/truffa aggravata, nell’ipotesi di istanza di rimborso dalla portata (para)decettiva; iii) quello del peculato mediante profitto dell’errore altrui, laddove attraverso la richiesta il consigliere non intenda ingannare la struttura contabile, ma voglia sfruttare prassi consolidate di lassismo nei controlli; iv) infine, quello della responsabilità erariale, l’unico realmente in grado di sindacare l’opportunità delle spese.

Quest’ultima osservazione, in conclusione, intende semplicemente aprire uno spazio di dialogo problematico, essendo la materia esposta ad un labirinto di soluzioni. Al contempo, si è altrettanto consapevoli che sarà la forza normativa dei fatti ad incidere significativamente nella soluzione dei singoli casi.

 

 

 

[1] Su questi recenti orientamenti della giurisprudenza della Consulta, rappresentati in particolare dalle sentenze 115 del 2018, 24 del 2019 e 98 del 2021, cfr. V. Manes, Sui vincoli costituzionali dell’interpretazione in materia penale (a margine della recente giurisprudenza della Consulta), in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2021, pp. 1233 ss.;

[2] Mette in evidenza questi aspetti, per tutti F. Palazzo, Legalità penale vs. creatività giudiziale, in Riv. It. dir. Proc. Pen., 3/2022, pp. 975 ss.

[3] Su cui, già L. Ferrarella, Per i consiglieri del Pirellone il rimborso «folle» non è peculato, in Corriere della Sera, 11 aprile 2023, p. 6.

[4] Sulla costruzione del precedente, con uno sguardo particolarmente attento all’esperienza anglosassone, cfr. A. Santangelo, Precedente e prevedibilità. Profili di deontologia ermeneutica nell’era del diritto penale giurisprudenziale, Torino, 2022, pp. 189 ss. e 206 ss.

[5] Cass., sez. VI, 2 marzo 2021 (dep. 10 novembre 2021), n. 40595, con nota, volendo, di N.M. Maiello, Peculato e rimborsi dei consiglieri regionali: la Cassazione ribadisce la funzione di garanzia della legge penale, in questa Rivista, 5/2022, pp. 35 ss.

[6] Cass., sez. VI, 9 aprile 2019, n. 21166 con nota, volendo, di N.M. Maiello, Determinatezza e offesa nel delitto di peculato: il banco di prova delle spese di rappresentanza, in Cass. Pen., 7-8/2020, pp. 2755 ss.

[7] C. Pedrazzi, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, pp. 23 ss. e 63 ss.

[8] F. Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio. Libertà economica, difesa dei rapporti di proprietà e «reati contro il patrimonio», Milano, 1980, p. 5.

[9] In questo senso, V. Manes, I delitti contro la pubblica amministrazione, in Aa.Vv., Percorsi di diritto penale, Torino, 2023, p. 112; G. Amarelli, I delitti di peculato, in S. Fiore-G. Amarelli (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, II ed., Torino, 2021, p. 47; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I ed., Bologna, 2012, p. 187, nonché, volendo, N.M. Maiello, Determinatezza e offesa, cit., pp. 2762 ss.

[10] Cass., sez. VI, 15 novembre 2019, n. 11001; Cass., sez. VI, 11 luglio 2018, n. 4990. Quest’ultima decisione si segnala per la singolare disparità di trattamento che ha determinato tra imputati nella medesima vicenda: il ricorrente che aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato si vede passare in giudicato la propria condanna. I suoi coimputati che affrontano il giudizio ordinario ottengono l’annullamento delle loro condanne da una sentenza che afferma il nuovo e diverso orientamento.

[11] Cass., sez. VI, 18 novembre 2019, n. 167675; Cass., sez. VI, 19 settembre 2017, n. 53331.

[12] Cass., sez. VI, 10 gennaio 2023, n. 517; Cass., sez. VI, 7 luglio 2022, n. 29678; Cass., sez. VI, 2 marzo 2021, n. 40595.

[13] L’art. 316-ter c.p. offre una “tutela aggiuntiva e complementare rispetto a quella già offerta dall’art. 640-bis c.p.”, tale da colpire condotte dalla minore intensità fraudolenta rispetto a quelle della truffa, in questi termini C. cost. 94/2004.

[14] Su tale soglia, che caratterizza il reato di indebita percezione per la dimensione quantitativa del finanziamento illecitamente ottenuto, da ultimo, cfr. E. Penco, Soglie di punibilità ed esigenze di sistema, Torino, 2023, p. 69 e pp. 269 ss. per una panoramica sul dibattito sulla natura giuridica di questi elementi normativi, concluso con la loro ricomprensione all’interno dell’area del fatto tipico.

[15] Cass., sez. VI, 4 giugno 2019, n. 24890, in Dir. Pen. proc., 2/2020, pp. 205 ss., con nota di G. Ponteprino, Bonus cultura e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato.

[16] Cass., sez. VI, 13 gennaio 2021, n. 1247, in Giur. It., 8-9/2021, pp. 1975 ss., con nota di F. Rippa, Indebita percezione di erogazione pubbliche e bonus cultura: non c’è spazio per l’illecito penale.

[17] Cass., sez. VI, 4 luglio 2018, n. 36827; Cass., sez. VI, 23 febbraio 2017, n. 16529.

[18] Cass., sez. VI, 15 maggio 2009, n. 23066.

[19] Cass., sez. VI, 18 novembre 2019, n. 1676; Cass., sez. VI, 13 novembre 2019, n. 2226.

[20] Cass., sez. VI, 27 marzo 2019, n. 29887.

[21] Cass., Sez. Un., 16 dicembre 2010, n. 7537, con nota di I. Giacona, Il delitto di indebita percezione di pubbliche erogazioni (art. 316-ter c.p.): effetti perversi di una fattispecie mal formulata, in Cass. Pen., 10/2012, pp. 3402 ss.

[22] Per tutte, Cass., sez. VI, 26 maggio 2022, n. 43978.