Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2022 (dep. 6 aprile 2023), n. 14840, Pres. M. Cassano, Rel. R. Pezzullo
*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 5/2023.
1. Con la sentenza che qui pubblichiamo, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, adite per risolvere un quesito riguardante la disciplina dell’impugnazione dell’ordinanza di ammissione alla prova, hanno altresì formulato il seguente principio di diritto: «l’istituto dell’ammissione alla prova di cui art. 168-bis c.p. non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D.L.vo n. 231 del 2001».
2. La sentenza interviene in una vicenda in cui una società a responsabilità limitata era chiamata a rispondere del delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle disposizioni in materia antinfortunistica (art. 25-septies co. 3 d.lgs. n. 231/2001), quale reato-presupposto contestato al datore di lavoro.
A fronte delle richieste difensive, il Tribunale di Trento disponeva la sospensione del procedimento per la messa alla prova, non solo del datore di lavoro, ma anche dell’ente collettivo. Il programma di trattamento predisposto per la società – lo si evince dalla lettura dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite – è consistito nel risarcimento del danno, nella revisione del proprio modello organizzativo e nella elargizione «ad un organismo religioso di calzature di propria produzione», quest’ultima prestazione a titolo di «lavoro di pubblica utilità»[1]. Superata positivamente la prova, il giudice proscioglieva la società, dichiarando estinto l’illecito da reato che le era contestato.
Avverso le decisioni del Tribunale di Trento, il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra l’altro, l’indebita estensione anche alla responsabilità prevista dal d.lgs. n. 231/2001 di un istituto – la sospensione con messa alla prova – indirizzato ai soli “reati” commessi dalle persone fisiche[2].
La Quarta sezione, senza entrare nel merito delle doglianze, ha rilevato l’esistenza di orientamenti contrastanti circa la sussistenza di una legittimazione del Procuratore generale presso la Corte d’Appello a impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova e ha a tal proposito sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite. Questo, più precisamente, l’interrogativo formulato: se il Procuratore generale presso la Corte d’appello sia titolare del potere impugnare l’ordinanza che ammette l’imputato alla prova, vuoi autonomamente ai sensi dell’art. 464-bis co. 7 c.p.p., vuoi unitamente alla sentenza di proscioglimento[3] (e in questo caso, quali siano i vizi deducibili).
3. Al quesito oggetto di rimessione, le Sezioni Unite hanno fornito responso pienamente positivo. In questa sede, tuttavia, preme segnalare che la Suprema Corte, una volta risolta in senso affermativo la questione relativa alla legittimazione a impugnare, ha avuto l’opportunità di esprimersi sull’applicabilità della messa alla prova agli enti chiamati a rispondere della responsabilità da reato ex d.lgs. n. 231/2001, riservando all’esame di tale problema – pur non trattandosi del quesito assegnato alle Sezioni Unite – uno spazio tutt’altro che secondario nell’economia della motivazione.
Prendendo atto che le norme che disciplinano la sospensione con messa alla prova non contengono riferimenti alla responsabilità da reato degli enti e che l’istituto sospensivo non riceve alcuna espressa considerazione nel d.lgs. n. 231/2001 – gli artt. 34 e 35 d.lgs. cit., precisa la Corte, contengono un rinvio solo alle norme processuali – le Sezioni Unite hanno ripercorso analiticamente gli opposti orientamenti emersi nella prassi di merito, infine formulando un principio di diritto atto a risolvere tale ulteriore contrasto giurisprudenziale.
3.1. Un primo orientamento ha escluso che l’ente collettivo possa essere destinatario della sospensione con messa alla prova.
In un’ordinanza del Tribunale di Milano[4] – primo provvedimento edito a essersi occupato del tema – si è fatto leva sulla natura sostanziale e, soprattutto, sanzionatoria della messa alla prova: l’afflittività del programma di trattamento, con particolare riguardo al lavoro di pubblica utilità, ascriverebbe la messa alla prova alla «categoria delle sanzioni penali», applicabili solo ai casi tassativamente previsti e non anche, in assenza di precisi riferimenti nella legge, all’illecito punitivo degli enti. Il limite a un’estensione nei riguardi degli enti collettivi deriverebbe, dunque, dalla riserva di legge in materia penale (art. 25 co. 2 Cost.).
Si è osservato inoltre, in un’ordinanza di diniego del Tribunale di Bologna[5], che sussistono difficoltà nel rintracciare gli estremi per un’eventuale applicazione analogica: il mancato coordinamento del d.lgs. n. 231/2001 con le norme sulla messa alla prova corrisponderebbe a una lacuna disciplinare intenzionale del legislatore della l. n. 67/2014; la ratio della responsabilità da reato degli enti sarebbe altresì incompatibile con le finalità sottese al meccanismo sospensivo in parola, specialmente perché il lavoro di pubblica utilità, elemento essenziale del «percorso di risocializzazione» dell’imputato, finirebbe per risolversi in «un mero risarcimento a favore della collettività».
Nel negare le richieste di ammissione alla prova, si sono anche messi in evidenza gli eccessivi margini di incertezza che ammanterebbero l’operazione di riadattare i presupposti sostanziali e processuali di accesso al rito speciale – formulati dal legislatore sottintendendo un imputato persona fisica – alle caratteristiche proprie della responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 e del soggetto che ne risponde. In tale prospettiva, ad esempio, il Tribunale di Spoleto[6] ha osservato – in un’ulteriore ordinanza di diniego – che l’ambito di operatività degli artt. 168-bis ss. c.p., fondandosi sui massimi edittali del reato contestato (e quindi sui massimi di pena detentiva applicabile), poco si presta a essere riferito al contesto degli illeciti da reato degli enti.
3.2. Alcuni giudici del merito hanno invece accolto le istanze di sospensione con messa alla prova formulate dai rappresentanti degli enti. Tra i provvedimenti favorevoli, si è distinta per il particolare approfondimento una recente ordinanza del Tribunale di Bari[7] – viceversa, i provvedimenti del Tribunale di Trento da cui è scaturita la pronuncia di legittimità qui esaminata non si soffermano sulle ragioni deponenti per l’accoglimento – ove è sviluppata un’articolata contestazione degli argomenti contrari precedentemente emersi nella giurisprudenza e poc’anzi ricordati.
Secondo il giudice del Tribunale di Bari, il procedimento analogico potrebbe fondarsi sul parallelo tra la logica rieducativa e preventiva che permea il sistema sanzionatorio delineato dal d.lgs. n. 231/2001 (si allude, nella motivazione, a una «logica di prevenzione del crimine, da perseguire attraverso la rieducazione dell’ente», che «si declina in maniera peculiare, cioè in termini di compliance») e le finalità proprie della sospensione con messa alla prova.
Il ricorso all’analogia – si è sostenuto nell’ordinanza – non contrasterebbe con i principi di tassatività e riserva di legge, comportando effetti favorevoli per l’ente, né disattenderebbe alcuna pretesa intenzione del legislatore di escludere gli enti da tale possibilità sottesa alla lacuna normativa, che sarebbe più verosimilmente frutto di una «svista legislativa».
Nemmeno costituirebbero ostacolo all’analogia le incertezze che si riscontrano nell’adattamento agli enti collettivi dei requisiti per l’applicazione dell’istituto sospensivo: esse, a ben vedere, sarebbero espressive della «fisiologica sfera di discrezionalità» che contraddistingue qualsivoglia procedimento di applicazione analogica. Riguardo a questo problema, si può fra l’altro ricordare come un’ordinanza del Tribunale di Modena[8], tra le prime ad accogliere la possibilità di sottoporre l’ente collettivo alla prova, ha ammesso la possibilità di vagliare l’adeguatezza del programma di prova ai sensi dell’art. 133 c.p. facendo riferimento al Modello di organizzazione e gestione precedentemente adottato e giudicato inidoneo da parte del magistrato decidente.
4. Prima di riprendere e sviluppare alcune delle argomentazioni già rintracciabili nelle motivazioni dai provvedimenti di merito, le Sezioni Unite ritengono essenziale premettere alcune considerazioni sull’inquadramento della natura giuridica delle sanzioni punitive contro gli enti collettivi e dell’istituto della sospensione con messa alla prova, secondo la lettura che ne è stata data dalla recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
4.1. Sotto il primo profilo, la Corte conferma l’orientamento consolidato – più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità (valga, per tutte, la sentenza a Sezioni Unite ThyssenKrupp[9]) e già enunciato dalla Relazione illustrativa al d.lgs. n. 231/2001 – sulla qualificazione della responsabilità da reato delle persone giuridiche quale tertium genus di paradigma punitivo, che «coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo», senza peraltro disconoscere le «evidenti ragioni contiguità con l’ordinamento penale a causa della connessione la commissione di un reato, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento».
4.2. Quanto alla messa alla prova, se ne sottolinea la natura di «trattamento sanzionatorio penale», oltre che di rito speciale e di causa estintiva, prendendo le mosse dalle analoghe affermazioni rintracciabili nella giurisprudenza della Consulta e della stessa Corte di cassazione. Particolare rilievo viene attribuito alla pronuncia in cui la Corte costituzionale ha escluso che una difformità tra la disciplina della messa alla prova ordinaria, introdotta nel 2014, e quella relativa al rito minorile, più risalente, fosse contraria ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sent. n. 68 del 2019). Dalla sentenza in parola, infatti, le Sezioni Unite raccolgono gli indici normativi in virtù dei quali sarebbe possibile acclarare la natura sanzionatoria della messa alla prova, comprendenti – tra l’altro – l’obbligo di prestare il lavoro di pubblica utilità, la valutazione dell’idoneità del programma di prova alla stregua dell’art. 133 c.p., lo ‘scomputo’ del periodo di esecuzione della prova dalla pena da eseguire, in caso di condanna successiva alla revoca o all’esito negativo della messa alla prova (art. 657-bis c.p.p.).
5. Ebbene, assumendo come premesse la natura sanzionatoria della messa alla prova e di tertium genus della responsabilità degli enti, la Corte anzitutto ribadisce quanto già affermato dal Tribunale milanese nella prima pronuncia sulla questione oggetto d’esame (v. supra, §3.1): la riserva di legge impedisce di applicare un trattamento sanzionatorio penale a una categoria di soggetti (gli enti collettivi) e di illeciti (quelli ex d.lgs. n. 231/2001) non espressamente contemplati dalla legge penale.
Né è praticabile la strada dell’analogia, quandanche in bonam partem, posto che la responsabilità da reato degli enti non è «assimilabile» od «omogenea» al sistema penale e, comunque, riguarda «soggetti giammai indicati quali destinatari di precetti penali». Secondo la Corte, la natura di tertium genus della responsabilità comporta che la responsabilità prevista dal d.lgs. n. 231/2001 mutui dal sistema penale «solo le garanzie che lo assistono», non invece «un trattamento sanzionatorio non previsto dalla legge». Consentire l’analogia – si conclude – comporterebbe l’attribuzione al giudice del potere di riformulare ex novo, per adattarlo agli enti, l’ambito di applicazione e i contenuti sanzionatori della messa alla prova, in evidente violazione dell’art. 25 co. 2 Cost.
6. Nelle note conclusive, aggiunte per «completezza espositiva», il Supremo Collegio ricorda che la disciplina della sospensione con messa alla prova è formulata con caratteristiche tali da adattarsi a un imputato persona fisica, non anche ad un ente collettivo. Si fa l’esempio – tra gli altri – delle possibili prescrizioni che concernono la dimora, la libertà di movimento, il divieto di frequentare determinati locali; del riferimento all’art. 133 c.p. per valutare l’idoneità del programma di trattamento; non ultimo, delle difficoltà di concepire una «rieducazione e una risocializzazione» della persona giuridica, «soggetto non “imputato”, privo di sostrato psicofisico».
Anche una lettura delle norme del d.lgs. n. 231/2001 – si aggiunge in conclusione – non può che confermare la correttezza di tali conclusioni: la disciplina sanzionatoria degli enti già contempla forme di riparazione delle conseguenze del reato, con effetti differenti da quello estintivo della sanzione, e la sospensione con messa alla prova non trova posto, comunque, tra le cause estintive dell’illecito enunciate all’art. 67 d.lgs. cit.
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7. L’ipotesi che l’ente possa sottoporsi ad un programma di prova e possa beneficiare, a prova superata, del conseguente effetto estintivo dell’illecito, è fonte di interrogativi che hanno appassionato la recente riflessione dottrinale, intercettando, da un lato, il tema sempre più attuale dei rapporti tra gli istituti attinenti alla punibilità del reato e la disciplina della responsabilità da reato ex d.lgs. 231/2001[10], dall’altro, il dibattito attorno ai futuribili sviluppi della logica premiale e riparatoria, se non anche ‘rieducativa’, che secondo una prospettiva ampiamente condivisa attraversa trasversalmente il sistema italiano di corporate criminal liability[11].
Le motivazioni della sentenza in commento si occupano, com’è naturale, soltanto dei profili de lege lata della tematica – decidere se la sospensione con messa alla prova per l’imputato maggiorenne possa applicarsi nel processo a carico dell’ente collettivo – e sposano una soluzione, quella negativa, che nonostante alcuni precedenti difformi nella prassi di merito, si presentava ai giudici di legittimità come l’alternativa più sicura e condivisibile.
Optare per una diversa soluzione avrebbe imposto, oltre al superamento di una serie di ostacoli legati alla giustificazione del risultato interpretativo (è il profilo a cui la Corte dedica i maggiori sforzi nella motivazione), anche l’apertura di una breccia nella giurisprudenza di legittimità che ha sistematicamente ‘blindato’ il sistema punitivo degli enti collettivi dai tentativi, emersi in più occasioni nella giurisprudenza di merito, di innestare nel d.lgs. n. 231/2001 istituti che escludono o modificano la punibilità individuale (l'indulto[12], la sospensione condizionale della pena[13], la non punibilità per la particolare tenuità del fatto[14] e, recentemente, anche la morte del reo[15]), o più in generale di applicarvi altri profili disciplinari tipici del ‘reato’ (è il noto caso, anche se non incontroverso, della costituzione di parte civile[16]).
La giustificazione a questo indirizzo, entro il quale può adesso annoverarsi anche la pronuncia qui commentata, si è tuttavia frequentemente risolta nel sottolineare la natura meramente amministrativa della responsabilità da reato[17], un rilievo che – senz’altro aggiungere – sembrava distanziarsi dall’affermazione, assai più ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, circa la natura di tertium genus del sistema punitivo degli enti[18].
In questa sentenza, la Corte di cassazione ha optato per un approccio argomentativo diverso e più elaborato. Lasciando ad altra sede il compito di un più approfondito commento, può dunque essere utile soffermarci sugli snodi centrali del ragionamento della Corte a sostegno di questa decisione (che, come già anticipato, sono principalmente incentrati sui limiti opposti dalla riserva di legge e sull’impossibilità di procedere attraverso un’integrazione analogica), nonché dedicare qualche cenno ai punti che, pur emersi nel dibattito sull’applicabilità della misura alle persone giuridiche, hanno trovato nella motivazione uno spazio soltanto secondario.
8. Sotto il primo profilo, la Corte invoca la riserva di legge contro i tentativi di introdurre nei confronti dell’ente un «trattamento sanzionatorio penale» di cui non è per legge destinatario; la sussistenza di profili afflittivi, nel complesso degli effetti propri dell’istituto sospensivo, risulta dunque un elemento decisivo per precluderne ogni estensione oltre i limiti legalmente definiti.
Il ricorso a tale argomento – comparso in giurisprudenza nell’ordinanza del Tribunale di Milano che per prima aveva negato l’applicabilità all’ente della messa alla prova – era già stato bersaglio di critiche per l’eccessivo enfasi riposta sui contenuti afflittivi dell’istituto, che porta a trascurare le conseguenze di favore da esso derivanti[19]. Non può in effetti sottacersi che, nelle altre ipotesi in cui si è prospettata l’applicazione della messa alla prova a casi formalmente estranei all’area applicativa dell’art. 168-bis c.p. (per esempio, alle ipotesi di pluralità di reati legati dalla continuazione – o commessi con un’unica azione od omissione – e giudicati separatamente[20], o ancora – sebbene i termini della questione riposino su basi normative differenti – ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della l. n. 67/2014[21]), non si è mai sollevato il problema di garantire l’imputato dalla inflizione di un trattamento sanzionatorio fuori dai casi consentiti dalla legge, e ciò a fronte degli effetti favorevoli che rendono l’accesso alla sospensione con messa alla prova un ‘beneficio’ per l’imputato. Del resto, a conferma dei benefici che pure il soggetto ‘collettivo’, destinatario di sanzioni non formalmente penali, potrebbe ottenere dalla messa alla prova, anche nella sentenza in esame viene discussione il tema dell’ammissibilità dell’analogia in bonam partem.
9. Particolare attenzione meritano gli argomenti diretti – appunto – a escludere la possibilità di un’applicazione analogica, anche se in bonam partem. Secondo la Corte a ciò osta la circostanza che i due strumenti punitivi – quello strettamente penale e quello “da reato” degli enti – non sono «omogenei» e che nell’applicare la messa alla prova agli enti al giudice sarebbe demandata «la “descrizione” e la “modulazione” della sanzione», nonché una «determinazione delle ipotesi a cui essa consegue» – in altre parole, una «riscrittura ex novo» di presupposti e conseguenze dell’istituto –, con ciò determinandosi, «all’evidenza», una violazione dell’art. 25 co. 2 Cost.
Anche se la conclusione viene fatta risalire, in definitiva, alle garanzie costituzionali di legalità, è interessante rilevare come in questo brano della motivazione si dia risalto anche a difficoltà più profonde nel rinvenire i presupposti logici necessari per sviluppare il ragionamento analogico. Il riferimento alla mancanza di omogeneità sembra alludere all’inesistenza di una rilevante similitudine tra le fattispecie tale da reclamare l’applicazione analogica delle stesse conseguenze giuridiche (v. infra, § 12). Inoltre, non è secondario che l’operazione implichi – come sottolinea la Corte – la riformulazione per analogia non solo della ‘fattispecie’ del beneficio (ossia l’insieme dei presupposti richiesti dalla legge per ottenere la sospensione con messa alla prova), ma anche della sua ‘disciplina’ (principalmente, il programma di prova e l’effetto estintivo): a tal proposito, può infatti osservarsi che l’analogia, come procedimento a disposizione dell’interprete della legge, dovrebbe consistere nell’estendere a fattispecie simili una stessa disciplina, non anche di formulare una disciplina diversa[22], quandanche funzionalmente analoga o ispirata alla medesima ratio sottesa alla legge che regola la fattispecie simile.
La necessità di forzare il dato legislativo per adattare al diverso contesto del d.lgs. n. 231/2001 gli effetti ‘disciplinari’ della messa alla prova è emersa con evidenza nella vicenda giudiziaria oggetto di questa sentenza, in riferimento alla nozione di «lavoro di pubblica utilità»: una donazione di prodotti confezionati dalla società ha preso il posto della prestazione lavorativa (v. supra, § 2), assimilando arbitrariamente il concetto di «lavoro» a quello di una mera attribuzione patrimoniale. In altri casi, gli Uffici per l’esecuzione penale esterna si sono sforzati di individuare adattamenti della disciplina più vicini a un significato letterale (ad es. servizi di manutenzione periodica offerti dalla Società ad una Onlus[23]), ma anche a questi tentativi si può obiettare che la descrizione delle caratteristiche tipiche dell’attività lavorativa (art. 168-bis co. 3 c.p.) e il riferimento ai criteri di commisurazione della pena ‘individuale’ (art. 133 c.p.), quale metro per valutare l’adeguatezza del programma di prova, impongono di dare rilevanza, non a qualsiasi significato del termine «lavoro», ma solo a quelli suscettibili di rispecchiarsi in tali parametri legislativi, con tutte le difficoltà di farvi rientrare lo svolgimento di un servizio in forma pluripersonale e organizzata.
10. Possono adesso segnalarsi due aspetti, richiamati spesso nelle trattazioni della dottrina che si è occupata del tema, che emergono solo incidentalmente negli sviluppi argomentativi della Corte.
10.1. Anzitutto, il superamento della prova comporta l’estinzione del reato ed è noto che le cause estintive siano annoverate tra le norme inestensibili in via analogica. Anche quanti ammettono, infatti, il ricorso all’analogia in bonam partem nel diritto penale, ascrivono le cause di estinzione del reato alle norme eccezionali ai sensi dell’art. 14 Preleggi (si deroga alla generale punibilità di chi può essere riconosciuto responsabile di un reato), ciò che ne impedisce l’estensione analogica[24]; a esiti coincidenti, com’è ovvio, giungono gli orientamenti che negano ogni diritto di cittadinanza all’analogia nel diritto penale, anche nei casi in cui si risolva a favore del reo.
Nonostante tale considerazione potesse costituire ostacolo pregiudiziale a qualsiasi proposito di integrazione analogica e avesse pure trovato riscontro in una recente pronuncia di legittimità concernente un problema non dissimile – si allude alla sentenza in cui si è escluso che la cancellazione della società dal registro delle imprese comporti anche l’estinzione dell’illecito corporativo da reato[25] –, le Sezioni Unite non si richiamano a questo aspetto del problema se non indirettamente, nei rilievi della motivazione dichiaratamente aggiunti ad abundantiam, laddove si fa cenno alla tassatività delle cause estintive dell’illecito dell’ente.
10.2. Nel dibattito sul tema qui oggetto di esame, un’opinione che sottolineava la particolare natura (anche) di rito speciale della sospensione con messa alla prova proponeva di giustificarne l’estensione alla societas per mezzo dei rinvii integrativi della disciplina processuale contenuti negli artt. 34 e 35 d.lgs. n. 231/2001[26]: il primo articolo prevede che, per quanto non disposto dal Capo III del d.lgs. 231/2001, in merito al «procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato» si applica il codice di procedura penale; il secondo estende all’ente le «disposizioni processuali relative all’imputato»; entrambi i rinvii sono subordinati a un vaglio di compatibilità con le disposizioni del d.lgs. 231/2001.
In merito, i giudici di legittimità hanno osservato – nelle prime righe dedicate alla disamina del problema – che tali richiami valgono soltanto per le norme processuali, con ciò negando implicitamente – così sembra di intendere – che essi possano instradare l’interprete verso esiti risolutivi. La Corte, in altre parole, tratta la questione sull’applicabilità delle disposizioni processuali relative alla messa alla prova, disciplinata dagli artt. 34 e 35 cit., come profilo ‘logicamente subordinato’, che implica che sia stato previamente risolto il dubbio sull’applicabilità delle norme sostanziali.
11. In uno dei passaggi aggiunti ‘per completezza’, la Corte tocca anche un punto nevralgico della riflessione de lege ferenda su questo tema, lasciandosi sfuggire una considerazione che denota un radicale scetticismo sul fondamento empirico del finalismo rieducativo nel contesto della responsabilità delle persone giuridiche. Si legge nella motivazione che l’operazione analogica finirebbe per tradursi nella rieducazione degli organi sociali «per conto dell’ente collettivo» – in «una sorta di immedesimazione rovesciata» – così alludendo all’impossibilità tout court di una rieducazione della societas – «soggetto non “imputato”, privo di sostrato psicofisico» – attraverso la prescrizione di particolari prestazioni.
L’idea di concepire, in questo contesto, una funzione rieducativa della sanzione è senza dubbio oggetto di vivace dibattito dottrinale[27], i cui termini non possono nemmeno essere accennati in questa sede; è comunque opportuno sottolineare che la previsione di misure di corporate probation – con ovvie differenze rispetto agli strumenti di probation individuale – è tutt’altro che sconosciuta nell’esperienza comparatistica[28], e che anche nell’ampia letteratura italiana circa le futuribili proposte di perfezionamento del sistema sanzionatorio del d.lgs. 231/2001, l’ipotesi di una speciale forma di ‘messa alla prova dell’ente’ ha raccolto una schiera sempre più estesa di Autori favorevoli[29].
12. In una prospettiva d’insieme, un tema che avrebbe potuto assumere più immediata centralità nel percorso seguito dalla Corte è quello dei rapporti tra la disciplina del diritto penale ‘individuale’ e quella applicabile al sistema punitivo delineato dal d.lgs. 231/2001.
A ben vedere, infatti, la decisione del Supremo Collegio è radicata in larga misura sulla rilevanza attribuita ad alcune peculiarità – riguardanti la natura e la disciplina – dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Quando, ad esempio, la Corte fa dipendere dall’art. 25 co. 2 Cost. l’impossibilità di applicare una norma che riguarda gli effetti del reato a un sistema punitivo non formalmente penale, a causa delle connotazioni sanzionatorie caratteristiche della messa alla prova, sta tracciando una linea argomentativa che – anche a voler prescindere dalla sua piena persuasività[30] – è insuscettibile di essere estesa agli altri istituti attinenti alla punibilità cui non si ricollegano contenuti afflittivi. Lo stesso può dirsi riguardo al tema dell’eccessiva ‘dose di creatività’ che caratterizza l’operazione di applicazione degli enti della messa alla prova: un problema che per altri istituti cui consegue la non-punibilità non si concretizza in maniera così evidente, dato che assai minori sono gli sforzi richiesti per riadattare la disciplina al contesto del d.lgs. n. 231/2001 (per applicare una causa estintiva qual è la morte del reo, ad esempio, sarebbe sufficiente dichiarare l’estinzione dell’illecito dell’ente).
Un argomento viceversa generalizzabile – e perciò potenzialmente foriero di ricadute più significative – è quello che individua quale ostacolo per il ragionamento analogico l’impossibilità di assimilare o di considerare omogenei sistema penale e sistema punitivo degli enti. Quella di esaltare le differenze tra i due sistemi per sostenere l’impraticabilità dell’analogia può essere una strategia argomentativa densa di implicazioni, che vanno al di là dell’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 168-bis c.p.[31]; portata alle più estreme conseguenze, la conclusione potrebbe persino agevolare la smentita di quelle analogie sotto il profilo della natura punitiva che consentono di attrarre il d.lgs. n. 231/2001, pur con i dovuti limiti, nell’ambito delle garanzie della materia penale. Per questa ragione non pare casuale – e può anzi leggersi con particolare interesse – la ‘correzione di tiro’ della Corte, che dopo aver accentuato le diversità dei due sistemi, si cura subito di precisare che la responsabilità degli enti costituisce «un tertium genus che mutua dal sistema penale solo le garanzie che lo assistono».
Da questo punto di vista, la sentenza può essere quantomeno segnalata per aver chiaramente distinto tra il piano della possibilità di riferire alla persona giuridica, destinataria di sanzioni indubbiamente afflittive, talune garanzie tipiche della materia penale (è questa la conseguenza normativa che si fa discendere dal richiamo alla categoria del tertium genus punitivo) e quello dell’applicabilità alle sanzioni del d.lgs. n. 231/2001 delle previsioni che disciplinano la sanzione penale strettamente intesa: a quest’ultima prospettiva non viene assegnata alcuna legittimazione, né per mezzo dello strumento integrativo dell’analogia (un divieto in tal senso viene esplicitamente predicato nella motivazione delle Sezioni Unite), né a fortiori tramite l’immediata e diretta sovrapposizione della disciplina riguardante le conseguenze del reato a quella dell’illecito da reato dell’ente collettivo (se un simile modo di procedere fosse stato percorribile, il problema di un’integrazione analogica non avrebbe nemmeno avuto ragione di porsi).
[1] Cfr. Cass., sez. IV, 21 aprile 2022, n. 15943, §3, in questa Rivista, 14 settembre 2022.
[2] Il motivo, anche in questo caso, non si legge nella sentenza ma nell’ordinanza di rimessione: Cass., sez. IV, 21 aprile 2022, n. 15943, cit., §5.
[3] Nel caso di specie, il Procuratore generale di Trento aveva impugnato l’ordinanza insieme alla sentenza, non avendo ricevuto immediata comunicazione del primo provvedimento.
[4] Trib. Milano, ord. 27 marzo 2017.
[5] G.i.p. Bologna, ord. 10 dicembre 2020.
[6] Trib. Spoleto, ord. 21 aprile 2021.
[7] Trib. Bari, sez. I pen., 22 giugno 2022, in Cass. pen., 2022, pp. 3624 ss., con nota di Fe. Mazzacuva.
[8] Trib. Modena, ord. 15 dicembre 2020.
[9] Cass., Sez. un., 18 settembre 2014, n. 38343, §60, in Le Società, 2015, pp. 215 ss., con nota di R. Bartoli sui profili attinenti al d.lgs. n. 231/2001.
[10] Per un ampio quadro in proposito v. C. Piergallini, Premialità e non punibilità nel sistema della responsabilità degli enti, in Dir. pen. proc., 2019, pp. 530 ss.
[11] Nella ormai imponente letteratura, v. i recenti approfondimenti di Fed. Mazzacuva, L’ente premiato. Il diritto punitivo nell'era delle negoziazioni: l'esperienza angloamericana e le prospettive di riforma, Torino, 2020, pp. 294 ss.; A. Orsina, Messa alla prova e “colpa di reazione” dell’ente. Riflessioni critiche a partire da un recente intervento della giurisprudenza, in Dir. Pen Cont. – Riv. trim, 2021, 4, pp. 111 ss.; M. Colacurci, L'illecito "riparato" dell'ente. Uno studio sulle funzioni della compliance penalistica nel d.lgs. n. 231/2001, Torino, 2022, pp. 371 ss., e per ulteriori riferimenti v. infra nt. 26, 27 e 29.
[12] Cass., sez. II, 13 giugno 2007, n. 35337, Rv. 239857; Cass., sez. I, del 30 marzo 2017, n. 21724, Rv. 272826.
[13] Cass., sez. III, 2 novembre 2020, n. 30305; Cass., sez. IV, 16 ottobre 2013, n. 42503; Cass., sez. II, 20 marzo 2012, n. 10822; tutte in DeJure.
[14] Sebbene le pronunce della Cassazione a tal proposito siano perlopiù concentrate sul problema dell’estensibilità all’ente dell’esclusione della punibilità ex art. 131-bis c.p. riconosciuta al responsabile del reato-presupposto, affronta il problema della diretta applicabilità all’ente Cass., sez. III, 15 marzo 2019, n. 11518, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, pp. 280 ss.
[15] Cass., sez. IV, 17 marzo 2022, n. 9006, in Le Società, 2022, pp. 1183 ss., con nota di P. Chiaraviglio; diff. Cass., 7 ottobre 2019, n. 41082, in DeJure: in questa pronunzia, la Corte non richiama espressamente l’art. 150 c.p., ma la sua applicazione è conseguenza implicita del riferimento all’art. 69 c.p.p. (nelle sentenze di merito che già seguivano questo orientamento, infatti, si parla testualmente di «estinzione dell’illecito», cfr. Trib. Milano, 20 ottobre 2011, in Dir. pen. cont., 26 ottobre 2011).
[16] Cass., sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251, in Dir. pen. e proc., 2011, pp. 431 ss. con nota di F. Mucciarelli; cfr. anche Corte Cost. sent. n. 218 del 2014.
[17] La «natura amministrativa non consente l'applicabilità di istituti giuridici specificamente previsti per le sanzioni di natura penale», testualmente Cass., sez. III, 2 novembre 2020, n. 30305, cit.; v. anche Cass., sez. IV, 16 ottobre 2013, n. 42503, cit.; Cass., Sez. II, n. 35337 del 13 giugno 2007, cit.; con approccio più approfondito, Cass. Sez. I, 30 marzo 2017 n. 21724, cit.
[18] Cfr. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte Generale, 11a ed., Milano, 2022, p. 946.
[19] V. Trib. Spoleto, ord. 21 aprile 2021, cit., che pure concordava con la soluzione qui adottata dai giudici di legittimità; cfr. anche i rilievi in G.i.p. Bologna, ord. 10 dicembre 2020, cit.; Trib. Bari, sez. I pen., 22 giugno 2022, cit.
[20] In proposito, v. Corte cost., n. 174 del 2022, in questa Rivista, 13 luglio 2022, con nota di V. Bove.
[21] Sui profili di diritto intertemporale della messa alla prova v. G. Panebianco, sub art. 168-bis, in T. Padovani (a cura di), Codice penale, Milano, 2019, pp. 1268 ss.; cfr. Corte Cost., sent. 26 novembre 2015, n. 240, §2.3, in Dir. pen. cont., 27 novembre 2015.
[22] V. ad es. L. Gianformaggio, Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, a cura di E. Diciotti, V. Velluzzi e S. Zorzetto, Torino, 2018, p. 141.
[23] Trib. Bari, sez. I pen., 22 giugno 2022, cit.
[24] V. ad es. G. Vassalli, Analogia nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 170.
[25] Cass., sez. IV, 17 marzo 2022, n. 9006, cit.
[26] V. M. Riccardi-M. Chilosi, La messa alla Prova nel processo “231”: quali prospettive per la diversion dell’ente, in Dir. pen. cont., 2017, 10, pp. 56 ss.; G. Garuti – C. Trabace, Qualche nota a margine della esemplare decisione con cui il Tribunale ha ammesso la persona giuridica al probation, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 10, p. 3.
[27] Cfr. anche per gli ampi riferimenti, il recente approfondimento di A.M. Maugeri, La funzione rieducativa della sanzione nel sistema della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231/2001, Giappichelli, Torino, 2022.
[28] V. con riguardo all’ordinamento nordamericano C. de Maglie, L’etica e il mercato, Giuffrè, Milano, 2002, pp. 89 ss., e per i riferimenti più recenti riguardo all’area di common law, V. Mongillo, Il sistema delle sanzioni applicabili all’ente collettivo tra prevenzione e riparazione. Prospettive de iure condendo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2022, pp. 597-599.
[29] Una compiuta proposta, che ha goduto di particolare favore nel dibattito dottrinale, è quella di G. Fidelbo - R.A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in Resp. amm. soc. enti, 4, 2016, pp. 3 ss.; tra le numerose voci del dibattito che hanno ripreso tale proposta, v. da ultimo V. Mongillo, op. cit., pp. 617 ss.
[30] Si veda quanto detto supra, § 8.
[31] In direzione opposta, si osservi che la recente sentenza Impregilo ha richiamato in via analogica i contenuti della colpa penale, per definire nozione e accertamento della c.d. colpa di organizzazione: Cass., sez. VI, 15 giugno 2022, n. 23401, in questa Rivista, con note di E. Fusco – C.E. Paliero e C. Piergallini.