1. Nel sostituire la lettera l) dell’art. 620 c.p.p., l’art. 1 comma 67, l. 23 giugno 2017, n. 103, ha previsto tra l’altro che la Corte di cassazione possa «rideterminare la pena sulla base delle statuizioni del giudice di merito», annullando senza rinvio la decisione impugnata in ogni caso in cui «ritiene di poter decidere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto».
Il testo precedente già prevedeva che la corte potesse determinare la pena ove ritenesse superfluo il rinvio. Ma la giurisprudenza aveva per lo più ritenuto che «la possibilità, riconosciuta alla Corte di cassazione dall'art. 620, lett. l), c.p.p., di procedere direttamente alla determinazione della pena, deve ritenersi circoscritta alle ipotesi in cui alla situazione da correggere possa porsi rimedio senza accertamenti e valutazioni discrezionali su circostanze e punti controversi, suscettibili di diversi apprezzamenti di fatto, che rimangono in quanto tali operazioni incompatibili con le attribuzioni del giudice di legittimità»[1].
Dopo la riforma del 2017 le Sezioni unite sono state dunque chiamate a stabilire se la nuova norma possa «essere interpretata nel senso di consentire la riformulazione del trattamento sanzionatorio in sede di legittimità, ove non siano necessari accertamenti in fatto, sulla base dei parametri utilizzati nella decisione di merito ai fini della commisurazione della pena»; e hanno appunto riconosciuto che «la Corte di cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all'esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando perciò necessari ulteriori accertamenti di fatto»[2].
Il mito dell’incompatibilità tra giudizio di legittimità e «valutazioni discrezionali» è risultato così autorevolmente smentito.
Tuttavia sono ancora numerosissime le sentenze di cassazione con rinvio al giudice del merito per la sola determinazione della pena (sent. 13015/2024, 12760/2024, 12737/2024, 12727/2024, 12698/2024, 11967/2024, 11963/2024, 10394/2024, 09937/2024, 09859/2024, 09621/2024, 08956/2024) o per il riconoscimento della sospensione condizionale (sent. 14924/2024, 41704/2023), talora giustificate appunto con l’impossibilità per la corte di adottare le scelte discrezionali necessarie per la determinazione della pena (sent. 14873/2024).
2. È evidentemente un pregiudizio ideologico tanto fallace quanto radicato quello inteso a escludere valutazioni da parte della Corte di cassazione.
In realtà il sindacato di legittimità della Corte di cassazione è definito da tre dicotomie.
La prima dicotomia contrappone giudizio di fatto e giudizio di diritto. Il giudizio di fatto risponde alle pretese di verità avanzate dalle parti con riferimento alle proprie allegazioni: nel processo penale in particolare alle affermazioni dell’accusa sintetizzate nelle imputazioni contestate all’imputato. Il giudizio di diritto risponde alle pretese di validità delle qualificazioni giuridiche prospettate dalle parti: nel processo penale in particolare alla postulata qualificazione come reato dei fatti addebitati all’imputato.
La seconda dicotomia contrappone decisioni sul merito a decisioni sul rito. Decisioni di merito sono quelle che pronunciano sulle domande delle parti, nel processo penale sulla domanda del pubblico ministero di affermazione della colpevolezza dell’imputato. Decisioni sul rito sono quelle sulla regolarità del procedimento quando sia in discussione la «inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza», come precisa l’art. 606 lettera c) c.p.p. Sia nelle decisioni di merito sia nelle decisioni di rito può distinguersi un giudizio di fatto da un giudizio di diritto. La decisione in rito circa la validità di una notificazione presuppone un accertamento sia di fatto, ad esempio sull’effettivo comportamento del pubblico ufficiale addetto, sia in diritto, ad esempio sulla conformità di quel comportamento alle prescrizioni degli art. 148 e s. c.p.p. La decisione di merito presuppone un accertamento del fatto (giudizio di fatto) cui si riferisce la qualificazione giuridica della cui validità si discute (giudizio di diritto)
La terza dicotomia contrappone la decisione alla sua motivazione. Infatti l’enunciato assertivo in cui si esprime la decisione sul fatto può risultare veridico indipendentemente dalla plausibilità delle argomentazioni esibite per giustificarlo: una decisione può risultare corretta pur se erroneamente giustificata; e una decisione può risultare scorretta pur se plausibilmente giustificata. L’affermazione che sia stato Tizio a rubare, ad esempio il dipinto di cui si lamenti la sottrazione da una pinacoteca, può così risultare vera anche se siano palesemente astrusi gli argomenti esibiti per giustificarla (ad esempio la predilezione di Tizio per quel pittore). E la vicenda giudiziaria della strage di via D’Amelio racconta di una decisione errata in fatto eppure motivata tanto plausibilmente da superare il sindacato di legittimità.
Per definire i limiti effettivi del giudizio di legittimità occorre distinguere dunque il caso in cui venga censurata una decisione in rito dal caso in cui venga censurata una decisione nel merito.
A) Quando viene impugnata una decisione in rito il controllo della Corte di cassazione non incontra limiti, né se viene censurato il giudizio di diritto né se viene censurato il giudizio di fatto. Anche quando la norma processuale sia stata già utilizzata in precedenza come criterio di valutazione, in realtà, la sua violazione non viene in rilievo in cassazione per l’errore di giudizio compiuto dal giudice dinanzi al quale la violazione sia stata eventualmente già eccepita, ma viene in rilievo solo per l’errore di attività di colui che mancò di osservarla nel compiere un atto del procedimento, perché, se non risulti altrimenti sanata, l’invalidità di quell’atto può tradursi in un vizio della decisione impugnata per cassazione. Sicché, quale che sia stata la motivazione della decisione del giudice cui la violazione della norma processuale fosse stata già eccepita, la Corte di cassazione deve comunque accertare direttamente l’esistenza della violazione originariamente dedotta. E in questa prospettiva risulta evidente come l’accertamento della violazione della norma processuale non possa prescindere dall’accertamento anche del fatto che integra la violazione denunciata. Sicché, quando viene dedotto un error in procedendo, il sindacato di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata e la decisione che su di essa sia stata eventualmente già adottata dal giudice del merito, indipendentemente dalle motivazioni esibite al riguardo, perché in questi casi la Corte di cassazione è giudice anche del fatto[3].
B) Quando viene impugnata una decisione di merito, il controllo della Corte di cassazione non incontra limiti se è posto in discussione il giudizio di diritto, è limitato alla motivazione quando è censurato il giudizio di fatto. L’annullamento di una decisione di merito per vizio di motivazione in fatto non preclude al giudice del rinvio di ribadire la medesima decisione sulla base di una diversa motivazione, appunto perché la Corte di cassazione non ha censurato la decisione ma solo la sua motivazione. Mentre l’annullamento di una decisione di merito per erroneità del giudizio di diritto può essere pronunciato anche senza rinvio, a norma dell’art. 620 c.p.p., con una decisione nel merito. Ma anche quando è in discussione il giudizio di fatto, la corte può decidere nel merito se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto: ad esempio quando la corte, come prescrive l’art. 129 c.p.p., «riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza». È indiscusso infatti che la Corte di cassazione deve pronunciarsi nel merito dell’imputazione e annullare senza rinvio la decisione impugnata non solo quando il giudizio di merito non presupponga un giudizio di fatto (art. 620 comma 1, lettera a c.p.p.), ma anche nei casi in cui la decisione presupponga un tale giudizio (art. 129 c.p.p.), a condizione però che il fatto risulti già accertato, in modo che la corte possa limitarsi a recepirne l’accertamento, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. E in questi casi la Corte di cassazione decide sulla domanda, vale a dire decide nel merito, esattamente come decide nel merito in sede civile a norma dell’art. 384 comma 2 c.p.c.[4] Quando invece la decisione in diritto viene annullata con rinvio, il giudice del rinvio non può contraddire il principio di diritto enunciato con la decisione di annullamento (art. 627 comma 3 c.p.p.), anche se rimane entro questi limiti libero nella rinnovazione del giudizio di fatto[5].
In conclusione il controllo della Corte di cassazione è limitato alla motivazione, e non può estendersi direttamente alla decisione, solo se concorrano due condizioni: che sia dedotta l'erroneità di una decisione sul fatto; e che tale decisione sia destinata all'applicazione di una norma sostanziale relativa alla responsabilità penale o civile dell'imputato[6]. E l’alternativa giudizio di merito/giudizio di legittimità rischia di risultare fuorviante, perché la decisione nel merito non è affatto incompatibile con il giudizio di legittimità. Né il sindacato di legittimità è incompatibile con valutazioni di merito, perché qualsiasi qualificazione giuridica implica valutazioni riferite ai fatti dedotti con la domanda sulla quale la Corte di cassazione può essere chiamata a pronunciarsi.
È vero che giudice del merito è quello di regola legittimato a pronunciarsi sulla domanda; ma ciò non esclude che anche davanti a questo giudice il giudizio possa concludersi con una decisione sul rito, come avviene quando il giudice dichiari che il reato è estinto (art. 531 c.p.p.) o che «l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita» (art. 529 c.p.p.). Come è vero che di regola la Corte di cassazione non è chiamata a pronunciarsi sulla domanda (vale a dire nel merito), ma ciò non esclude che sia legittimata a decidere nel merito quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.
Quando ad esempio riconosce l’esercizio del diritto di cronaca o del diritto di critica, annullando senza rinvio una sentenza di condanna per diffamazione, la Corte di cassazione compie indiscutibilmente una valutazione circa la qualificazione giuridica del fatto. Occorre infatti distinguere tra la valutazione delle prove, che è funzionale al giudizio di fatto, e la valutazione del fatto, che è funzionale al giudizio di diritto. E la Corte di cassazione non può ovviamente valutare le prove, ma può certamente valutare i fatti, così come accertati dai giudici del merito, al fine di definirne la corretta qualificazione giuridica.
3. L’applicazione di questo schema decisionale alla determinazione del trattamento sanzionatorio risulta per molti aspetti problematico, perché è evidente la sostanziale insindacabilità che in giurisprudenza viene talora riconosciuta al sillogismo di scelta delle conseguenze, che integra il “sillogismo di sussunzione” (la qualificazione giuridica), soprattutto nella determinazione della misura della pena.
Talora si teorizza addirittura la natura intuitiva, e quindi incontrollabile, del giudizio di commisurazione della pena[7], anche se non mancano decisioni in cui si distingue correttamente la selezione e l’applicazione dei criteri di commisurazione (giudizio di diritto) e l’accertamento dei fatti cui i criteri selezionati risultano applicabili (giudizio di fatto)[8].
In realtà, se è vero che appartiene al giudizio di merito la ricostruzione del fatto, e quindi la selezione dei dati più significativi ai fini dell’applicazione dei criteri giuridici di valutazione[9], è anche vero che i criteri vanno esplicitamente enunciati e i dati significativi vanno effettivamente individuati e accertati[10], non meramente evocati in motivazioni «sintetiche» e tautologiche[11]. Tuttavia, secondo la giurisprudenza prevalente, solo «l'irrogazione della pena in una misura prossima al massimo edittale rende necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, non essendo sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere»[12], sufficienti invece quando la pena corrisponda «alla misura media di quella edittale»[13].
Peraltro, nella prospettiva del giudizio di legittimità, tutto ciò attiene al sindacato di legittimità sulla motivazione esibita nella decisione impugnata, a giustificazione della pena irrogata. Quando si prospettino invece le condizioni previste dall’art. 620 lettera l) c.p.p. per una decisione di annullamento senza rinvio, la Corte di cassazione può in linea di principio esercitare il potere di rideterminare la pena, ove i dati di fatto significativi ai sensi dell’art. 133 c.p. risultino effettivamente individuati e accertati nella decisione impugnata e si tratti solo di valutarli ai fini dell’esercizio del potere discrezionale di cui all’art. 132 c.p.
Come hanno chiarito le Sezioni unite nella sentenza citata, ai fini della rideterminazione della pena la Corte di cassazione può fondare la propria decisione su qualsiasi statuizione del giudice del merito dalla quale risulti accertato alcuno dei dati di fatto rilevanti ai sensi dell’art. 133 c.p. Sicché, anche quando sia l’eliminazione di una circostanza o di un reato concorrente a imporre una rideterminazione della pena, la Corte di cassazione può provvedere direttamente sulla base di tutti i fatti che risultino accertati nella decisione impugnata o anche nella decisione di primo grado.
Va però considerato che, benché riferito solo alla rettificazione senza annullamento della decisione impugnata, l’art. 619 comma 3 c.p.p. impone alla Corte di cassazione di applicare direttamente «la legge più favorevole all'imputato, anche se sopravvenuta dopo la proposizione del ricorso, qualora non siano necessari nuovi accertamenti di fatto». E questa norma, interpretata in combinazione con l’art. 620, lettera l), c.p.p., induce a concludere che anche nei casi di annullamento senza rinvio la Corte di cassazione può rideterminare la pena solo in favore dell’imputato, riducendo l’entità della sanzione irrogata con la decisione impugnata, non può rideterminare accrescendola la sanzione già irrogata. Del resto la riduzione della pena può fondarsi sui fatti già accertati nella decisione impugnata, anche se non espressamente riferiti alla determinazione della sanzione, mentre l’aumento della pena può richiedere l’accertamento di fatti significativi ulteriori, un accertamento cui la Corte di cassazione non è legittimata. Sicché, ove si prospettasse un aumento piuttosto che una riduzione della sanzione irrogata con la decisione impugnata, la decisione della Corte di cassazione dovrebbe essere di annullamento con rinvio a norma dell’art. 623 c.p.p.
4. L’art. 620 lettera l) c.p.p., come interpretato dalle Sezioni unite e come interpretabile in combinazione con l’art. 619 comma 3 c.p.p., attiene alla legittimazione della Corte di cassazione a rideterminare la sanzione irrogata con la decisione impugnata, «ove ritiene di poter decidere».
In una prospettiva istituzionale, e quindi di politica del diritto, questa legittimazione può essere letta anche in termini di doverosità della rideterminazione della pena in ogni caso in cui sia possibile.
Come hanno notato le Sezioni unite, «la riforma era chiaramente mirata all'estensione delle ipotesi di annullamento senza rinvio, in un'ottica deflativa dei casi di nuovo giudizio di merito a seguito di annullamento in cassazione». Sarebbe dunque ragionevole attendersi dai magistrati della Corte di cassazione un impegno istituzionale in favore di un’effettiva maggiore estensione della casistica di annullamento senza rinvio con rideterminazione della pena.
È comprensibile che, con i ruoli di udienza “affollati” cui la corte è costretta dal numero esorbitante dei ricorsi, sia più agevole affrancarsi dall’ulteriore impegno che può richiedere la rideterminazione della sanzione. Ma l’attuale previsione della camera di consiglio non partecipata come procedimento ordinario di trattamento dei ricorsi potrebbe favorire l’adozione di una tale buona prassi.
[1] Cass., sez. V, 6 dicembre 2016, Laconi, m. 269450, Cass., sez. VI, 20 marzo 2014, La, m. 259253.
[2] Cass., sez. un., 30 novembre 2017, Matrone, m. 271831.
[3] Cass., sez. V, 15 marzo 2019, Girardi, m. 275636.
[4] Cass., sez. un., 30 novembre 2017, Matrone, m. 271831, in motivazione.
[5] Cass., sez. V, 31 maggio 2022, Ministero Della Giustizia, m. 283440.
[6] Cass., sez. V, 19 marzo 2002, Ranieri, m. 221322,
[7] Secondo Cass., sez. VI, 15 novembre 1989, Kular Gurchara, m. 184375, Cass., sez. II pen., 28 maggio 1992, Pavlovic, m. 191064.
[8] Come ben chiarisce Cass., sez. I pen., 1° dicembre 1988, Ahmetovic, m. 182974.
[9] Cass., sez. I, 25 settembre 2013, Waychey, m. 258410, Cass., sez. VI pen., 7 marzo 1990, Castiglioni, m. 184838.
[10] Cass., sez. VI, 12 giugno 2008, Bonarrigo, m. 241189, Cass., sez. III, 22 febbraio 2019, Del Papa Giorgio, m. 276288.
[11] Cass., sez. III, 29 maggio 2007, Ruggieri, m. 237402, Cass., sez. VI pen., 2 luglio 1998, Urrata, m. 211582.
[12] Cass., sez. IV, 18 giugno 2013, Pasquali, m. 258356.
[13] Cass., sez. II, 27 aprile 2017, Mastro, m. 271243.