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10 Gennaio 2024


Le Sezioni Unite sul dolo specifico di profitto nel furto: esso può avere anche natura non patrimoniale

Cass., Sez. Un., 25 maggio 2023 (dep. 12 ottobre 2023), n. 41570, Pres. Diotallevi, est. De Marzo



*Il contributo pubblicato nel fascicolo 1/2024. 

 

1. Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite della Corte di cassazione risolvono il contrasto giurisprudenziale sulla nozione di dolo specifico nei delitti di furto[1] chiarendo che esso può avere anche natura non patrimoniale.

 

2. I profili essenziali in punto di fatto possono essere così riassunti.

Oggetto di impugnazione è la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Palermo a carico di C.C. per il delitto furto con strappo (art. 624-bis c.p.) per avere strappato di mano il telefono cellulare a G.P. come ritorsione e dispetto verso la persona offesa dopo che questa aveva chiamato i carabinieri, richiedendone l’intervento a seguito di un litigio con l’imputato.

Secondo quanto prospettato nel giudizio di merito, non sarebbe configurabile la violenza privata in quanto la condotta dell’imputato non era finalizzata ad impedire la telefonata, ma piuttosto si rappresentava una reazione all’iniziativa della persona offesa. D’altra parte, si è ritenuta inapplicabile l’attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.), in quanto il furto aveva avuto per oggetto un telefono cellulare, bene di significativo valore economico.

Nel primo motivo di ricorso per cassazione, l’imputato deduceva la erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 624-bis c.p., in quanto la Corte d’appello ha ritenuto sussistente il dolo specifico di profitto richiesto dalla fattispecie incriminatrice, nonostante l’agente avesse agito non per conseguire un’utilità patrimoniale ma, principalmente, per impedire l’arrivo dei carabinieri. Nell’articolare il ricorso, si richiama un orientamento diffuso nella giurisprudenza di legittimità[2] in base al quale solo una nozione di profitto circoscritta all’utilità economico-patrimoniale consente il soddisfacimento della funzione selettiva e garantistica della tipicità penale senza allargare a dismisura il perimetro applicativo della fattispecie di furto.

A latere, il gravame si concentra sull’applicabilità del diverso delitto di violenza privata, sottolineando, da un lato, che nessuna violenza si possa ritenere sussistente in una vicenda in cui l’imputato si era limitato a togliere il telefono dalla mano della persona offesa e, d’altro canto, che poiché non era stato impedito l’evento che l’imputato avrebbe voluto evitare con tale condotta, ossia l’arrivo dei carabinieri, il delitto ex art. 610 c.p. sarebbe da ritenersi insussistente.

Ad un secondo motivo è affidata la richiesta di riconoscimento dell’attenuante del danno di speciale tenuità, in relazione alla quale la difesa lamenta difetto o illogicità della motivazione, in quanto la Corte d’appello non avrebbe considerato: a) che il valore economico del bene sottratto non era mai emerso nel corso del processo; b) che, anzi, si trattava di un modello obsoleto già all’epoca dei fatti; e c) che la sottrazione si era protratta solo per un breve lasso di tempo.

 

3. Rilevata la presenza di un contrasto giurisprudenziale, il 18 novembre 2022 la Quinta Sezione penale rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, rilevando la necessità che il massimo consesso nomofilattico si esprimesse in ordine alla nozione di profitto contemplata nei delitti di furto come oggetto di dolo specifico.

Secondo un primo orientamento[3], più risalente, la nozione di profitto dovrebbe prescindere dalla natura economica sottesa alla finalità dell’agente: esso può consistere in qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, rispondendo alle più svariate finalità per soddisfare bisogni tanto di tipo economico quanto psichico[4].

Tale lettura si fonda su un’interpretazione ampia della nozione di profitto, come categoria che comprende non solo vantaggi di natura puramente economica, ma anche una qualsiasi utilità o vantaggio anche non patrimoniali, realizzabili con l’impossessamento della cosa mobile altrui, commesso con coscienza e volontà a danno della persona offesa.

Si ritiene, infatti, che la limitazione della punibilità alle sole ipotesi di condotta sorretta da finalità economiche comporterebbe eccessivi vuoti di tutela penale per il possesso delle cose mobili. A sostegno di tale assunto, viene richiamata una casistica già elaborata nell’ambito di un altro precedente[5],in cui si evidenzia come condotte sottrattive non sorrette da finalità di lucro economico possano comunque assurgere ad un significativo livello di offensività; le ipotesi sono: «a) la sottrazione di un bene per poi successivamente distruggerlo, in caso di impossessamento protrattosi per un periodo di tempo apprezzabile, dovendosi considerare il danneggiamento conseguente all’amotio della res quale fatto non punibile; b) il furto nell’interesse della vittima (sottrazione per impedire che il bene sia carpito o distrutto da terzi; sottrazione di cose allo scialacquatore per impedirgli di dissiparle; sottrazione di alcool all’alcolizzato), talora considerato come ipotesi di assenza del fine di profitto e quindi non punibile per carenza di dolo specifico, da risolvere invece verificando l’eventuale operatività di una causa di giustificazione; c) il furto determinato da motivazioni emulative o affettive; d) la sottrazione di beni non commerciabili».

Un altro argomento poggia sul rilievo in base al quale «il reato di furto è reato contro il patrimonio, e non a vantaggio del patrimonio dell’agente», per cui sarebbero necessariamente punibili per furto tutte le «illegittime aggressioni del patrimonio altrui» senza che possa rilevare come causa di esclusione del tipo che esse «per autonoma decisione del soggetto attivo, non si risolvono in un corrispondente arricchimento del patrimonio dell’agente»[6].

Un secondo orientamento[7], di tipo restrittivo, si è sviluppato più recentemente attraverso varie gradazioni di contrazione dell’ambito di rilevanza penale. Tra tutte le declinazioni susseguitesi nello sviluppo di tale linea interpretativa è possibile individuare un denominatore comune, che è quello di richiedere un nesso di strumentalità fra lo sfruttamento del bene rubato ed il perseguimento di un interesse proprio dell’agente: ciò ha comportato che si escludesse la sussistenza del dolo specifico di profitto allorché l’agente sottragga beni altrui per soddisfare obiettivi il cui raggiungimento prescinde da qualsiasi utilizzo degli stessi[8].

Tale lettura restrittiva, è, da ultimo, approdata all’espressa equiparazione fra fine di profitto e perseguimento di un’utilità patrimoniale[9].

La diversa interpretazione, infatti, trascurerebbe il dato sistematico rappresentato dall’inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, bene giuridico tutelato dalla norma.

Si afferma, inoltre, che l’identificazione fra lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta e la volontà genericamente intesa di trattenere il bene finirebbe per «comportare, in definitiva, l’annullamento della previsione normativa che implica la necessità del dolo specifico»[10]. Infatti, una «onnicomprensiva nozione di profitto oggetto del dolo specifico del delitto di furto, che abbraccia indistintamente sia il vantaggio economico, sia l’utilità, materiale o spirituale, sia il piacere o soddisfazione che l’agente si procuri, direttamente o indirettamente, attraverso l’azione criminosa, tradisce la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, ampliando a dismisura la sfera del furto a scapito di quella del danneggiamento o estendendola a fatti non meritevoli di sanzione penale, pervenendo, in definitiva, ad un’interpretatio abrogans del detto elemento essenziale»[11].

In base a questo orientamento, si dovrebbero tenere ben distinte la nozione di profitto da quella di vantaggio, la quale, essa sì, può avere anche natura economica o soltanto morale[12]: si tratta di due categorie fra loro distinte, come si può evincere, a titolo di esempio, dalle incriminazioni ex artt. 416-bis e 490 c.p. in cui «profitto» e «vantaggio» costituiscono due finalità, non sinonimiche, cui l’agente può aspirare.

Per dare maggior consistenza alle argomentazioni sopra esposte, non pare superfluo ripercorrere sinteticamente la casistica che ha fatto da sfondo alle pronunce dell’orientamento restrittivo.

In un caso[13], si è ritenuto non configurabile il dolo specifico in una vicenda nella quale l’agente aveva sottratto la borsa al soggetto passivo come dispetto, reazione o modalità per mantenere aperto un contatto. In un’altra vicenda[14], l’agente aveva asportato due fusibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca del magazzino dell’azienda dove lavorava e svolgeva attività di rappresentante sindacale, al fine di consentire ai colleghi di uscir fuori per protestare contro il datore di lavoro. Un ulteriore caso ha riguardato soggetti che, a meri fini dimostrativi, si erano appropriati di un rilevante numero di cani di razza per sottrarli al regime di segregazione di uno stabulario nonché una vicenda, simile a quella della sentenza qui annotata, in cui l’agente aveva sottratto alla persona offesa il telefono cellulare e gli occhiali per evitare l’intervento delle forze dell’ordine.

 

4. Nell’impostare la soluzione, le Sezioni Unite precisano la questione di diritto loro sottoposta chiedendosi «se il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, sia circoscritto alla volontà di trarre dalla sottrazione del bene una utilità di natura esclusivamente patrimoniale, ovvero possa consistere anche in un fine di natura non patrimoniale».

La soluzione è quella dell’adesione all’orientamento estensivo, che considera anche il profitto non patrimoniale come compreso dentro la nozione richiesta dal dolo specifico nei delitti di furto.

In primo luogo, la sentenza argomenta sulla compatibilità fra la soluzione ermeneutica adottata ed il principio di legalità (art. 25 co. 2 Cost.; art. 49 Carta di Nizza; art. 7 CEDU), che non risulta vulnerato allorché si faccia ricorso ad «un’interpretazione integrata, sistematica e teleologica per pervenire all’individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell’enunciato normativo», la cui portata supera la somma dei singoli termini che lo compongono.

Declinando la legalità sotto il profilo della determinatezza, il cui obiettivo è quello di assicurare «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della condotta, si rileva che tale canone non è di per sé vulnerato allorché nella disposizione vengano utilizzate «espressioni sommarie, vocaboli polisensi, clausole generali o concetti elastici, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato, permettendo al contempo, al destinatario della norma, di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»[15].

Date tali premessa, si rileva che il vocabolo “profitto” non ha, nel linguaggio comune, un significato necessariamente connesso all’ambito strettamente patrimoniale, in quanto esso si riferisce a qualsiasi giovamento o vantaggio, «fisico, intellettuale, morale o pratico».

Come per la nozione di “profitto” anche per quella di “patrimonio” si è riscontrata una certa incertezza nell’esatta individuazione del significato da attribuire alla nozione, essendo prevalsa una concezione giuridica di tipo funzionale, personalistico ed economico che fa coincidere il patrimonio con il complesso dei rapporti giuridici facenti capo ad una persona ed aventi per oggetto cose dotate di funzione strumentale in quanto idonee a soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali. Argomentando a contrario, la tecnica legislativa di precisare, nell’ambito di talune fattispecie, che oggetto del dolo specifico deve essere il solo “vantaggio”, solo o unitamente al profitto (art. 416-bis c.p. e art. 490 c.p.), viene ritenuta «univocamente indicativa di una scelta, sia pure in ambito giuridico, di circoscrivere la nozione di profitto all’ambito lucrativo, una volta che nessun dato obiettivo vale a giustificare quest’ultima limitazione».

Ulteriore conforto a tale approdo ermeneutico è dato dall’interpretazione storica, in base alla quale il “profitto” sarebbe, come nozione, contrapposto al “lucro”, come tratto dalla Relazione al progetto definitivo del Codice penale in cui si legge che «la esattezza della soluzione adottata discende dal concetto di profitto accolto dal Progetto, in conformità dei risultati della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relativi al contenuto di tale obbiettività del reato considerato dall’articolo 402 del codice in vigore. “Trarre profitto”, si insegna, è procurarsi un vantaggio, a cui non si ha diritto […]».

La motivazione prosegue articolando considerazioni di ordine sistematico sul piano della funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, presidiata dalla previsione del dolo specifico come elemento di limitazione dell’ambito di rilevanza penale all’interno dei delitti di furto.

Ciò che afferma la motivazione è che tale funzione limitativa non viene vulnerata solo in ragione della lettura estensiva che della nozione di profitto viene data, in quanto il profitto rilevante come oggetto di dolo specifico delimita l’elemento oggettivo del reato rispetto alla mera condotta di sottrazione ed impossessamento: esso è quello che, «indipendentemente dalla sua idoneità ad essere apprezzato in termini monetari, viene tratto immediatamente dalla costituzione dell’autonoma signoria sulla res e no quello che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall’illecito», quest’ultima funzionale «alla conservazione, all’uso, al godimento o al compimento di un qualunque atto dispositivo».

Si registra, inoltre, un’aporia nell’orientamento minoritario allorché in base ad esso il patrimonio comprenderebbe anche cose prive di valore puramente economico allorquando si tratti del titolare del bene aggredito mentre lo si vorrebbe circoscritto ai soli vantaggi meramente patrimoniali nel caso in cui venga in rilievo l’incremento perseguito dall’autore della condotta.

Altro «elemento di scarsa linearità ricostruttiva» proprio di tale orientamento è riscontrato nella parte in cui esso identifica il dolo specifico nella «finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione». Le Sezioni Unite riconducono tale puntualizzazione ad un’impostazione personalistica accolta dall’orientamento minoritario che pare finalizzata a «superare i difetti di tutela che scaturiscono dalla rilevanza assegnata ai soli vantaggi economici». Su questo versante, tuttavia, si rileva che l’appiattimento della nozione di “profitto” ai soli vantaggi patrimoniali relega le ulteriori componenti non patrimoniali all’area del movente, irrilevante per il perfezionamento della fattispecie incriminatrice, senza che, tuttavia, fornire una compiuta spiegazione rispetto all’utilità euristica assunta dall’indicazione dei bisogni (anche) personali che l’impossessamento dovrebbe soddisfare.

Date tali premesse, si comprende perché le Sezioni Unite ritengano significative e rilevanti ai sensi dei delitti di furto anche condotte di impossessamento al fine di trarre vantaggio dal mero uso del bene, cui si accompagna l’impossibilità di farne uso per il precedente titolare: tale atto è ritenuto penalmente rilevante come furto in quanto indiscutibilmente finalizzato a privare il titolare del godimento di un bene che rientra nella sua titolarità.

Ciò non di meno, la Corte non si esime da considerazioni in punto di offensività, evidenziando come l’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p., oggi comprensivo anche del furto monoaggravato) costituisca uno strumento importante già sul piano dell’an della responsabilità penale, demandando alla discrezionalità del giudice «il giudizio sulla “qualità” della responsabilità dell’imputato, consentendo di escludere l’applicazione della sanzione anche in ragione dell’innovativa previsione che assegna rilievo alla condotta susseguente al reato».

 

***

 

5. Come già rilevato in dottrina[16], commentando l’ordinanza di rimessione, la questione dell’oggetto del dolo specifico di profitto riveste una cardinale portata sistematica in quanto involge svariate fattispecie incriminatrici (artt. 518-bis, 624, 624-bis, 626 c.p.) in cui è richiesto che l’agente abbia agito col fine di trarre profitto per sé o altri.

Muovendo dall’argomento letterale, pare condivisibile il rilievo di chi[17] ha negato possa trattarsi di un dato dirimente sul rilievo che il lemma “profitto”, seppur ampiamente utilizzato in senso economico come sinonimo di “guadagno” rappresentato dalla differenza positiva fra ricavi e costi, è ampiamente diffuso nel linguaggio corrente con un’estensione di significato decisamente più ampia in base alla quale si associa alla nozione di “profitto” qualsiasi giovamento, anche di natura spirituale, che venga tratto da un’attività umana. Sul punto, pertanto, nessun rilievo può credibilmente essere mosso all’impianto argomentativo della sentenza che qui si commenta.

L’eventuale adesione all’orientamento restrittivo, dunque, andrebbe argomentata sulla base di altro ordine di ragioni che smentiscano la bontà della conclusione accolta dalle Sezioni Unite.

Di sicura suggestione è l’argomento sistematico della collocazione dei delitti di furto nell’ambito di quelli contro il patrimonio[18]: Rispetto ad esso, tuttavia, si deve senza dubbio evidenziare che oggetto della tutela è il patrimonio del soggetto passivo, il quale può senza dubbio risultare leso anche nel caso in cui l’intento dell’agente sia quello di soddisfare bisogni di tipo non economico.

Non trova, condivisibilmente, spazio nell’impianto della motivazione delle Sezioni Unite l’argomentazione fondata sul vuoto di tutela che deriverebbe dall’accoglimento dell’orientamento restrittivo. Sul punto, è già stato segnalato nei commenti all’ordinanza di rimessione[19] che nessun pregio potrebbe riservarsi a tale rilievo, che è, anzi, del tutto fisiologico in un sistema penale caratterizzato dai principi di frammentarietà e sussidiarietà, che, soprattutto nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, comporta la descrizione di illeciti che tali sono solo in ragione di particolari caratteristiche della lesione[20].

Desta, tuttavia, perplessità l’adesione all’orientamento estensivo.

In primo luogo, come già evidenziato in un commento all’ordinanza di rimessione[21], il furto si caratterizza per il dolo specifico di trarre profitto dalla cosa e non un mero vantaggio derivante dalla condotta: è dall’immediato rapporto con la cosa di cui l’agente si appropria, sottraendola a chi la detiene, che egli trae vantaggio.

Proprio sulla base di tale rilievo, è possibile distinguere tra dolo specifico e movente: se l’appropriazione di un bene altrui è sorretta da finalità diverse rispetto a quelle di arricchimento patrimoniale, è difficile sostenere che si sia integrato il requisito normativo previsto.

La motivazione fornita dalle Sezioni Unite su questo profilo è poco soddisfacente nella parte in qui afferma che «il dolo specifico non è che un movente qualificato, che si colloca al di là della coscienza e volontà del fatto»: si tratta di un’argomentazione anodina e sostanzialmente autoreferenziale che non pare adeguatamente confrontarsi con la declinazione nell’ambito della teoria generale del reato delle categorie esaminate.

Infatti, mentre il dolo specifico rappresenta sempre lo scopo immediato che contraddistingue la prospettiva teleologica dell’azione (l’agente agisce con l’immediata finalità di arricchire il proprio matrimonio), invece il movente, è uno scopo qualsiasi, anche recondito, che rileva in punto di dosimetria sanzionatoria (art. 133 c.p.). In definitiva, dunque, come rilevato in dottrina[22] il dolo specifico deve perspicuamente inquadrarsi dal punto di vista della teoria generale del reato nell’ambito dell’elemento oggettivo (c.d. tipicità): esso esprime, e, di conseguenza, è suscettibile di accertarsi, solo come specifica modalità dell’azione, nel senso che in tanto potrà ritenersi integrato in quanto la condotta dell’agente appaia prima facie idonea al raggiungimento dello scopo, ossia, nel caso del furto, idonea a stabilizzare il possesso del bene sottratto in favore dell’agente, arricchendone il patrimonio.

Ciò su cui bisogna intendersi è, quindi, l’ubi consistam dell’arricchimento patrimoniale: è opinione ormai unanime nell’ermeneutica penalistica[23], che la nozione di patrimonio in senso penalistico non è quella propria del diritto privato (art. 2740 c.c.) che si caratterizza per l’essere ristretta al complesso di rapporti giuridici economicamente valutabili che fanno capo ad una persona. Non v’è dubbio, infatti, che per il diritto penale il patrimonio deve essere inteso in senso giuridico e non economico per cui di esso fano parte anche beni privi di valore economico che, tuttavia, rientrano nella disponibilità del soggetto passivo e vengono a lui sottratti in conseguenza della condotta furtiva.

Dunque, al di là della dicotomia tra “patrimoniale” e “non patrimoniale”, che, come tutte le astrazioni, rischia di risolversi in una petizione di principio non del tutto pregna di efficacia euristica nella soluzione dei casi concreti, ciò su cui imperniare l’analisi dei delitti di furto dovrebbe essere la nozione di impossessamento, perché è l’idoneità della condotta a far conseguire il possesso ad integrare il dolo specifico, in quanto esprime, per relationem, l’idoneità a trarre profitto dalla condotta. In tanto sussiste furto, infatti, in quanto l’agente voglia trarre profitto da un’indebita appropriazione stabile della cosa, espropriando il previo possessore della disponibilità di essa.

Così pensata la struttura dell’illecito diviene immediatamente più semplice risolvere anche i casi più perplessi che hanno dato la stura al contrasto giurisprudenziale: indipendentemente dal movente, “patrimoniale” o meno che sia, può ritenersi sussistente il furto ogni volta che il possesso del bene sottratto sia strumentale al conseguimento di una utilitas per l’agente.

Si pensi proprio all’ipotesi della sottrazione del telefono cellulare alla vittima per evitare che essa contatti le forze dell’ordine: quest’ipotesi può sussumersi nella fattispecie di furto constatando che l’agente agisce al fine di trarre profitto attraverso l’arricchimento, anche momentaneo, del proprio patrimonio, che risulta incrementato del bene sottratto, e ciò indipendentemente dalla “patrimonialità” o meno che sorregge il suo agire, che a nulla rileva sul piano della tipicità ed è, invece, valutabile come movente dell’azione.

Tale argomentazione, pare trarre conforto nella più attenta dottrina che ha approfondito lo statuto giuridico del patrimonio e del profitto in chiave penalistica[24].

Nello studio dei delitti contro il patrimonio, infatti, una classificazione ricorrente è quella che distingue fra reati che si realizzano attraverso un trasferimento patrimoniale e reati che consistono in un puro danneggiamento o dispersione di poste patrimoniali del soggetto passivo.

In base a questa tassonomia, il furto rientra sicuramente nel primo gruppo di fattispecie in quanto si perfeziona con l’impossessamento mediante sottrazione al detentore della cosa mobile altrui: tale è la tipicità dell’illecito.

Orbene, se, in ossequio al principio di materialità, il dolo specifico deve intendersi come ulteriore connotato della tipicità, allora esso deve essere descritto in termini di idoneità della condotta ad incrementare la consistenza del patrimonio dell’agente a scapito del soggetto passivo.

Così opinando, a nulla rileva che il lucro perseguito sia misurabile in moneta, né, tantomeno, che il bene oggetto materiale del furto abbia lo stesso valore per chi lo consegue e per chi lo perde: ciò che importa è che vi sia trasferimento della disponibilità del bene e che la condotta esprima ex ante l’idoneità a realizzare tale trasferimento, consentendo all’interprete di inferire che l’incremento patrimoniale, elemento il cui effettivo conseguimento non necessario è per il perfezionamento del reato, abbia rappresentato il fine immediato dell’agente, ciò che corrisponde, per l’appunto, alla definizione più accreditata di dolo specifico.

Del pari poco pertinenti appaiono le premesse sul metodo interpretativo in cui la Corte si profonde per giustificare la propria opzione alla luce dei principi di legalità e determinatezza: esse appaiono, più che altro, come altrettante excusationes non petitae in cui si richiamano consolidati stilemi retorici sulla necessità di interpretare sistematicamente anche in chiave teleologica la connessione fra i sintagmi letterali che compongono le disposizioni della legge.

Sul punto, nessun dubbio è prospettabile né mai stato prospettato, e, dunque, sono condivisibili, in quanto ovvie, le considerazioni svolte.

Il tema è, invece, di più stretta (e “modesta”), interpretazione normativa e si risolve, come si è cercato di dimostrare, collocando rigorosamente il dolo specifico nella struttura dell’illecito: se esso, come si crede, è da ascriversi all’ambito della tipicità, allora, presupposta una nozione di profitto come incremento del patrimonio, sarà agevole inferirne la sussistenza dall’idoneità della condotta a conseguirlo. Viceversa, continuare a collocare il dolo specifico dentro la colpevolezza, oltre a sminuirne la portata euristica sul piano dell’accertamento probatorio, per l’ovvia considerazione di quanto sia difficile scrutinare in interioritate hominis, rischia di comportare inevitabili confusioni, del tipo di quelle in cui incorre la sentenza in commento, tra profitto e movente.

 

 

[1] Per un’esaustiva ricostruzione dei termini del contrasto, cfr. i commenti sull’ordinanza di rimessione di A. Aimi, La nozione di dolo specifico al vaglio delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 15 febbraio 2023 e M. Bianchi, Sei distinzioni sul profitto nel furto, in questa Rivista, 28 febbraio 2023. In particolare, nel primo contributo è contenuta un’ampia ricostruzione storica delle origini del contrasto, che risalgono a Cas., pen., Sez. II, 25 giugno 1991, n. 11027, una pronuncia, all’epoca «isolatissima» (nota 1) in cui venne esclusa l’integrazione del dolo specifico del furto in un caso di sottrazione di un estintore con l’intento «puramente scherzoso» di scaricarlo verso alcuni amici nel corso della notte di Capodanno.

[2] Cass., pen., Sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073

[3] Cass. pen., Sez. II, 13 gennaio 1976, n. 7262; Cass. pen., Sez. II, 6 marzo 1978, n. 9411; Cass. pen., Sez. II, 26 aprile 1983, n. 9983; Cass. pen., Sez. II, 12 febbraio 1985, n. 4471; Cass. pen., Sez. IV, 18 settembre 2009, n. 47997; Cass. pen., Sez. V, 16 febbraio 2012, n. 19882; Cass. pen., Sez. IV, 18 settembre 2012, n. 30/2013; Cass. pen., Sez. II, 9 ottobre 2012, n. 40631; Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2019, n. 11225; Cass. pen., Sez. IV, 26 novembre 2019, n. 13842; Cass. pen., Sez. IV, 6 ottobre 2021, n. 4144.

[4] In dottrina, questa lettura è fatta propria da F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale. I, Milano, 2016, pp. 389-390; C. Baccaredda Boy, S. Lalomia, I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in G. Marinucci, E. Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale – Parte speciale, Padova, 2010, pp. 148-149

[5] Cass. Sez. IV, 26 novembre 2019, cit.

[6] Cass. pen., Sez. II, 12 febbraio 1985, cit.

[7] Cass. pen., Sez. V, 13 dicembre 2006, n. 4975; Cass. Pen., Sez. VI, 19 settembre 2001, n. 40351; Cass. pen., Sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073; Cass. pen., Sez.  V, 5 aprile 2019, n. 25821; Cass. pen., Sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438; Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421.

[8] La casistica, ben ricostruita da A. Aimi, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, cit., p. 23 ha riguardato i casi di un fotografo che, con l’obiettivo di tutelare la propria attività commerciale e le sue pertinenze, spostava alcuni cartelli posti davanti all’ingresso da un altro commerciante e li posizionava nel proprio negozio; della sottrazione di un cellulare per impedire alla vittima di corteggiare la fidanzata dell’imputato; della sottrazione di un lucchetto per finalità di vandalismo da parte di uno studente.

[9] A livello dottrinale, aderiscono all’orientamento restrittivo G. Leone, Per una revisione del concetto di profitto nel delitto di furto, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1954, pp. 425-427; G. Pecorella, voce Furto in Enciclopedia del diritto, XVIII, Milano, 1969, pp. 348-350; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2019, pp. 70ss., E. Mezzetti, Reati contro il patrimonio, in C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro (diretto da), Trattato di diritto penale, Milano, pp. 111-115

[10] Cass. pen., Sez. V, 23 gennaio 2019, cit.

[11] Cass. pen., Sez. V, 1 luglio 2019, cit.

[12] Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2022, cit.

[13] Cass. pen., Sez. V, 23 gennaio 2018, cit.

[14] Cass. pen., Sez. V, 5 aprile 2019, cit.

[15] Così si esprime la motivazione (pp. 8 e 9), riprendendo quanto argomentato in Corte cost., sent. n. 278 del 2019

[16] Cfr. A. Aimi, op. cit.., p. 19

[17] Cfr. A. Aimi, op. cit., p. 25

[18] Accolto da G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., pp. 70-71; E. Mezzetti, op. cit., pp. 111-112; G. Pecorella, op. cit., p. 352

[19] Cfr. A. Aimi, op. cit., p. 27-.29, in cui vengono passati in rassegna i casi problematici che fanno da sfondo all’orientamento estensivo. In particolare, si evidenzia come i furti seguiti da danneggiamento, quelli commessi nell’interesse del proprietario, quelli emulativi ed affettivi e quelli di beni non commerciabili, «il fatto – se anche fosse stato considerato lecito nell’ottica del Titolo XIII – avrebbe comunque potuto essere considerato penalmente rilevante se osservato da altre prospettive; vale a dire, quale fatto lesivo della libertà di autodeterminazione della vittima». Sarebbe punibile per violenza privata (art. 610 c.p.) qualsiasi sottrazione produttiva di un effetto restrittivo/impeditivo dell’autodeterminazione della persona offesa. Nessuna difficoltà potrebbe addursi rispetto all’incriminazione per danneggiamento (art. 635 c.p.) nelle ipotesi di sottrazione immediatamente seguita da distruzione del bene, in quanto, non essendo integrato il delitto di furto, non potrebbe certo ritenersi assorbito quello di danneggiamento. Rispetto ai beni non commerciabili, non v’è dubbio che essi possano costituire oggetto materiale di furto in quanto (si pensi all’ipotesi della sottrazione di droga da rivendere sul mercato) l’impossessamento ben potrebbe essere sotteso da finalità di arricchimento economico-patrimoniale. Quanto ai furti commessi nell’interesse del proprietario, è indubitabile che tale finalità valga di per sé ad escludere la presenza del reato, sia perché il dolo specifico richiesto dall’art. 624 c.p. richiede che il profitto sia perseguito «per sé o per altri» sia perché è lo stesso ordinamento, con l’istituto della gestione d’affari altrui (art. 2031 c.c.), a prevedere la possibilità che, in chiave solidaristica (art. 2 Cost.) taluno possa ingerirsi nella gestione dei beni e dei rapporti giuridici di altri. Rimarrebbero esclusi dal novero dei fatti penalmente rilevanti solo i furti emulativi o affettivi, ma in relazione ad essi non pare irragionevole accettare tale vuoto di tutela, anche in considerazione dell’ampia tutela accordata sul piano civilistico alla vittima di una spoliazione non violenta.

[20] G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., p. 13; F. Mantovani, op. cit., pp. 10-11; F. Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano, 1980, pp. 94-95

[21] M. Bianchi, Sei distinzioni sul profitto nel furto, in Sistema Penale, 28 febbraio 2023

[22] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2023, p.

[23] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Milano, 2008, p. 279

[24] C. Pedrazzi, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Urbino, 1956, pp. 36-39