Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Carla Cataneo (artt. 3, 8 e 10 Cedu) e Serena Chionna (art. 6 Cedu).
In aprile abbiamo selezionato pronunce relative a: isolamento di sei mesi all’interno di un centro per i rimpatri (art. 3 Cedu); incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del procedimento (art. 6 Cedu); imparzialità oggettiva del giudice con riferimento alla composizione della corte (art. 6 Cedu); rilevanza dei legami famigliari di un soggetto destinatario di espulsione a seguito condanna per illeciti penali (art. 8 Cedu); divieto di accesso in un luogo istituzionale a seguito di una manifestazione di protesta (art. 10 Cedu).
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, 18 aprile 2023, N.M. c. Belgio
Trattamenti inumani e degradanti – Isolamento di sei mesi durante i trentuno mesi di permanenza in un centro per i rimpatri – non violazione
Il ricorrente è un cittadino algerino che è stato trattenuto nel Centro di permanenza per i rimpatri di Vottem, in Belgio, per 31 mesi, in attesa di essere espulso, dopo aver subito una condanna per associazione terroristica nel 2018 ed essere stato giudicato pertanto un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il ricorrente lamenta che la condizione di isolamento, cui è stato sottoposto per sei mesi, e la mancanza di cure adeguate abbiano inciso sulla sua salute mentale nonché sulle sue capacità cognitive e sociali, integrando un trattamento inumano e degradante, in violazione dell’art. 3 CEDU. Prima di entrare nel merito del ricorso, la Corte ribadisce il suo costante orientamento secondo cui, sebbene non sia auspicabile l’allontanamento prolungato da qualsiasi relazione sociale, l’isolamento di per sé non costituisce una violazione dell’art. 3 CEDU e l’ambito di applicazione del parametro convenzionale dipende, in questi casi, dalle specifiche circostanze del caso concreto, ovvero dalla gravità e dalla durata della misura adottata, dall’obiettivo con essa perseguito e dai suoi effetti sulla persona interessata. Tanto chiarito, i giudici di Strasburgo sottolineano che il ricorrente è stato posto in un’ala speciale per soggetti considerati pericolosi, in cui era sottoposto ad un regime di isolamento parziale, il cui scopo era quello di evitare il rischio di proselitismo e di reclutamento nei confronti degli altri ospiti della struttura, che si era già concretizzato in alcune occasioni in cui il ricorrente era stato sottoposto al regime di gruppo ordinario. Secondo la Corte, inoltre, la prova della sua pericolosità, che rende legittima l’adozione di tale misura, emergeva da atti delle competenti autorità belghe, risalenti al 2017, che classificavano il ricorrente al livello 3 su 4 della scala di gravità della minaccia terroristica ed estremista, avendo aderito attivamente ad un gruppo terroristico durante il suo soggiorno in Siria. Per contro, rileva la Corte, non risulta che la detenzione del ricorrente all’interno dell’ala speciale abbia inciso sulla sua salute fisica o mentale, posto che risulta che egli abbia avuto accesso ai servizi di un medico e abbia ricevuto visite giornaliere da un’infermiera del centro. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ritiene che il ricorrente non sia stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e che non sussista pertanto la violazione dell’art. 3 CEDU. (Carla Cataneo)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II Comit., sent. 4 aprile 2023, Dimchevska c. Macedonia del Nord
Equità processuale – mancata conoscenza del procedimento e impossibilità di notificare la sentenza di condanna – mancata garanzia di restitutio in integrum per incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del procedimento – violazione
Il tribunale macedone condannava la ricorrente per reato di falso all’esito di un procedimento “scritto” che non richiedeva, cioè, la presenza dell’imputato e la cui conoscenza si perfezionava solamente tramite la notifica della sentenza, che però risultava impraticabile (in quanto la destinataria si trovava all’estero) (§ 2, §§10-12). In ragione dell’impossibilità di impugnare la sentenza (che avrebbe aperto una fase “in contraddittorio”), nemmeno tramite l’avvocato nominato d’ufficio, quest’ultima passava in giudicato. Dopo due anni, la ricorrente veniva a conoscenza della condanna in altro processo di cui era parte e immediatamente proponeva istanza di riapertura (anche per emersione di nuove prove), che veniva però rigettata (§§ 3-4). Lamentando la violazione dell’art. 6 Cedu, in quanto non le era stata garantita la possibilità di ottenere una nuova decisione sulla propria responsabilità a seguito della sua condanna in contumacia, la condannata ricorre alla C.edu. Nella motivazione della decisione, richiamati i principi già enunciati nel caso Sejdovic c. Italia del 2006, la Corte ribadisce che, affinché un procedimento svolto in contumacia possa considerarsi conforme alle garanzie assicurate dall’art. 6 della Convenzione, il condannato deve essere posto nelle condizioni di ottenere una nuova pronuncia, a meno che non si dimostri che egli abbia inequivocabilmente rinunciato a comparire e difendersi, ovvero che intendeva sottrarsi al processo (§ 10). Nel caso di specie, non essendo stata la ricorrente nelle condizioni di conoscere il procedimento, in quanto i due tentativi di notifica non erano andati a buon fine, non si può ritenere che essa abbia tacitamente rinunciato al suo diritto di partecipare al procedimento, né che vi si sia volontariamente sottratta (§ 13 e § 15). Inoltre, la circostanza di non aver denunciato la sua assenza dallo Stato convenuto rappresenta un mero illecito amministrativo né, d’altra parte, è possibile addebitarle la mancata impugnazione da parte del difensore d’ufficio: ragioni che non possono in alcun modo prevalere sul diritto a un giusto processo garantito in una società democratica (§§ 13-14). Per questi motivi la Corte europea riconosce e dichiara la violazione dell’art. 6 Cedu, costituendo la mancata ripetizione del processo un’ipotesi di diniego di giustizia (§10 e § 16). (Serena Chionna)
Riferimenti bibliografici: H. Belluta, Corte europea e giudizio in absentia: senza conoscenza effettiva e rimedi efficaci, il processo è unfair, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1824.
C. eur. dir. uomo, sez. I Comit., sent. 6 aprile 2023, Leszkò c. Ungheria
Equità processuale – tribunale imparziale – condanna in appello da parte di un collegio composto dagli stessi giudici che avevano precedentemente annullato e rinviato il processo in primo grado conoscendone il merito – violazione
Il ricorrente impugnava una sentenza di condanna in primo grado per corruzione emessa nei suoi confronti. La corte d’appello, rilevati vizi procedurali e motivazionali, annullava la sentenza con rinvio ad un diverso giudice di primo grado, al fine di consentire il riesame delle prove e l’integrazione della motivazione secondo diversi criteri (§ 3). Il nuovo giudice di primo grado condannava il ricorrente per un reato più grave (abuso d’ufficio) e la relativa sentenza veniva nuovamente impugnata dal ricorrente dinnanzi alla corte d’appello. Quest’ultima, in composizione collegiale identica al primo giudizio di appello, confermava la condanna, pur riducendo la pena (§§ 4-5). Le censure di difetto di imparzialità del collegio, sollevate dal ricorrente dinnanzi alla medesima corte d’appello e alla Corte costituzionale non trovavano accoglimento (§§ 5-6). Il condannato ricorreva, dunque, alla C.edu, lamentando la violazione dell’art. 6 Cedu. Nella motivazione della propria decisione, la Corte di Strasburgo ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo il quale l’imparzialità di un tribunale può essere valutata alternativamente sia sotto un profilo soggettivo (con riferimento, cioè, alle convinzioni personali o ai comportamenti del giudice), sia sotto un profilo oggettivo (assenza di garanzie sufficienti ad escludere ogni dubbio circa il difetto di imparzialità) (§§ 10-12). Escluso il primo profilo, la Corte europea ritiene che nel caso di specie la circostanza per la quale la sentenza di appello fosse stata pronunciata da un collegio composto dagli stessi giudici che hanno precedentemente conosciuto il merito della controversia è tale da rendere giustificati i dubbi del ricorrente circa l’effettiva imparzialità dell’organo giudicante (§§ 13-17). Per questi motivi la Corte europea riconosce e dichiara la violazione dell’art. 6 Cedu. (§§ 18-19). (Serena Chionna)
Riferimenti bibliografici: F. Ertola, Esigenze di imparzialità nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 2235.
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 11 aprile 2023, Loukili c. Paesi Bassi
Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Espulsione di uno straniero con legami familiari e figli minori nel Paese dal quale viene allontanato – divieto di reingresso per i successivi dieci anni – adeguata valutazione dell’interesse dei figli minori – mancanza di prova dell’intensità dei rapporti tra padre e figli – non violazione
Il ricorrente è un soggetto di nazionalità marocchina che nel 1981, all’età di tre anni, si è trasferito nei Paesi Bassi con la sua famiglia e nel 2001 ha ottenuto un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Ha avuto due figli, che hanno nazionalità olandese, nel 2008 e nel 2014, da una relazione con una cittadina olandese. Tra il 2004 e il 2016, il ricorrente ha commesso diversi reati, per cui è stato condannato in via definitiva, legati al possesso e alla cessione di sostanze stupefacenti, nonché lesioni personali, danneggiamento e ricettazione, che hanno determinato nel 2017 la revoca del permesso di soggiorno a tempo indeterminato e il conseguente provvedimento di espulsione, con un ulteriore divieto di reingresso nel Paese della durata di 10 anni. Il ricorrente ritiene che tale decisione risulti sproporzionata e integri una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, in contrasto con l’art. 8 CEDU, poiché le autorità avrebbero assunto la decisione contestata senza considerare che essa pregiudica irrimediabilmente i suoi legami familiari e, in particolare, il prioritario interesse dei figli minori a mantenere un rapporto con la figura paterna. La Corte di Strasburgo, nel valutare la proporzionalità in concreto della misura contestata, ritiene che le autorità olandesi, nell’adottare la decisione di espellere il ricorrente – immigrato che ha trascorso la maggior parte della sua vita nei Paesi Bassi – abbiano operato un ragionevole bilanciamento tra l’interesse del ricorrente a mantenere i legami familiari, in particolare con i suoi figli, e l’interesse pubblico al mantenimento dell’ordine e della sicurezza, poiché hanno adeguatamente valutato nello specifico la gravità dei reati commessi – in particolare, quelli legati alle sostanze stupefacenti— il loro rilevante impatto sulla salute pubblica nonché la loro reiterazione, da cui emerge la mancanza della volontà, da parte del ricorrente, di rispettare la legge olandese. In particolare, nel valutare l’interesse dei figli minori, la Corte sottolinea che ha avuto un peso decisivo la circostanza che i figli del ricorrente abbiano sempre vissuto solo con la madre, poiché il padre è rimasto in stato di detenzione per la maggior parte delle loro vite, e che non sia stata pertanto dimostrata l’intensità dei contatti tra loro. In ogni caso, secondo i giudici di Strasburgo, nulla impedirebbe ai suoi figli e alla loro madre di visitare il ricorrente in Marocco o di mantenere con lui contatti telefonici. Nel ritenere legittima la decisione delle autorità olandesi, assumono inoltre rilevanza la prova dell’esistenza di un perdurante legame sociale e culturale del ricorrente con il suo paese d’origine nonché la previsione della durata temporanea del divieto di reingresso, che sarebbe venuto meno trascorsi dieci anni. Per tali ragioni, la Corte rigetta il ricorso, non ritenendo sussistente la violazione dell’art. 8 CEDU. (Carla Cataneo)
ART. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 6 aprile 2023, Drozd c. Polonia
Libertà di espressione – Divieto di accesso nei locali del Parlamento per un anno per aver esposto uno striscione – valutazione della necessità della misura e della legittimità della finalità con essa perseguita – violazione
I ricorrenti sono due cittadini polacchi, membri del movimento civico “Cittadini della Repubblica polacca (Obywatele RP)”, abitualmente impegnato in proteste politiche. Nel 2017 presero parte ad una manifestazione pacifica svoltasi al di fuori del Sejm – la camera bassa del parlamento polacco – contro le riforme del sistema giudiziario. In quell’occasione, furono concessi ai ricorrenti e ad altri manifestanti dei pass d’ingresso per poter assistere al relativo dibattito parlamentare e, mentre stavano entrando, esposero uno striscione con la scritta “Difendi i tribunali indipendenti (Brońcie niezależnych sadów)”. Dopo tale gesto, furono immediatamente espulsi e fu vietato loro di entrare all’interno del Sejm per un anno. Contro tale provvedimento non era ammessa alcuna possibilità di impugnazione. Pertanto, i ricorrenti ritengono che la decisione adottata dalle autorità polacche non fosse legittimata dalla necessità di prevenire l’interruzione dei lavori parlamentari e violasse in modo ingiustificato il loro diritto alla libertà di espressione. I giudici di Strasburgo, pur ribadendo che il divieto imposto ai ricorrenti avesse una base normativa nel diritto interno, ritengono che esso abbia interferito in modo ingiustificato con il loro diritto di manifestare liberamente il pensiero. Nel bilanciare la necessità del Parlamento di mantenere uno svolgimento ordinato delle attività parlamentari e l’interesse dei cittadini a ricevere informazioni di prima mano su un’importante questione sociale, la Corte sottolinea che doveva effettuarsi una distinzione tra gli episodi e le contestazioni verificatisi all’esterno dell’edificio e quelli accaduti invece all’interno dello stesso, che avevano realmente interferito con il regolare svolgimento del dibattito parlamentare. Secondo la Corte, dagli atti del fascicolo non emerge che i ricorrenti avessero intralciato in alcun modo i lavori parlamentari. In ogni caso, anche se così fosse stato, doveva essere garantita loro la possibilità di impugnare e contestare l’ordinanza che stabiliva il divieto d’accesso. Pertanto, la Corte ha concluso che l’interferenza con il diritto alla libertà di espressione dei ricorrenti non risultasse “necessaria in una società democratica” e che sussistesse la violazione dell’art. 10 CEDU. (Carla Cataneo)
Riferimenti bibliografici: A. Faina, Gli incerti confini giurisprudenziali delle ingerenze nella libertà d’espressione in ambito elettorale. La Corte Edu tra esigenze di tutela dei valori di una società democratica e pluralista e rispetto del libero dibattito politico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, fasc. 1, pag. 568.