Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Mario Nicolini (artt. 3 e 10 Cedu) e Pietro Zoerle (artt. 5 e 6 Cedu).
In dicembre abbiamo selezionato pronunce relative a: obblighi delle autorità di perseguire gli abusi sessuali in ambito famigliare (art. 3 Cedu); controllo di attendibilità delle prove poste alla base dell’arresto dei sospetti autori del reato (art. 5 Cedu); omessa motivazione del diniego di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art. 6 Cedu); immunità parlamentare per dichiarazioni diffamatorie (art. 6 Cedu); Condanna a pena pecuniaria per provocazione alla discriminazione e all’odio religioso (art. 10 Cedu).
ART. 3 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. I, 1 dicembre 2022, D.K. c. Italia
Abusi sessuali in ambito famigliare – Diligenza delle autorità nazionali nel condurre indagini – improcedibilità per decorso del termine per la proposizione della querela – non violazione
La ricorrente si duole di aver subito abusi sessuali dallo zio, cui era affidata mentre i genitori erano al lavoro tra il 1974 ed il 1987, sia in casa che presso il suo studio professionale: dopo un lungo periodo in cui la vittima, sentendosi fortemente responsabile per quanto accadutole, non si era confidata con nessuno, una volta trasferitasi in altra città e rivelati gli episodi alla madre, veniva a conoscenza che i medesimi fatti erano occorsi anche alla sorella. Dopo aver intrapreso un percorso terapeutico assieme a quest’ultima, nel 1998 le due decidevano di consultare un legale, il quale consigliava di risolvere la controversia in via conciliativa. Esperito inutilmente un tentativo in tal senso, la ricorrente si risolveva a presentare una denuncia penale il 5 febbraio 1999. All’esito di indagini preliminari nell’ambito del quale venivano acquisite sia una consulenza tecnica che il contributo testimoniale della madre, la Procura della Repubblica richiedeva, in data 12 luglio 1999 di archiviare il procedimento per tardività della querela: a tale conclusione, a parere dell’Autorità Giudiziaria, si sarebbe pervenuti sia applicando lo statuto normativo vigente all’epoca dei fatti, in relazione alle originarie imputazioni di violenza carnale ed atti di libidine violenta che quello, più favorevole alla persona offesa, stabilito all’art. 609 co. 2. A seguito del decreto di archiviazione pronunciato dal Giudice per le indagini preliminari il 15 gennaio 2003, la ricorrente conveniva lo zio, il 29 aprile 2005 in un giudizio civile di responsabilità per danni, risultando, del pari, soccombente per intervenuta prescrizione dell’illecito aquiliano, come da sentenza del Tribunale di Genova de 10 dicembre 2007. Pur disattendendo l’eccezione di prescrizione opposta dal convenuto, tuttavia la Corte d’Appello, cui la sentenza era stata impugnata, rigettava nel merito la domanda risarcitoria ritenendo l’inattendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie, anche in ragione del notevole lasso di tempo trascorso, e delle testimonianze de relato acquisite sul punto. Tale impianto motivazionale veniva confermato dalla Corte di Cassazione con successiva sentenza del 9 agosto 2016 (§§ 1-20). Prima di esprimersi in diritto sulla violazione dell’art. 3, la Corte richiama, anche in chiave diacronica, la normativa rilevante, sia nazionale che sovranazionale, dando ampiamente conto dei significativi interventi di riforma (in particolare la L. 15 febbraio 1996, n. 66) che hanno interessato la disciplina (§§ 21-47). In via di premessa (§ 49), viene chiarito come l’oggetto del giudizio concerna la sola violazione dell’art. 3 della Convenzione, senza involgere profili di qualificazione giuridica dei fatti contestati che esulano dall’ambito della giurisdizione convenzionale. Richiamandosi a propri orientamenti consolidati, la Corte ricostruisce il contenuto dell’art. 3 come fonte da cui derivano, in campo agli Stati contraenti, obblighi di condurre indagini ufficiali ed effettive che consentano un completo accertamento dei fatti, nonché l’identificazione e la punizione delle persone individuate come responsabili. Si ribadisce, altresì, che tale obbligo si estende anche a fatti concernenti abusi di natura sessuale, i quali, in base al diritto, anche sovranazionale, applicabile sono sussumibili dentro la fattispecie dei trattamenti inumani e degradanti (§§ 66). Viene richiamata la circostanza in base alla quale (§ 69), pur a fronte della ritenuta tardività della denuncia, comunque le autorità investigative dello Stato contraente hanno condotto regolari indagini preliminari secondo quanto previsto dal Codice di procedura penale, acquisendo sia una consulenza tecnica che il contributo testimoniale della madre. Poste tali premesse, l’oggetto del giudizio viene individuato dalla Corte nel senso di dover stabilire se dall’omessa applicazione delle norme penali rilevanti nel caso di specie sia derivata una violazione dell’art. 3 della Convenzione, anche in considerazione del fatto che non sia stato previsto un meccanismo di diritto intertemporale maggiormente protettivo per le vittime di abusi sessuali commessi prima dell’entrata in vigore della Legge del 1996 (§ 71), anche in considerazione degli obblighi gravanti sugli Stati contraenti nel senso di fornire una tutela effettiva sia sul piano della criminalizzazione delle condotte che della loro successiva repressione, sulla base di una cornice normativa che tenga conto della condizione di particolare vulnerabilità delle persone offese e degli specifici bisogni che ne derivano (§§ 72-74). Alla luce di ciò, la Corte ritiene che le autorità dello Stato contraente abbiano intrapreso tutte le iniziative ragionevolmente prevedibili per far fronte agli episodi denunciati (§§ 75-76): in particolare, si ritiene che prima dell’entrata in vigore della Convenzione di Lanzarote (§ 77), non potesse ravvisarsi in capo agli Stati contraenti un obbligo giuridico di procedere officiosamente per tali fatti né di autorizzare la proposizione di querele senza limiti di tempo dal momento dell’infrazione o dal compimento della maggiore età della persona offesa. Si richiama, inoltre, il diritto vivente nella misura in cui, per interpretazione consolidata, dalla natura sostanziale riconosciuta alle norme che regolano la prescrizione del reato, deriva l’impossibilità di una loro applicazione retroattiva in senso sfavorevole al reo (§ 83). Quanto alla ritenuta irragionevole durata del lasso di tempo trascorso tra l’opposizione alla richiesta di archiviazione e la decisione del Giudice per le indagini preliminari (§§ 85-86), la Corte non ravvisa profili di irragionevolezza manifesta, anche in considerazione del fatto che l’obbligo di condurre un’indagine effettiva è oggetto di una “obbligazione di mezzi” e non di risultato (§ 87), che non attribuisce al consociato il diritto assoluto ad ottenere l’instaurazione di un giudizio penale contro la persona accusata né, tantomeno, la sua condanna. Quanto alle doglianze mosse in relazione al giudizio civile di responsabilità (§§ 88-89), la Corte richiama il principio dell’autonomia della giurisdizione civile da quella penale, sottolineando il lasso di tempo trascorso tra le due iniziative giudiziarie, e si ritiene incompetente a formulare considerazioni di merito sulle valutazioni in punto di prova operate in quel contesto giudiziario. (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 4, pp. 2112 ss.
ART. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 dicembre 2022, Savalanli e altri c. Azerbaijan
Legalità degli arresti – prove ottenute con modalità tali da renderne dubbia la loro attendibilità e autenticità – mancanza di un ragionevole sospetto di reità – violazione
Quattro attivisti politici azeri vengono arrestati dalla polizia perché sospettati di essere coinvolti in un traffico di stupefacenti. In attesa di processo, sono sottoposti a custodia cautelare in carcere. La Corte di Strasburgo riscontra plurime criticità rispetto al procedimento di raccolta e all’utilizzo delle prove poste alla base delle misure limitative della libertà personale. In particolare, dai verbali delle forze dell’ordine non risulta in alcun modo quale siano state le ragioni che hanno portato a sospettare e, quindi, a procedere all’arresto dei ricorrenti (§ 89). Sui soggetti è stata rinvenuta della droga a seguito di perquisizioni personali eseguite non nell’immediatezza dell’arresto, bensì all’interno delle stazioni di polizia, in assenza di un difensore e dell’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria. Tali atti investigativi non sono stati nemmeno convalidati da un magistrato (§ 90) e il lasso di tempo intercorso tra l’arresto e le operazioni è tale da far sospettare che la sostanza stupefacente sia stata occultamente collocata dagli agenti sul corpo degli indagati (§ 91). Per di più, non è stata intrapresa alcuna ulteriore iniziativa investigativa che potesse rafforzare il quadro probatorio (§ 92) sul quale l’autorità giudiziaria si è acriticamente basata per disporre la custodia cautelare in carcere (§ 93). Di conseguenza, a giudizio dei giudici europei, mancavano ragioni plausibili per sospettare che i ricorrenti fossero autori del reato ascritto. (Pietro Zoerle)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 dicembre 2022, Rutar e Rutar marketing d.o.o. c. Slovenia
Equità processuale – omessa motivazione del diniego di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - violazione
Una società e il suo amministratore vengono sottoposti a un procedimento penale-amministrativo per un “reato minore” in materia di pubblicità ingannevole. Secondo i ricorrenti, la condanna si è basata su un’errata interpretazione della disciplina europea relativa alla tutela dei consumatori (Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno), sulla quale gli stessi avevano sollevato una questione pregiudiziale da rimettere alla Corte di giustizia. La richiesta delle parti non è stata accolta dai giudici nazionali che, tuttavia, hanno omesso di motivare il loro rifiuto. Tale omissione impedisce alla Corte di Strasburgo di stabilire se la questione sia stata considerata, dai tribunali nazionali, non pertinente al caso di specie, oggetto di giurisprudenza europea consolidata oppure semplicemente ignorata (§§ 60-61). Perciò, viene riconosciuta la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, ricordando che la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali garantisce l’individuo dall’esercizio arbitrario della funzione giurisdizionale, promuovendo la fiducia dei cittadini rispetto a un sistema giudiziario obiettivo e trasparente, fondamento di una società democratica (§ 62). (Pietro Zoerle)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 20 dicembre 2022, Bakoyanni c. Grecia
Equità processuale – diritto di accesso al giudice – immunità parlamentare per dichiarazioni diffamatorie – violazione
La ricorrente è stata vittima di dichiarazioni diffamatorie pubblicate su twitter da un ministro del governo greco. Per tali dichiarazioni veniva avviato sia un procedimento penale sia un processo civile. Per quanto riguarda il primo, il Parlamento ha rifiutato l’autorizzazione a procedere, considerando operativa l’immunità per le opinioni espresse dal ministro nell’esercizio delle proprie funzioni. Diversamente, in sede civile il tribunale di Atene ha riconosciuto la natura diffamatoria delle dichiarazioni rese e la loro estraneità rispetto alle tipiche attività istituzionali. Tuttavia, la domanda dell’attrice è stata accolta parzialmente: sebbene sia stato riconosciuto il risarcimento del danno, non viene ordinata la pubblicazione della sentenza, poiché, in sede civile, tale sanzione accessoria può essere disposta solo nel caso di condanna del titolare della piattaforma digitale sulla quale le dichiarazioni diffamatorie sono state pubblicate. Da qui il ricorso alla Corte europea: l’immunità parlamentare avrebbe privato la ricorrente della possibilità di vedere riconosciuta in sede penale la lesione alla propria reputazione, completamente sanabile – secondo il Codice penale greco – solo attraverso la pubblicazione della sentenza di condanna dell’imputato. In proposito, i giudici europei ricordano che il diritto di accesso a un tribunale può essere, in particolari casi, condizionato all’autorizzazione a procedere di un organo politico, sempre che tali limitazioni siano proporzionate rispetto allo scopo legittimo perseguito (§§ 63-64). Nel caso di specie, invece, la mancata autorizzazione si è rivelata un’indebita compressione del diritto convenzionale: da un lato, solo la pubblicazione della sentenza penale avrebbe consentito di ripristinare la reputazione della vittima; da un altro lato, non si registra alcun nesso evidente tra la condotta del ministro e le sue funzioni che potesse legittimare l’operatività dell’immunità parlamentare (§ 72). Per tali ragioni, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Pietro Zoerle)
ART. 10 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. V, 20 dicembre 2022, Zemmour c. Francia
Libertà di espressione – Condanna penale a pena pecuniaria per provocazione alla discriminazione e all’odio religioso contro la comunità musulmana francese nel contesto di interventi televisivi – Declinazione nel contesto di un dibattito di interesse generale – Largo margine di apprezzamento – Congruità della sanzione
Il ricorrente, noto opinionista politico francese all’epoca dei fatti, e dal 2021 impegnato in attività politica, veniva citato davanti al Tribunale correzionale dall’Associazione per una Pace giusta nel Vicino Oriente in ragione di dichiarazioni da lui formulate in occasione di un dibattito televisivo tenutosi il 16 settembre 2016 in cui, presentando un proprio saggio, avrebbe istigato alla discriminazione ed all’odio religioso associando l’Islam e tutti i fedeli musulmani ad atteggiamenti violenti di matrice terroristica (§§ 1-5). Disattendendo le prospettazioni difensive, in base alle quali le critiche sarebbero state indirizzata all’Islam e non ai fedeli musulmani e sarebbero state motivate dal contesto di particolare tensione determinato da recenti attentati terroristici, il Tribunale correzionale irrogava una condanna al pagamento di un’ammenda di € 5.000 (§ 7), poi ridotta dalla Corte d’appello all’ammontare di € 3.000 per la rimeditata considerazione di alcune fra le esternazioni incriminate (§ 8), sentenza confermata nel giudizio di legittimità (§ 9). Effettuata una ricognizione del diritto applicabile, sia di fonte legislativa (§§ 11-12) che giurisprudenziale (§§ 13-15) nonché sovranazionale (§ 16-20), la Corte giudica sul ricorso avente ad oggetto la violazione dell’art. 10 della Convenzione in punto di libera manifestazione del pensiero. Sul piano processuale, la Corte disattende (§ 28) l’eccezione opposta dal Governo francese in punto di ammissibilità del ricorso, ritenendo non fondatamente invocato l’art. 17 della Convenzione che esclude dall’ambito di applicabilità della libertà di manifestazione del pensiero forme espressive che siano immediatamente rivolte a sopprimere i diritti e le libertà sanciti nella Convenzione. Si afferma, infatti, che per quanto opinabili, le dichiarazioni pronunciate non fossero con immediata evidenza rivolte a tale scopo, benché, si afferma, il contenuto dell’art. 17 possa comunque sovvenire sul piano sistematico ai fini dell’interpretazione dell’art. 10. Giudicando nel merito, la Corte fissa l’oggetto della propria cognizione nella verifica sulla sussistenza di un’adeguata riserva di legge su cui si fondi la limitazione alla libertà di espressione nonché sulla necessità di tale limitazione nel contesto di una società democratica (§ 40). Il giudizio in punto di riserva di legge viene condotto declinandolo in punto di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (§ 43) in relazione a condotte del tipo di quelle realizzate dal ricorrente: sul punto, si rileva come il diritto vivente, espresso dalla Corte di cassazione, si sia consolidato nel senso di fornire un’interpretazione sufficientemente tassativa della nozione di provocazione implicita da cui il ricorrente avrebbe potuto trarre elementi per prevedere le conseguenze della propria condotta. Quanto al requisito della necessità della sanzione, la Corte premette una distinzione fra opinioni concernenti fatti di interesse pubblico, rispetto a cui si pone una forte esigenza di protezione, e posizioni che giustificano la violenza, l’odio, la xenofobia ed altre forme di intolleranza, che normalmente non godono della stessa protezione (§ 49), ma che, anzi, le autorità pubbliche possono legittimamente reprimere nei limiti del rispetto del principio di proporzionalità (§ 51). Per scrutinare sulla necessità dell’intervento repressivo, vengono solitamente considerati alcuni indicatori, tra cui: il contesto politico o sociale delle dichiarazioni (i), il contesto generale in cui si inseriscono le medesime (ii) ed il modo in cui sono formulate e comprese (iii). Giudicando sul caso di specie, la Corte rileva da un lato che le autorità nazionali hanno interpretato in modo plausibile i fatti pertinenti (§ 57) e si sofferma, dall’altro, sul rilievo del contesto pubblico di dibattito di interesse generale in cui il ricorrente, nella sua qualità di opinionista, ha rilasciato tali dichiarazioni (§ 58). Quanto alla riconducibilità delle dichiarazioni formulate dentro la fattispecie del “discorso d’odio” (§ 59), la Corte si associa alle considerazioni svolte in sede nazionale (§§ 60-61), in base alle quali le dichiarazioni rilasciate dal ricorrente costituiscono una forma di disprezzo verso le persone di fede musulmana nel loro complesso, frutto di una considerazione deteriore della religione da essi professata, presentata e considerata come minaccia all’integrità dell’identità nazionale francese, il tutto in un contesto di grande riverbero mediatico determinato dall’ampia diffusione del programma televisivo (§ 62). Alla luce di quanto espresso, la Corte ritiene che l’ammenda inflitta, ancorché non espressamente fondata sull’articolo 10 della Convenzione, sia comunque basata su una giustificata e non irragionevole ingerenza nella libertà di espressione (§ 64). Si tratta di un elemento meritevole di particolare considerazione sul piano sistematico, in quanto pare estendere la portata applicativa del paragrafo 2 art. 10, ritenendo legittima l’ingerenza anche al di fuori delle ipotesi ivi espressamente contemplate cui la Corte, dunque, attribuisce in questa sede valore non tassativo. In punto di proporzione della sanzione inflitta, non vengono ravvisati margini di irragionevolezza manifesta (§65), concludendo nel senso di ritenere infondata la domanda proposta ed insussistente la violazione dell’art. 10 (§ 67). (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: C. Pagella, La Corte EDU esclude la violazione dell’art. 7 in ragione della qualifica professionale dell’imputato: imprevedibilità delle pronunce in materia di prevedibilità soggettiva?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 3, pp. 1628 ss.; M. Crippa, La pubblicazione di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte EDU condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 2, pp. 1164 ss.; L. Rossi, Dall’uso all’abuso: quando la libertà di espressione sconfina nel negazionismo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 1, pp. 369ss.; G. Spinelli, La tutela della pace religiosa interna può giustificare limitazioni alla libertà di espressione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 1, pp. 666ss.