Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Lavinia Parsi (artt. 2, 3 e 8, 7 Cedu) e Violette Sirello (art. 6 Cedu).
In dicembre abbiamo selezionato pronunce relative a: uso eccessivo della forza nei confronti di paziente psichiatrico (art. 2 Cedu); giurisdizione extra-territoriale nell’ambito di operazioni militari (art. 2 Cedu); proporzionalità della misura alternativa in caso di molestie sessuali (artt. 3 e 8 Cedu); condanna basata su dichiarazioni di testimoni non controesaminati dalla difesa (art. 6 Cedu); attendibilità della prova decisiva e relativa motivazione (art. 6 Cedu); conoscibilità della norma incriminatrice e prevedibilità della condanna per traffico di esseri umani (art. 7 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. V, 7 dicembre 2023, V. c. Repubblica Ceca
Uso della forza – obblighi positivi – paziente internato per cure presso una clinica psichiatrica e morto in seguito a ripetute scariche di taser da parte della polizia e somministrazione di un tranquillante da parte del personale sanitario – assenza di strategia e misure per prevenire e limitare l’uso della forza – violazione
Il ricorso riguarda la morte del fratello della ricorrente, ricoverato la sera precedente in una clinica psichiatrica a causa di un episodio aggressivo di schizofrenia paranoide, malattia per cui era in cura da dieci anni. All’alba del giorno successivo, il paziente cominciava nuovamente a mostrare agitazione; la situazione degenerava rapidamente ed il paziente diveniva aggressivo, motivo per cui le infermiere richiedevano un intervento della polizia. Gli agenti, giunti sul posto, intervenivano forzando il paziente a terra in posizione prona, quindi, non riuscendo ad immobilizzarlo, lo sottoponevano a tre scariche di taser consecutive e, immediatamente dopo, un’infermiera procedeva a somministrargli due iniezioni di calmanti. L’uomo moriva pochi minuti dopo a causa di una aritmia cardiaca. La ricorrente lamenta pertanto la violazione degli artt. 2 e 3 CEDU, in relazione all’incapacità dello Stato di proteggere il fratello da un eccessivo uso della forza e, inoltre, all’incapacità di condurre indagini adeguate in merito all’evento. La Corte EDU rinviene una violazione dell’art. 2, sia dal punto di vista sostanziale che procedurale. I giudici evidenziano che, date le circostanze in cui si sviluppava la dinamica, era ragionevolmente prevedibile che il paziente potesse entrare una nuova fase psicotica e violenta e che, d’altro canto, una clinica psichiatrica per sua natura deve essere adeguatamente attrezzata per contenere persone con disturbi mentali, eventualmente aggressive, anche alla luce delle raccomandazioni espresse dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o punizioni disumani o degradanti (§95). L’intervento della polizia deve quindi essere considerato una extrema ratio e, qualora si renda necessario, il personale medico ha il dovere di informare debitamente gli agenti relativamente alla condizione di salute del paziente ed i rischi connessi (§96). Rispetto alle modalità di intervento della polizia, la Corte ravvisa criticità nella tecnica di immobilizzazione scelta, per i dichiarati rischi di asfissia che comporta, e rispetto all’uso del taser laddove l’uso di un’arma non sia strettamente necessario (§97). Pur riconoscendo che l’operazione così come condotta non ammonta intrinsecamente ad un uso di “forza letale”, la Corte nota che l’utilizzo del taser in tali condizioni può avere causato, o almeno facilitato, la morte del paziente (§98). Sebbene gli agenti di polizia non fossero al corrente delle specifiche condizioni di salute del paziente, il mero fatto che si trattasse di un paziente psichiatrico avrebbe dovuto portarli a realizzare che si trattava di una persona in posizione vulnerabile e a cui, con ogni probabilità, erano stati somministrati dei farmaci che avrebbero potuto interferire con le scariche elettriche somministrate (§99). Relativamente al quadro legale-amministrativo, la Corte nota che la normativa ceca è inadeguata poiché classifica il taser come un “dispositivo non letale”, e non come “arma meno letale” (§§102-103), ne regola l’utilizzo in modo molto generale e senza dare alcun riferimento specifico per i casi di intervento nei confronti di un soggetto sottoposto a trattamento farmacologico (§104). Anche sul versante procedurale i giudici accolgono le doglianze della ricorrente. Pur riconoscendo che le autorità cece hanno condotto un’indagine indipendente ed immediata, la Corte sottolinea che l’interrogatorio dei soggetti coinvolti non è avvenuto in modo sufficientemente celere né mirato, limitandosi a domandare agli agenti la propria versione dei fatti quando erano già decorsi 20 giorni dall’evento (§123). Inoltre, sebbene l’autopsia sia stata condotta il giorno stesso del decesso, l’indagine non ha approfondito la possibile interazione delle scariche di taser con i farmaci somministrati al paziente, così compromettendo la possibilità di stabilire le circostanze della morte e l’identità dei responsabili (§124). (Lavinia Parsi)
Riferimenti bibliografici: I. Giugni, Esercizio legittimo della forza e obbligo di formazione degli agenti statali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, pp. 1365 ss.; C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, pp. 1567 ss.; T. Trinchera, La Corte europea di fronte alla minaccia di attentati terroristici: tra obblighi di prevenzione e limiti imposti all’uso della “forza letale”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, pp. 1200 ss.
C. eur. dir. uomo, Sez. V, 19 dicembre 2023, Narayan e altri c. Azerbaijan
Giurisdizione extra-territoriale – uso della forza – uccisione di tre soldati armeni su territorio armeno da parte di un soldato delle Forze Armate Azere – incapacità di condurre un’indagine – violazione
I ricorrenti sono i familiari di tre soldati armeni, uccisi da un soldato azero dopo che questi era penetrato nel territorio armeno. In particolare, il soldato azero, utilizzando un’arma da fuoco, colpiva due delle vittime mentre si trovavano disarmate e non stavano partecipando attivamente ad alcuna attività militare (il primo veniva sorpreso mentre utilizzava la toilette, il secondo mentre riempiva una tanica d’acqua); il terzo soldato armeno quindi si recava sulla strada per sventare l’attacco nemico, e veniva qui ucciso. L’aggressore azero veniva a sua volta colpito nello scambio a fuoco con quest’ultimo e perdeva la vita. Mentre lo Stato armeno conduceva un’indagine immediata e completa, corroborata da osservatori neutrali esterni, le autorità azere non conducevano alcuna indagine effettiva e, viceversa, lodavano l’operato del proprio soldato insignendolo del titolo di eroe nazionale. I ricorrenti lamentano una violazione degli artt. 2 (sia dal punto di vista sostanziale che procedurale), 13 e 14 CEDU, imputabile all’Azerbaijan in virtù del principio di giurisdizione extra-territoriale. La Corte accoglie le doglianze dei ricorrenti ex art. 2 rispetto a due degli omicidi, non ritenendo necessario trattare separatamente le violazioni degli artt. 13 e 14. La Corte ricorda innanzitutto che, sebbene la giurisdizione ex art. 1 CEDU sia di natura principalmente territoriale, vi sono circostanze eccezionali, da valutare caso per caso, che possono dare luogo ad un esercizio extra-territoriale della giurisdizione da parte di uno Stato al di fuori dei suoi confini (§57). I due principali criteri che determinano la giurisdizione territoriale sono quello del “controllo effettivo” da parte di uno Stato su di un’area al di fuori del proprio territorio (concetto spaziale di giurisdizione) e quello della “autorità e controllo da parte dell’agente di Stato” su individui (concetto personale di giurisdizione), quest’ultimo rilevante nel caso di specie (§58). Come già stabilito dalla giurisprudenza CEDU, uno Stato può essere chiamato a rispondere di una violazione anche per atti avvenuti al di fuori del proprio territorio, qualora commessi sotto l’autorità e il controllo dello Stato tramite i propri agenti; tali casi ricomprendono anche incursioni ed operazioni mirate da parte delle forze armate o di polizia dello Stato (§86). La valutazione pertanto dipende da due valutazioni interconnesse: (i) se l’omicidio è espressione dell’esercizio di potere fisico e controllo sulle vittime in una situazione di targeting ravvicinato; (ii) se l’omicidio è effettuato da parte di un individuo che agisce in qualità di ufficiale di Stato (§88). La Corte rinviene l’elemento di controllo fisico nel caso delle prime due vittime: poiché il soldato azero li sorprendeva disarmati in attività non-belligerante, egli si trovava a tutti gli effetti in una posizione di potere rispetto alla loro vita (§108). Il terzo soldato armeno, invece, veniva colpito da una distanza di 60-70 metri, in condizioni di scarsa visibilità per via della nebbia e durante uno scambio di fuoco incrociato, non quale obiettivo disarmato: pertanto, nel suo caso, gli elementi non sono sufficienti per stabilire il controllo da parte dell’agente di Stato e conseguentemente un’eccezione al principio di territorialità (§109). È poi pacifico che, anche qualora non vi fosse stato un ordine esplicito in tal senso né un piano prestabilito, il soldato azero agiva in qualità di ufficiale di Stato, poiché era al momento dei fatti un membro attivo delle forze militari azere ed agiva nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali (§117). Gli atti oggetto del ricorso sono pertanto attribuibili all’Azerbaijan, che è responsabile per tali condotte (§118). Stabilita la giurisdizione, e dismessa l’invocazione della legittima difesa, i giudici rilevano una violazione sostanziale dell’art. 2 CEDU, in assenza di alcuna eccezione che giustifichi gli omicidi dei primi due soldati armeni (§122). Inoltre, la Corte nota che le autorità azere non hanno avviato alcun’indagine relativa alle circostanze della morte delle vittime e, pertanto, accoglie le doglianze dei ricorrenti relative all’aspetto procedurale dell’art. 2 (§126). (Lavinia Parsi)
Riferimenti bibliografici: B. Fragasso, Operazioni militari e tutela dei diritti umani, tra giurisdizione extraterritoriale e obblighi di indagine ex art. 2 CEDU, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, pp. 738 ss.
ARTT. 3 e 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. II, 12 dicembre 2023, Vučković c. Croazia
Trattamenti inumani e degradanti – diritto alla vita privata – obblighi positivi – violenza sessuale sul luogo di lavoro – sostituzione della pena in lavoro di pubblica utilità senza un adeguato scrutinio di tutte le condizioni rilevanti – contesto specifico di violenza contro le donne ed esigenza di combatterlo con azioni efficaci e deterrenti – violazione
La ricorrente è un’infermiera, vittima di ripetute violenze sessuali sul luogo di lavoro da parte del collega conducente di ambulanza. La donna presentava una denuncia nei confronti del collega, affermando in particolare che in un’occasione l’uomo la chiudeva in una stanza, si toglieva i vestiti e tentava di spogliarla, la afferrava per il collo costringendola verso il proprio pene eretto, ordinandole di inserirlo nella propria bocca, finché la donna non urlava che sarebbe svenuta. In un altro episodio, l’uomo la toccava ripetutamente su braccia, cosce e seno all’interno dell’ambulanza, apriva i propri pantaloni e tentava di forzare la mano della donna dentro gli stessi. Queste azioni venivano accompagnate da linguaggio inappropriato e minacciando la donna che se avesse raccontato ad alcuno di quei fatti sarebbe stata licenziata. In primo grado, l’uomo veniva condannato per atti osceni a 10 mesi di reclusione, il Tribunale evidenziando come circostanza aggravante il fatto che l’imputato aveva commesso tali atti, di per sé connotati da intensità, ripetutamente nei confronti della stessa vittima in un breve arco di tempo, ad indicare un marcato intento nella condotta. In seguito ad appello da parte dell’imputato, la sentenza veniva tuttavia convertita in lavori di pubblica utilità: la Corte d’appello riteneva che tale decisione avrebbe servito lo scopo della pena adeguatamente, anche in considerazione del fatto che erano passati quattro anni dalle aggressioni e che l’imputato non aveva da allora commesso altri reati. La ricorrente lamenta perciò una violazione degli artt. 3 e 8 CEDU, asserendo che la sostituzione della pena è inadeguata rispetto alla gravità delle offese commesse. La Corte accoglie le doglianze della ricorrente, ribadendo che stupro e violenze sessuali gravi integrano i trattamenti di cui all’art. 3 CEDU e coinvolgono valori fondamentali ed aspetti essenziali della vita privata ex art. 8 CEDU (§49). La Corte sottolinea che dall’art. 3 discende altresì il fatto che gli organi giudiziari nazionali non possono in alcun caso consentire che gravi attacchi all’integrità fisica o mentale risultino impuniti, né soggetti a sanzioni eccessivamente miti (§52). Pur riconoscendo e supportando l’importanza dei lavori di pubblica utilità quale componente proficua delle politiche penali moderne, la cui applicazione risiede tendenzialmente nel margine di discrezionalità degli Stati, la Corte ritiene che tale strumento vada adottato con particolare attenzione nei casi di violenza sessuale e violenza contro le donne (§56). In particolare, la valutazione di questi reati dovrebbe avvenire secondo gli standard adottati dal diritto internazionale, con debita considerazione dei fattori rilevanti quali gli effetti debilitanti causati alle vittime (§57). La Corte individua quindi una serie di fattori apparentemente sottovalutati dalle corti croate nel caso in oggetto ai fini del sentencing, tra cui la costrizione usata nei confronti della vittima (che, osserva la Corte per inciso, avrebbe potuto determinare una responsabilità per violenza sessuale, ancorché non rientri nei compiti della Corte mettere in discussione la qualificazione giuridica sul punto effettuata dai giudici nazionali); le conseguenze sofferte dalla persona offesa (tra cui una malattia di oltre 90 giorni per disturbo da stress post-traumatico e ulteriori 90 giorni per acuto malessere psicologico); il comportamento del reo dopo la commissione del reato (in particolare le minacce mosse alla persona offesa) e l’apparente assenza di qualsivoglia pentimento o tentativo di compensare la donna per il danno causatole (§§58-60). Alla luce di ciò, la Corte ritiene inappropriata la sostituzione della pena, poiché la Corte d’appello, da un lato, ha omesso di considerare l’elevato livello di criminalità e intenzionalità (evidenziati peraltro nella sentenza di primo grado) e, dall’altro, non ha fornito una motivazione adeguata per cui il mero passare del tempo debba essere considerato prevalente rispetto a tali circostanze aggravanti (§61). In conclusione, la Corte ravvisa una violazione degli artt. 3 e 8 CEDU sottolineando che, alla luce dello specifico pericolo sociale posto dalla violenza contro le donne e l’esigenza di combatterlo con azioni efficaci e deterrenti, lo Stato non ha adempiuto ai propri obblighi procedurali, mancando di assicurarsi che le ripetute violenze sessuali commesse contro la ricorrente fossero affrontate adeguatamente (§67). (Lavinia Parsi)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, pp. 1192 ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, pp. 2112 ss.
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 14 dicembre 2023, Léotard c. Francia
Equità processuale – condanna basata su dichiarazioni di testimoni non controesaminati dalla difesa – non violazione
Il caso concerne la compatibilità con i parametri convenzionali ex art. 6 commi 1 e 3 lett. b e d Cedu di un procedimento penale avviato nei confronti di un ex ministro della difesa della Repubblica francese avanti la Corte di Giustizia della Repubblica (CJR), in relazione allo scandalo della retrocessione al Partito Repubblicano di parte dei finanziamenti versati a Paesi terzi (Pakistan e Arabia Saudita) per la compravendita di armamenti durante gli anni ’90 del secolo scorso (§ 5-27). Nel corso del processo di merito, gli alti funzionari del Governo francese e le alte cariche dello Stato, pur citate dal pubblico ministero come testimoni, non si presentarono all’udienza, con conseguente lettura delle relative dichiarazioni rese nel corso dell’istruzione (§ 42-46). Fu altresì rigettata l’eccezione proposta dal coimputato (e non coltivata dal ricorrente), relativa alla prescrizione nel frattempo maturata (§47-52). Le medesime doglianze furono parimenti rigettate dalla Corte di cassazione (§ 55-60). Avanti la Corte europea, il ricorrente lamenta pertanto la violazione dell’art. 6 par. 1 in relazione al par. 3 lett. b e d Cedu, sotto quattro profili: la notifica tardiva del diritto al silenzio; la lettura dibattimentale delle dichiarazioni rese nell’istruzione dalle persone informate sui fatti; la dispersione degli elementi di prova, a causa del lungo decorso del tempo dall’ipotizzato reato; il mancato deposito delle prove idonee a far ritenere maturata la prescrizione (§ 79-80). Richiamati i principi generali in materia di equità complessiva, la Corte europea evidenzia anzitutto come l’indagato abbia ricevuto comunicazione circa l’esercizio dei propri diritti, fra cui quello al silenzio, sin dal primo interrogatorio e sia stato messo in condizione di esercitarli lungo tutto l’arco del processo (§ 99-101). Quanto, poi, al diritto di controesaminare i testimoni a carico, in applicazione dei principi espressi nei precedenti Al-Khawaja e Schatschaschwili, il Giudice di Strasburgo osserva, da un lato, che le dichiarazioni rese dai testi non comparsi non hanno rappresentato il fondamento unico e determinante della condanna; dall’altro, che molteplici fattori hanno controbilanciato il contraddittorio mancato (§ 104-112). La circostanza che i fatti abbiano avuto luogo svariati anni prima rispetto al processo non è poi idonea a influire sull’effettività della difesa, risultando indimostrato che il decesso di potenziali persone informate sui fatti nelle more del processo poteva incidere sulla decisione (§ 117-118). Infine, rammentato che l’art. 6 comma 1 Cedu non tocca il tema dell’ammissione né della valutazione delle prove, la Corte europea evidenzia che il ricorrente aveva potuto accedere al fascicolo contenente le prove a carico e a discarico sin dall’istruzione e aveva potuto interloquire (§ 124-127). Ne deriva che l’equità complessiva della procedura deve ritenersi rispettata, con conseguente non violazione del parametro convenzionale invocato (§ 128). (Violette Sirello)
C. eur. dir. uomo, com. sez. I, sent. 14 dicembre 2023, Muradverdiyev c. Azerbaijan
Equità processuale – condanna basata in maniera decisiva sul corpo del reato rinvenuto nella borsa del ricorrente e sequestrato – dubbi, sollevati dalla difesa, sulle circostanze del rinvenimento e sull’affidabilità della prova decisiva a carico – assenza di motivazione – violazione
Arrestato in aeroporto mentre era in procinto d’imbarcarsi con il proprio bagaglio a mano, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, sostenendo di essere stato condannato sulla base di prove falsificate e senza aver potuto contestarle. Lamenta altresì di essere stato privato durante le indagini dell’accesso a un difensore (§ 19). In particolare, dopo essere stato sentito dagli agenti aeroportuali, il ricorrente aveva consegnato il proprio bagaglio perché questi ultimi lo perquisissero. Nel corso della perquisizione, svolta in assenza del difensore, gli operanti rinvenivano alcune monete d’oro, di cui il ricorrente negava la proprietà (§ 3-6). Formalizzata l’accusa di contrabbando nei suoi confronti, il ricorrente reiterava le dichiarazioni precedentemente rese, sostenendo che le monete erano state collocate nel bagaglio dagli operanti medesimi per consentire un’incriminazione a suo carico (§ 7). Alla richiesta del difensore di visionare i filmati delle telecamere di sicurezza aeroportuali non fu dato alcun seguito (§ 9). Sulla base della sola consulenza tecnica che aveva riscontrato la presenza delle impronte digitali del ricorrente sul sacchetto in cui erano state rinvenute le monete, veniva quindi instaurato il processo (§ 11-12). Nonostante le doglianze del ricorrente sulle circostanze del rinvenimento del corpo del reato e sull’affidabilità della prova raccolta, il giudice non accolse le richieste istruttorie della difesa, pronunciando infine la condanna (§ 13-15). Evidenziato come quest’ultima si sia fondata sulla natura decisiva del corpo del reato, la Corte europea osserva che il ricorrente, arrestato dopo aver passato i controlli di sicurezza, era stato trattenuto in una saletta e aveva dovuto attendere per circa venti minuti che gli venisse restituita la valigia, prelevata da uno degli agenti al momento dell’arresto (§ 22-24). La circostanza che la perquisizione non abbia avuto luogo immediatamente, bensì solo dopo la restituzione del bagaglio, non rende implausibile la versione fornita dal ricorrente, secondo cui le monete – peraltro non rilevate durante i controlli di sicurezza – sarebbero state appositamente collocate da un agente provocatore a fini d’incriminazione (§ 25-26). Per il Giudice europeo, l’assenza di motivazione sulle circostanze del rinvenimento del corpo del reato, unitamente al silenzio serbato dai giudici interni sulle reiterate richieste istruttorie avanzate dalla difesa, violano l’equità complessiva del procedimento (§ 29-31). (Violette Sirello).
Riferimenti bibliografici: S. Basilico, L’agente sotto copertura: il confine fra tecnica investigativa legittima e istigazione a delinquere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1819 ss.
ART. 7 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. II, 12 dicembre 2023, Jasuitis e Šimaitis c. Lituania
Nullum crimen sine lege – condanna dei ricorrenti per traffico di esseri umani come conseguenza prevedibile delle loro azioni – accessibilità e prevedibilità nell’applicazione della norma incriminatrice – non violazione
I ricorrenti sono due individui condannati in Lituania, inter alia, per traffico di essere umani. Nella fattispecie, i due uomini avevano pubblicato un annuncio di lavoro online, ricercando “ragazze attraenti” per “comunicazione online con persone da diversi paesi del mondo in inglese”. Avevano quindi assunto alcune donne come “web models”, per poi costringerle tramite minacce e violenza psicologica a mostrarsi nude ai clienti, effettuare striptease, usare sex toys ed assecondare ogni richiesta dei clienti. Veniva aperta un’indagine, che portava all’identificazione di diverse giovani donne quali persone offese, in esito alla quale la Corte Regionale competente condannava gli imputati per traffico di esseri umani, oltre ad altri reati. In seguito a riforma della decisione in appello, la Corte Suprema confermava la sentenza di primo grado, condannando gli imputati a 5 anni di reclusione. I ricorrenti sostengono che le corti nazionali hanno applicato un’interpretazione eccessivamente estesa della norma incriminatrice e che, a fronte della loro modalità di azione, la condanna per il reato di traffico di esseri umani non era prevedibile; lamentano pertanto una violazione dell’art. 7 CEDU. La Corte rigetta le doglianze dei ricorrenti, asserendo che l’interpretazione offerta dal Tribunale di primo grado e dalla Corte Suprema rientra nei margini leciti e prevedibili dell’interpretazione della norma penale. In particolare, la Corte ricorda che il principio nullum crimen, nulla poena sine lege si articola in due requisiti qualitativi, di accessibilità e di prevedibilità (quest’ultima a sua volta declinata in chiarezza del testo e prevedibilità dell’applicazione al caso di specie), che devono essere conciliati con un ragionevole margine di interpretazione ed adattamento alle circostanze specifiche del caso (§§110-111). La Corte valuta positivamente la chiarezza letterale della norma incriminatrice, nell’elemento dell’azione (esplicatasi negli atti di reclutamento online, trasporto delle persone offese, collocamento in alloggi dedicati – c.d. harbouring – e fornitura di computer e webcam per svolgere i servizi di pornografia online), dei mezzi (alla luce della posizione di peculiare vulnerabilità delle persone offese, data la loro giovane età, il fatto che stessero crescendo dei bambini da sole e con limitati mezzi economici) e dello scopo di sfruttamento economico perseguito (§§127-131). Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte ritiene inoltre che l’elemento di coercizione possa comprendere anche forme più sottili di costrizione, già identificate nella giurisprudenza CEDU relativa all’art. 4: questi ricomprendono i metodi adottati dai ricorrenti come i prestiti di denaro, la coercizione subentrata in un momento successivo all’accettazione volontaria del lavoro, atti di violenza psicologica, abuso verbale e minacce nei confronti delle vittime o delle loro famiglie (§§134-136). In ragione di ciò, la Corte conclude che la condanna dei ricorrenti è avvenuta nel rispetto dei criteri di accessibilità e prevedibilità, non ravvisandosi alcuna incertezza o ambiguità relativa all’interpretazione della norma nel caso di specie, anche alla luce della necessità di fornire un’interpretazione orientata alla tutela dei diritti umani e incentrata sulle esigenze delle vittime di traffico di esseri umani (§140). (Lavinia Parsi)
Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Terrorismo “morale” e articolo 7 CEDU: la Corte di Strasburgo ritiene imprevedibile la spiritualizzazione del concetto di violenza operata dai giudici turchi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, pp. 1157 ss.; M. Crippa, La prevedibilità delle condanne per genocidio “politico” degli oppositori al regime sovietico: la Lituania supera il vaglio della Corte EDU, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, pp. 1753 ss.