Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Beatrice Fragasso (artt. 2, 3 e 4 Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 6 Cedu).
In febbraio abbiamo selezionato pronunce relative a: uccisioni di civili nel corso di operazioni militari all’estero (art. 2 Cedu); turismo sessuale ai danni di vittime minorenni (art. 3 Cedu); tutela delle vittime di tratta (art. 4 Cedu); partecipazione di un giudice al processo nei confronti di un altro imputato ma in ordine al medesimo fatto (art. 6 Cedu); diversità fra il giudice che ha partecipato al giudizio e pronunciato sentenza e il giudice che ha sottoscritto la motivazione (art. 6 Cedu); giudizio d’appello senza udienza (art. 6 Cedu).
Segnaliamo ai lettori che con legge 15 gennaio 2021, n. 11, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 34 del 10 febbraio 2021, l’Italia ha disposto la ratifica – con contestuale ordine di esecuzione – del Protocollo n. 15 del 24 giugno 2013 recante emendamenti alla Convenzione. Per alcune osservazioni in merito rinviamo a M. Castellaneta, Ratificato il Protocollo n. 15 ...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Giustizia Insieme, 15.2.2021; vd. anche il commento all’originario progetto di legge (che prevedeva anche la ratifica del Protocollo n. 16) redatto da M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l'autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in questa Rivista, 27.11.2019.
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 16 febbraio 2021, Hanan c. Germania
Operazione militare in Afghanistan – morte di civili – giurisdizione – ammissibilità del ricorso – diritto alla vita – effettività, tempestività ed imparzialità delle indagini – non violazione
Il 3 settembre 2009, nell’ambito dell’operazione militare Enduring Freedom in Afghanistan, un colonnello del contingente tedesco della NATO ordinava il bombardamento di un camion cisterna di cui si erano impadroniti alcuni insorti talebani vicino alla città di Kunduz; nel corso dell’attacco aereo morivano anche alcuni civili, tra i quali i due figli minorenni del ricorrente. Quest’ultimo lamentava la violazione dell’art. 2 CEDU, nel suo profilo processuale, allegando che le autorità tedesche non avevano condotto indagini idonee a pervenire alla punizione del responsabile. La Corte innanzitutto chiarisce che il fatto che uno Stato apra un procedimento penale in relazione a reati commessi all’estero non è sufficiente a fondare la giurisdizione della Corte EDU ai sensi dell’art. 1 CEDU (§135). In questo caso, tuttavia, la vicenda presenta una combinazione di caratteristiche particolari, tale da far ritenere sussistente la giurisdizione della Corte di Strasburgo (§136). In primo luogo, la Germania aveva l’obbligo, in forza del diritto internazionale consuetudinario, di indagare sul bombardamento, stante la possibile responsabilità penale di un componente delle forze armate tedesche per crimini di guerra (§137). Inoltre, le autorità afghane non avrebbero potuto avviare un’indagine, dal momento che l’accordo stipulato con l’International Security Assistance Force (ISAF) stabiliva che ogni Stato che contribuiva all’operazione manteneva la giurisdizione esclusiva sugli illeciti commessi dai propri militari (§138). Accertata la sussistenza della propria giurisdizione, la Corte rigetta il ricorso nel merito, affermando che la Germania aveva adempiuto agli obblighi processuali scaturenti dall’art. 2 CEDU. La responsabilità del colonnello era infatti stata esclusa sulla base di un ampio compendio probatorio (report dell’ISAF, interrogatori, testimonianze, registrazione delle comunicazioni radio precedenti all’attacco), che aveva dimostrato come il militare – avendo adottato tutte le precauzioni possibili – non aveva motivi per sospettare che sul posto fossero presenti anche civili (§214-217). Le indagini avevano inoltre soddisfatto i requisiti di imparzialità (§224-227) e tempestività (§228-229). Inoltre, viene giudicata condivisibile la scelta delle autorità giudiziarie di non acquisire la testimonianza del ricorrente, dal momento che questi non era in grado di fornire informazioni aggiuntive rilevanti (§231-232). Infine, il collegio valuta positivamente l’indagine condotta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, che aveva offerto “un alto livello di scrutinio pubblico” sulla vicenda (§235). (Beatrice Fragasso)
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 2 febbraio 2021, X e altri c. Bulgaria
Abusi sessuali nei confronti di minori – divieto di trattamenti inumani e degradanti – quadro normativo efficiente – non violazione – effettività, tempestività ed imparzialità delle indagini – meccanismi di cooperazione internazionale – utilizzo di tecniche speciali di investigazione – violazione
I ricorrenti – tre cittadini italiani per adozione, originari della Bulgaria – lamentavano la violazione dell’art. 3 CEDU, nei suoi profili sostanziali e processuali, allegando che le autorità bulgare avevano omesso di proteggerli dalle violenze sessuali subite durante la permanenza in un orfanotrofio e, successivamente, di condurre indagini effettive per individuare e punire i responsabili. Quanto al primo aspetto, la Corte esclude la violazione dell’art. 3 CEDU, rilevando come non ci fossero elementi sufficienti per sostenere che all’epoca dei fatti vi fosse un problema sistemico di abusi e turismo sessuale minorile all’interno degli orfanotrofi, tale da giustificare l’adozione di specifiche misure restrittive da parte delle autorità competenti (§196). D’altra parte, non era provato che lo staff dell’orfanotrofio conoscesse le violenze che venivano commesse nella struttura (§198). La Corte accoglie invece il ricorso sotto il profilo processuale, affermando che le autorità bulgare non avevano adottato le misure necessarie a valutare l’affidabilità delle allegazioni e a chiarire le circostanze della vicenda. In particolare, il procuratore bulgaro riceveva dall’autorità giudiziaria italiana – riconosciutasi priva di giurisdizione (§65) – gli atti del procedimento, dai quali emergevano dettagli importanti sulla vicenda, che tuttavia furono trascurati dalla stessa procura (§215). Qualora vi fossero stati dubbi sull’affidabilità delle dichiarazioni, le autorità avrebbero dovuto valutare l’opportunità di esaminare nuovamente i minori, eventualmente utilizzando gli strumenti di assistenza reciproca predisposti dalle convenzioni internazionali e, in particolare, dalla Convenzione di Lanzarote (§216-217); o, perlomeno, avrebbero dovuto richiedere alla procura italiana la videoregistrazione degli incontri che le presunte vittime avevano avuto con gli psicologi e con il pubblico ministero italiano (§218). Gli investigatori si erano invece limitati ad intervistare alcuni bambini che ancora vivevano nell’orfanotrofio – in un ambiente, dunque, che di certo poteva influenzare le loro risposte – archiviando il caso sulla base delle informazioni così ricevute (§220). Stante la gravità dei fatti contestati, le autorità inquirenti avrebbero inoltre dovuto utilizzare – in maniera graduale e proporzionata – tecniche speciali di investigazione, quali intercettazioni o operazioni sotto copertura (§221). Infine, le indagini si erano dimostrate incomplete (§223) e affette da parzialità (§224). (Beatrice Fragasso)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, Diritto al confronto con vittima minorenne e diritto alla prova dopo ritrattazione del teste, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 2373.
ART. 4 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 16 febbraio 2021, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito
Avvio di procedimenti penali nei confronti di minori vittime di tratta – divieto di schiavitù e di lavoro forzato – obblighi positivi – violazione – diritto a un equo processo – violazione
Due cittadini vietnamiti, minorenni all’epoca dei fatti e vittime di tratta, erano stati arrestati nel corso di una retata presso una coltivazione industriale di cannabis in Inghilterra e successivamente accusati e condannati per il reato di fabbricazione di stupefacenti. Essi ricorrevano alla Corte di Strasburgo lamentando che le autorità del Regno Unito – in violazione delle obbligazioni positive scaturenti dall’art. 4 CEDU – non avevano adottato misure idonee a riconoscergli lo status di vittime di tratta e a garantire loro una protezione; da tali omissioni conseguiva altresì una violazione dell’art. 6 CEDU. Intervenendo per la prima volta sulla questione, la Corte afferma che l’instaurazione di procedimenti penali nei confronti di potenziali vittime di tratta – sebbene di per sé non sia illegittima – può entrare in conflitto con l’art. 4 CEDU, che impone agli stati di facilitare l’integrazione delle vittime di schiavitù e lavoro forzato nella società, impedendo che subiscano ulteriori danni psicofisici (§157-159). Posto, dunque, che il riconoscimento della condizione di vittima di tratta in capo all’autore del reato può far venire meno l’interesse pubblico ad esercitare l’azione penale, è fondamentale che – ogni volta che sorgano indici in questo senso – tale status sia accertato tempestivamente da parte di personale qualificato (§160-161). Le autorità procedenti potranno decidere se aprire un procedimento penale soltanto dopo tale verifica, dalla quale esse potranno discostarsi soltanto sulla base di fondati motivi (§162). Nel caso di specie, i giudici di Strasburgo accertano una violazione dell’art. 4 CEDU, rilevando che il Regno Unito si era dimostrato inadempiente rispetto all’obbligo di garantire protezione alle vittime di tratta. La Procura aveva infatti iscritto i minori nel registro degli indagati prima che venisse verificato se essi fossero o meno vittime di tratta (§163); anche dopo che tale status era stato accertato, le autorità procedenti avevano ingiustificatamente rigettato tali conclusioni, confermando la scelta di esercitare l’azione penale, decisione poi confermata dai giudici di primo e secondo grado (§166-167). La Corte stabilisce inoltre che il mancato riconoscimento – prima dell’avvio del procedimento penale – dello status di vittima di tratta aveva determinato una violazione dell’art. 6 CEDU, dal momento che aveva privato gli indagati di un elemento fondamentale per la difesa in giudizio (§200). (Beatrice Fragasso)
Riferimenti bibliografici: A. Galluccio, Tratta di persone e sfruttamento lavorativo: a Strasburgo si fa sul serio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1196.
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 16 febbraio 2021, Meng c. Germania
Equità processuale – indipendenza e imparzialità del giudice – precedente partecipazione di un giudice al processo nei confronti di un altro imputato ma in ordine al medesimo fatto – nell’altrui condanna indicazione del ricorrente come coautore del reato - violazione
Il ricorrente è condannato per il reato di omicidio: nel collegio giudicante siede un giudice che aveva partecipato a un precedente processo relativo al medesimo fatto, all’esito del quale il ricorrente, pur essendo stato sentito come testimone, veniva additato nella sentenza come complice dell’imputato ivi condannato. Viene quindi contestato il difetto di imparzialità del giudice. A tal riguardo, la Corte europea precisa che il semplice fatto che un giudice abbia preso decisioni precedenti riguardanti lo stesso reato o abbia già processato un coimputato in un procedimento penale separato non è di per sé sufficiente a mettere in dubbio la sua imparzialità; tuttavia, una questione si pone quando la sentenza precedente contiene già una valutazione dettagliata del ruolo nel reato della persona giudicata successivamente (§ 47-48). Con riguardo al caso in esame, se il profilo soggettivo dell’imparzialità soggettiva deve presumersi salvaguardato, poiché nulla indica che il giudice che aveva preso parte al precedente giudizio in ordine al medesimo fatto abbia agito con pregiudizio personale nei confronti del giudicante (§ 53), non altrettanto può dirsi in relazione al profilo oggettivo: considerati gli ampi accertamenti di fatto riguardanti il ricorrente contenuti nell’altrui sentenza di condanna (§ 59), ove il ricorrente – benché formalmente mero testimone – veniva indicato, in toni certi, come coautore del reato, con la descrizione dettagliata non solo della sua condotta criminosa ma anche del movente (§ 61), può affermarsi che l’imparzialità del giudice che aveva già preso parte al precedente giudizio in ordine al medesimo fatto sia minata dalla “forza della prevenzione”. Né i giudizi d’impugnazione hanno rimediato al difetto d’imparzialità del giudice di primo grado. Pertanto, è accertata la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu (§ 65). (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: V. Vasta, Il principio di imparzialità del giudice nell’ipotesi dei reati commessi in udienza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 373 ss.; L. Pressacco, Imparzialità del giudice e responsabilità del magistrato, ivi, 2018, p. 1837 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 23 febbraio 2021, Iancu c. Romania
Equità processuale – principio d’immediatezza – immutabilità del giudice – diversità fra il giudice che ha partecipato al giudizio e pronunciato sentenza e il giudice che ha sottoscritto la sentenza – non violazione
La sentenza di condanna nei confronti del ricorrente è sottoscritta da un presidente del collegio diverso rispetto a quello che ha partecipato al giudizio e pronunciato la sentenza, in quanto quest’ultimo, subito dopo la pronuncia della sentenza, è andato in pensione. A tal riguardo, il ricorrente ritiene leso l’art. 6 comma 1 Cedu, sostenendo che la firma da parte di tutti i giudici che hanno partecipato alla deliberazione rappresenti una garanzia essenziale dell'equità processuale. Nell’esaminare la doglianza, la Corte di Strasburgo osserva che, nel caso di specie, il percorso decisionale si è sviluppato in tre momenti: la pronuncia della sentenza, la sua redazione, la sua sottoscrizione (§ 46). Anzitutto, il giudice europeo constata che la sentenza è stata pronunciata dal giudice nella medesima composizione in cui aveva partecipato all’istruzione probatoria, quindi nel rispetto del principio di immediatezza (§ 47). Tale principio è salvaguardato pure con riguardo alla redazione della sentenza, la quale è stata delegata dal presidente del collegio a un giudice che aveva partecipato alle udienze e alla deliberazione (§ 48-49). Infine, dopo aver premesso che la regola della sottoscrizione da parte di tutti i membri del collegio giudicante che hanno partecipato alla formazione della decisione non costituisce uno standard comune a tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa, la Corte europea osserva come il giudice subentrato si sia limitato solo a sottoscrivere la sentenza (per di più, a conferma di come non abbia partecipato all’adozione della decisione, per conto del precedente presidente, impossibilitato a sottoscrivere in quanto - appunto - nel frattempo andato in pensione) (§ 56-57). In conclusione, preso atto che l’intervento del giudice subentrato non ha inciso sull’esito del processo, non può parlarsi di mutamento nella composizione dell’organo giurisdizionale (§ 58): è dunque esclusa la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, Mutamento del giudice, diritto alla prova e adattamento dell’Al-Khawaja test, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1617 ss.; L. Pressacco, Equo processo ed immutabilità del giudice dibattimentale, ivi, 2017, p. 356 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 25 febbraio 2021, Mtchedlishvili c. Georgia
Equità processuale – giudizio d’appello avente a oggetto questioni di fatto – assenza di un’udienza – violazione
Il ricorrente lamenta la violazione dell’equità processuale, poiché la sua richiesta di celebrare in udienza il giudizio d’appello, al fine, tra le altre ragioni, di presentare personalmente la propria versione dei fatti, è stata immotivatamente ignorata dalla corte d'appello. Il giudice europeo non esclude la possibilità che, in ragione della natura delle questioni da trattare, si possa prescindere da un'udienza orale; tuttavia, quando una corte d'appello è chiamata a esaminare un caso sia in fatto che in diritto e a effettuare una valutazione completa della questione sulla colpevolezza o innocenza, non può decidere adeguatamente senza un vaglio diretto delle prove fornite personalmente dall'imputato, soprattutto qualora quest'ultimo affermi di non aver commesso il fatto (§ 33). Pertanto, nel caso di specie, se con riguardo al primo capo d’imputazione, l’appello verteva su questioni che potevano essere adeguatamente risolte sulla base del fascicolo e delle osservazioni scritte delle parti (§ 37), non altrettanto può dirsi in relazione al secondo capo d’imputazione: per un verso, l'appello era incentrato su questioni di fatto e, in particolare, sulla questione cruciale se l’imputato fosse stato effettivamente coinvolto nel fatto di reato; per l’altro, era in gioco l’importante questione della credibilità dell’imputato, il quale aveva chiesto l’assoluzione, sostenendo la falsità delle accuse del coimputato (§ 38-39). Ne consegue che la mancata audizione del ricorrente, senza che la corte d'appello fornisse chiare ragioni a sostegno della sua decisione, ha reso il processo iniquo ex art. 6 comma 1 Cedu (§ 40). (Roberta Casiraghi)