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01 Marzo 2023


Osservatorio Corte EDU: gennaio 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Francesco Emiliano Manfrin (artt. 2, 3, 8 e 13 Cedu) e Stefania Basilico (artt. 5 e 6 Cedu).

 

In gennaio abbiamo selezionato pronunce relative a: obblighi di protezione della vita in carcere (art. 2 Cedu); obblighi di protezione della salute in carcere (art. 3 e 13 Cedu); sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ai fini dell’applicazione di misura cautelare custodiale (art. 5 Cedu); detenzione di minorenni insieme alla madre (art. 5 Cedu); diritto al riesame di testimoni a carico (art. 6 Cedu); assenza di motivazione del provvedimento di autorizzazione a disporre intercettazioni (art. 8 Cedu).

 

 

 

 

ART. 2 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 17 gennaio 2023, Daraibou c. Croazia

Vita – obblighi positivi – mancata adozione di misure idonee a proteggere la vita dei detenuti – indagine inefficace – omessa valutazione da parte dell’autorità nazionale delle carenze alla base dell’incidente - violazione

Il ricorrente Daraibou, dopo essere stato arrestato il 27 marzo 2015 insieme ad altri tre migranti per essersi introdotto illegalmente nel territorio dello stato croato, veniva rinchiuso in una cella presso la stazione di polizia di Bajakovo, in attesa dell’espulsione. In tale centro di detenzione scoppiava un incendio, forse appiccato da uno dei detenuti, a causa del quale Daraibou riportava gravi ferite e gli altri tre migranti detenuti con lui morivano. Il ricorrente si rivolgeva alla Corte Edu denunciando la violazione dell’art. 2 CEDU, con riferimento alla mancata protezione della sua vita da parte delle autorità a ciò preposte e all’assenza di vere e serie indagini sull’avvenuto incidente. In particolare, a seguito dell’incendio, nei confronti dei due agenti di polizia incaricati della sorveglianza del luogo di detenzione dei migranti, era avviato un procedimento disciplinare che si concludeva, nel caso del primo agente, con una multa pari al 10% dello stipendio mensile per un periodo di tre mesi e con l’assoluzione, con riferimento al secondo agente. Diversamente, la competente Autorità Giudiziaria croata avviava un procedimento penale a carico del ricorrente, sospettato di aver appiccato l’incendio mortale, ma l’indagine era archiviata a causa del fatto che il ricorrente era stato nel frattempo espulso dalla Croazia. Orbene, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 2 CEDU, dal momento che, come già affermato con la propria giurisprudenza, l’obbligo per l’autorità di proteggere la salute e il benessere delle persone detenute comprende chiaramente anche l’obbligo di proteggere la vita degli arrestati da pericoli prevedibili e da atti di autolesionismo (§ 88). Nel caso di specie, la polizia avrebbe dovuto adottare precauzioni minime nei confronti dei detenuti per ridurre al minimo il rischio di incidenti gravi, come quello occorso. A tal proposito, la Corte osserva, sulla base degli elementi emersi in sede di procedimento disciplinare e penale, come vi siano state gravi carenze nella sorveglianza durante la permanenza dei migranti detenuti nella stazione di polizia (§ 90): infatti, un sistema di videosorveglianza, pur presente nel luogo, non era stato utilizzato; i due agenti designati al controllo della stanza di detenzione si erano allontanati senza valido motivo, consentendo ai detenuti di appiccare l’incendio letale; infine, l’edificio della stazione di polizia (e il suo personale) non era adatto e preparato per gestire un incendio al suo interno (§ 92). Ciò premesso, la Corte ravvisa una violazione da parte delle autorità statali nel fornire al ricorrente un livello di protezione della vita sufficiente, violando, di conseguenza, l’art. 2 della Convenzione nel suo aspetto sostanziale (§ 93). La Corte, poi, ribadendo che l’art. 2 richiede anche alle autorità di condurre indagini ufficiali, indipendenti e imparziali ogniqualvolta un detenuto muore in circostanze non chiare implicanti una responsabilità per lo Stato, ritiene che, nel caso di specie, le indagini avviate dalle autorità competenti sull’incidente siano state tempestive (§ 106), sebbene non accurate (§ 107). Infatti, i procedimenti avviati hanno riguardato solamente l’eventuale responsabilità disciplinare o penale dei due agenti, senza affrontare la più ampia questione dell’esistenza di carenze o errori istituzionali che hanno consentito il verificarsi del tragico evento (§ 111). Alla luce di ciò, la Corte conclude che le autorità nazionali non hanno garantito il diritto alla vita e dissuaso comportamenti similmente pericolosi, violando l’art. 2 CEDU nel suo aspetto procedurale (§ 112 e § 113). (Francesco Emiliano Manfrin)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Malfunctioning of domestic system e violazione degli aspetti sostanziali e procedurali del diritto alla vita, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 1, pp. 359 ss.

 

 

ARTT. 3 e 13 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 17 gennaio 2023, Machina c. Moldavia

Trattamenti inumani e degradanti – ritardo irragionevole delle autorità nello screening del detenuto per epatite C – mancata indagine su denunce relative a infezione durante la detenzione – mancanza di un rimedio efficace per cure mediche inadeguate – violazione

La ricorrente, già malata di paraplegia spastica dal 2003 e detenuta in carcere da febbraio 2011 a giugno 2016, lamentando la violazione dell’art. 3 CEDU, asseriva di aver ricevuto cure mediche inadeguate durante la detenzione. In particolare, la donna non era stata sottoposta ad alcuno screening al momento del suo ingresso in carcere, sebbene il suo passato di tossicodipendente fosse annotato nella cartella clinica. Un esame del sangue effettuato il 15 febbraio 2012, su richiesta della donna per indagare la causa di un dolore al fianco destro, rivelava che questa era affetta da epatite C. A tal proposito, la ricorrente affermava di essere stata infettata dopo essersi sottoposta ad un intervento odontoiatrico in carcere e che non le era stata prestata un’adeguata assistenza medica con riferimento alle sue condizioni di salute, che avevano continuato ad aggravarsi durante la sua detenzione. La Corte ribadisce che compito primario dei funzionari penitenziari responsabili di una struttura carceraria è quello di garantire condizioni di detenzione appropriate, compresa un’assistenza sanitaria adeguata per i detenuti. Da ciò consegue che una denuncia per azioni negligenti da parte del personale medico di una struttura di detenzione che si risolvono nella trasmissione di un’infezione pericolosa per la vita metterebbe necessariamente in discussione il modo in cui l’amministrazione penitenziaria ha assolto i propri doveri e rispettato i requisiti legali nazionali (§ 37). È stato ricordato che gli obblighi imposti ad uno Stato in materia di salute dei detenuti possono variare a seconda che la malattia contratta sia trasmissibile o no. Infatti, la diffusione di malattie trasmissibili, quali l’HIV o l’epatite, dovrebbe assurgere a preoccupazione di salute pubblica, soprattutto nell’ambiente carcerario (§ 38). Nel caso di specie, sebbene le denunce della ricorrente fossero riferite a fatti concreti, l’autorità nazionale competente non ha mai svolto alcuna indagine volta a valutare il rischio di infezione attraverso i servizi dentistici (§ 39). La Corte, per altro, pur non potendo concludere al di là di ogni ragionevole dubbio che la ricorrente avesse contratto l’epatite dopo la sua incarcerazione, non può, d’altro canto, smentire le affermazioni della donna a causa della totale mancanza di test di screening all’ingresso in carcere e dell’incapacità delle autorità di indagare con serietà sulle denunce della donna (§ 40). Secondo la Corte, l’obbligo di indagine che deriva dagli articoli 1 e 3 della Convenzione non comporta che le autorità nazionali siano obbligate a giungere a una conclusione coincidente con il racconto del ricorrente, ma implica che un’indagine su gravi accuse di trattamenti contrari all’art. 3 CEDU debba essere approfondita e volta a chiarire che cosa sia successo (§ 41). Sulla base di queste premesse, la Corte conclude che la mancata esecuzione di un’indagine e di uno screening da parte della autorità penitenziarie competenti è incompatibile con l’obbligo generale di uno Stato di adottare misure efficaci volte a prevenire la trasmissione dell'epatite C o di altre malattie contagiose nelle carceri, ciò comportando una violazione dell’art. 3 della Convenzione. Inoltre, la Corte, rilevando la mancanza di qualsiasi prova atta a dimostrare che la ricorrente sia mai stata visitata da un medico specialista o che il farmaco prescritto per l’epatite sia mai stato effettivamente somministrato (§ 49), conclude che vi è stata anche una violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo della mancanza di cure adeguate durante la detenzione carceraria. Infine, alla luce della constatata violazione dell’art. 3 CEDU, con riferimento alla lamentata violazione dell’art. 13 CEDU, la Corte afferma che la ricorrente avrebbe dovuto disporre di un effettivo ricorso o di un rimedio efficace per le denunce relative alla mancanza di cure mediche durante la detenzione e all’infezione contratta. Pertanto, vi è stata anche una violazione dell’art. 13 della Convenzione.  (Francesco Emiliano Manfrin)

Riferimenti bibliografici: G. Mentasti, La dignità della persona come limite al diritto di sciopero della polizia penitenziaria, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 3, pp. 1757 ss.

 

 

ART. 5 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 31 gennaio 2023, Abdullah Kilic c. Turchia

Illegittima privazione della libertà personale del ricorrente giornalista - assenza di un ragionevole sospetto di commissione di un reato - diritto ad un ricorso volto ad accertare l’illiceità della detenzione - diritto a un’equa riparazione - violazione

Nel 2016, un giornalista viene sottoposto a custodia cautelare perché sospettato di appartenere ad un’organizzazione terroristica ed il ricorso presentato dinanzi alle autorità nazionali, anche avverso la proroga della misura, è rigettato. Il ricorrente adisce quindi la C.edu, la quale accerta anzitutto la violazione dell’art. 5 commi 1 e 3 Cedu (§ 59-60); in particolare, sottolineata la necessità che il sospetto circa la commissione di un reato debba essere ragionevole, e dunque fondato su elementi convincenti (§ 69), i giudici di Strasburgo escludono nella specie l’esistenza di tali elementi, da cui l’illegittimità della privazione della libertà personale del ricorrente e della sua proroga (§ 84-87). Trovano accoglimento anche le doglianze del giornalista circa la violazione dell’art. 5 commi 4 e 5 Cedu (§ 109,118): da una parte, il procedimento relativo al controllo della legittimità della misura cautelare ha avuto una durata inaccettabile (oltre un anno) (§ 106) e, dall’altra, i rimedi previsti dal diritto interno per ottenere un’equa riparazione non possono considerarsi effettivi (§ 122-123). (Stefania Basilico)

Riferimenti bibliografici: L. Pressacco, Per un’integrazione “convenzionalmente” orientata della riparazione per l’ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 319.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 17 gennaio 2023, Minasian e altri c. Moldavia

Detenzione di madre e figli minorenni - inadeguatezza del centro detentivo rispetto alle esigenze dei minori - diritto ad un ricorso volto ad accertare l’illiceità della detenzione - violazione

Una madre fa illegalmente ingresso in Romania con i figli minorenni; rimpatriata in Moldavia, onde evitare il pericolo di fuga, viene sottoposta a custodia cautelare e collocata nel centro detentivo unitamente ai figli, per circa tre mesi. La madre adisce la C.edu la quale, anzitutto, d’ufficio rileva come il ricorso, per via della sua completezza circa i fatti coinvolgenti anche i minori, potesse essere considerato depositato anche dagli stessi: ciò, al fine di garantire la migliore protezione degli essere umani (§ 24-25). I giudici di Strasburgo accertano l’inosservanza del paradigma convenzionale sia sotto il profilo del comma 1 sia sotto il profilo del comma 4 dell’art. 5 Cedu. Quanto al comma 1, la Corte europea conclude che non solo lo stato moldavo ha violato la normativa nazionale che consente la detenzione di minorenni solo come extrema ratio e comunque per il più breve tempo possibile (§ 41-43), ma ha permesso che la detenzione degli stessi avvenisse in condizioni inadeguate rispetto alle loro esigenze (mancanza di attività ricreative, di contatti con coetanei, di un sostegno psicologico, ecc.) (§ 44). Quanto al comma 4, i giudici di Strasburgo rilevano il difetto di un rimedio effettivo per accertare l’illiceità della detenzione dei minori, posto che per tutta la vicenda processuale essi sono stati considerati dai giudici nazionali come meri appendici della madre e non come autonomi titolari di un centro di interesse (§ 52). (Stefania Basilico)

Riferimenti bibliografici: F. Ertola, Tutela del minorenne e contestazioni a catena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1624.

 

 

ART. 6 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, com. sez. III, sent. 10 gennaio 2023, Caliskan c. Olanda

Equità processuale - diritto di far esaminare testimoni a carico - assenza di adeguate garanzie procedurali - violazione

La condanna del ricorrente a nove mesi di reclusione, per truffa, si fonda sulle dichiarazioni rese da tre testimoni dell’accusa. In sede d’appello, la richiesta di controesaminare tali testimoni viene rigettata per tre motivi: in primo luogo, con riferimento a un testimone, perché carente di motivazione; in secondo luogo, con riferimento agli altri, perché finalizzata a dimostrare una mera questione di diritto (la distinzione tra la fattispecie della truffa ed il mero inadempimento contrattuale); in terzo luogo, perché il ricorrente aveva comunque invocato il proprio diritto al silenzio (§ 4). I giudici di Strasburgo, chiamati a valutare se fossero stati tutelati il diritto a far esaminare testimoni a carico e, in più in generale, l’equità processuale, accertano la violazione dell’art. 6 Cedu. Infatti, premesso l’effettivo carattere decisivo delle dichiarazioni rese dai testimoni, anche ai fini della configurabilità di un illecito penale e non di un mero illecito civile, la Corte di Strasburgo, da una parte, esclude in capo all’imputato l’onere di motivare la richiesta di controesame dei testimoni dell’accusa, dovendosi ritenere già assorbita la valutazione circa la sua rilevanza; dall’altra, non ammette che il diritto al controesame possa considerarsi subordinato alla rinuncia del diritto al silenzio (§ 11-12). Ciò tanto più se si considera che, nella specie, la compressione dei diritti del ricorrente non era stata bilanciata da adeguate garanzie procedurali (§ 13). (Stefania Basilico)

Riferimenti bibliografici: F. Zacchè, Ammissione della prova a discarico: il nuovo test “Murtazaliyeva”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1057.

 

 

ARTT. 8 e 13 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 12 gennaio 2023, Potoczka e Adamco c. Slovacchia

Vita privata – corrispondenza – provvedimento di autorizzazione a disporre intercettazioni telefoniche senza motivazione non conforme al diritto interno – mancanza di un ricorso effettivo – violazione

I ricorrenti, marito e moglie slovacchi, ricorrevano alla Corte Edu lamentando la violazione degli artt. 8 e 13 CEDU, con riferimento alle intercettazioni telefoniche effettuate nel 2004 su una linea telefonica intestata alla donna, nell’ambito di un procedimento penale a carico dell’uomo, allora indagato per estorsione. Ebbene, invocando i già menzionati articoli della Convenzione, i ricorrenti lamentavano che il provvedimento di autorizzazione a disporre le intercettazioni non contenesse alcuna motivazione, non identificasse il giudice emittente, né che l’autorità giudiziaria avesse controllato la permanenza delle esigenze che giustificavano le operazioni di intercettazione. La Corte osserva che, nel caso in esame, le intercettazioni erano state autorizzate dal Tribunale su richiesta della locale Procura ai sensi dell’art. 88 del codice di procedura penale slovacco, a norma del quale i provvedimenti autorizzativi devono essere emessi da un giudice ed essere altresì motivati. La ragione dell’obbligo di motivazione risiede, come ricordato anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nella particolare invasività nella privacy dello strumento e nel fatto che i soggetti coinvolti vengono a conoscenza dell’intercettazione solo a posteriori. Pertanto, affinchè il controllo successivo sia efficace, le ragioni dell’autorizzazione devono essere specifiche e basate su fatti concreti (§ 72). La Corte, tuttavia, considera assodato che il provvedimento in questione, che per altro non le è stato messo a disposizione da parte dell’autorità slovacca, non contenesse alcuna motivazione, al di là di un mero riferimento alla richiesta della Procura e alla constatazione che sarebbe stato impossibile ottenere prove con altri mezzi (§ 74). Pertanto, in una società democratica, la mancanza di motivazione del provvedimento mal si coniuga col requisito della necessarietà previsto dall’art. 8 § 2 CEDU (§ 76), costituendo ciò anche una violazione di un requisito legale previsto dal diritto nazionale. Da tali premesse, la Corte conclude che l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e della loro corrispondenza non era conforme al diritto (§ 78), essendovi stata una violazione dell’art. 8 CEDU nei confronti di entrambi. Inoltre, con riferimento all’ulteriore doglianza dei ricorrenti, la Corte constata che i rimedi interni, relativi alle denunce presentate dai due cittadini, sono stati loro negati per motivi estranei all’oggetto delle lamentate violazioni dell’art. 8 della Convenzione (§ 86). Ne consegue che vi è stata una violazione del diritto dei ricorrenti ad un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13 CEDU, in combinato disposto con l’art. 8. (Francesco Emiliano Manfrin)