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28 Febbraio 2024


Osservatorio Corte EDU: gennaio 2024

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Luca Franzetti (artt. 2, 3 e 5 Cedu) e Francesco Zacché (art. 3 Cedu).

 

In gennaio abbiamo selezionato pronunce relative a: uso eccessivo della forza da parte della Guardia costiera per impedire l’ingresso di migranti irregolari (art. 2 Cedu); obblighi positivi di protezione di giornalisti minacciati (art. 2 Cedu); condizioni di detenzione di soggetto incapace presso un ospedale penitenziario (artt. 3 e 5 Cedu); detenzione in condizioni incompatibili con lo stato di salute (art. 3 Cedu).

 

 

ART. 2 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. III, 16 gennaio 2024, Alkhatib e altri c. Grecia

Indagine inadeguata e incompleta - Incapacità di stabilire se l'uso di una forza potenzialmente letale fosse o meno giustificato nelle particolari circostanze dell'operazione di intercettazione – Violazione

Uso eccessivo della forza da parte della guardia costiera - Mancanza di vigilanza necessaria per ridurre al minimo l'uso della forza letale e il possibile rischio per la vita - Incertezza del quadro normativo applicabile - Uso della forza non assolutamente necessario né strettamente proporzionato alle circostanze particolari del caso - Violazione

Il caso riguardava il grave ferimento da arma da fuoco subito da un membro della famiglia dei ricorrenti (tre cittadini di origine siriana residenti in Svezia) il 22 settembre 2014 vicino all'isola di Pserimos, al largo delle coste greche, allorché era stata intercettata una nave che trasportava persone illegalmente in Grecia. In particolare, la guardia costiera greca rinveniva – alle prime ore dell’alba - una nave priva di segni distintivi, in procinto di entrare nel golfo di Vassiliki. In seguito al mancato alt da parte della nave non identificata, ne conseguiva un violento urto con la motovedetta della guardia costiera. In risposta a questo evento, il capitano della nave ordinava, dapprima, di sparare alcuni colpi di avvertimento e, successivamente, in ragione del mancato arresto dell’imbarcazione, di colpire direttamente il motore della barca per immobilizzarla. Dal verbale individuale redatto il giorno dell'incidente risultava che, in totale, erano stati esplosi sette colpi di avvertimento (in area marittima sicura) e 13 colpi in direzione del motoscafo. A bordo di questo si trovavano 14 persone. Due siriani erano rimasti gravemente feriti: uno era stato colpito alla spalla e l'altro alla testa. Il 23 dicembre 2014 il pubblico ministero presso il Tribunale navale del Pireo ha ordinato indagini preliminari sulla possibile responsabilità penale delle guardie costiere coinvolte nell'incidente questione. Il 30 giugno 2015 il pubblico ministero presso il Tribunale d'Appello Navale ha confermato la sentenza di archiviazione del procedimento. Un parente dei ricorrenti, dopo aver ricevuto le prime cure (di terapia intensiva) presso l’ospedale di Rodi veniva successivamente trasferito in Svezia, dove moriva qualche mese dopo a causa delle compromesse condizioni di salute. Invocando l'articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, i ricorrenti lamentavano il fatto che la condotta consistita nell’esplodere il colpo di pistola che aveva ferito gravemente il loro familiare non era conforme alla normativa e non poteva considerarsi né assolutamente necessario né strettamente proporzionato agli obiettivi perseguiti. Hanno inoltre lamentato l'inadeguatezza delle indagini nei confronti dei responsabili dell’incidente. La Corte ha accolto le doglianze esposte dai ricorrenti, motivando come segue. Anzitutto, basandosi su pregressa e costante giurisprudenza (cfr. Corte Edu, Sez. IV, 25 agosto 2009, Giuliani e Gaggio c. Italia) (§ 115), ha evidenziato come l'articolo 2 della Convenzione sia applicabile anche nel caso in cui la vittima sia sopravvissuta, se la forza usata era potenzialmente letale e il fatto che non sia stata uccisa è stato un caso fortuito. La Corte ha, dunque, ritenuto che, sebbene la lesione in questione non avesse portato immediatamente alla morte del parente dei ricorrenti il giorno dell'incidente, aveva nondimeno ingenerato una grave condizione medica, che, con ogni probabilità, aveva causato la sua morte nel dicembre 2015. Viene dunque ritenuto applicabile, nella sua veste sostanziale, l’art. 2 al caso in esame. Inoltre, la Corte ha ritenuto che l’indagine condotta dalle autorità greche sull’incidente non fosse stata approfondita per diverse ragioni: le testimonianze dei passeggeri del motoscafo erano incomplete, non erano state adottate misure investigative essenziali per ricostruire l’accaduto (ad esempio, rapporti forensi e balistici, perizie dettagliate sui veicoli) ed erano emerse discrepanze tra gli accertamenti della Procura e una precedente sentenza penale nei confronti del conducente dell'imbarcazione. La Corte ha, dunque, ritenuto che il pubblico ministero non avesse fornito un'analisi ragionata di tali discrepanze concludendo perciò, in ragione delle numerose carenze nelle indagini, per una violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto l’aspetto procedurale. La Corte ha inoltre esaminato se l’operazione marittima in questione rispettasse le regole d’ingaggio governative e ha individuato potenziali incongruenze nelle normative applicabili. La legislazione greca sul tema appariva incompatibile con l’esigenza di un quadro giuridico chiaro ed efficace per prevenire l’uso arbitrario della forza da parte del personale della guardia costiera greca. Inoltre, il personale della guardia costiera non ha adottato le misure necessarie per garantire che l'operazione di intercettazione si svolgesse in modo tale da ridurre al minimo l'uso della forza letale e i possibili rischi per la vita dei parenti dei ricorrenti. Da ultimo, la Corte ha valutato se l’uso della forza da parte della guardia costiera durante l’operazione fosse assolutamente necessario e proporzionato. Facendo leva sulle sue precedenti conclusioni secondo cui la guardia costiera non aveva adottato tutte le misure necessarie per garantire che l’intercettazione fosse effettuata in modo da minimizzare l’uso della forza letale, ha altresì evidenziato che tredici colpi potenzialmente mortali sparati contro il motore, la maggior parte dei quali sembrano aver mancato il bersaglio, non potevano essere considerati una misura proporzionata allo scopo perseguito, vale a dire l'arresto del conducente del motoscafo (§§ 148 ss.) (cfr. anche Corte Edu, 6 luglio 2018, Toubache c. Francia, § 45). Le risultanze probatorie, per di più, indicano anche che i colpi sono stati sparati dopo che la guardia costiera greca si è schiantata contro la barca, ferendo il conducente, che aveva cambiato rotta e stava accelerando verso le acque turche. La Corte ha ritenuto che il rischio per la vita dei passeggeri derivante dall'uso di un'arma da fuoco debba essere considerato, nella fattispecie, alla luce sia dell'assenza di un pericolo immediato rappresentato dal conducente, sia della mancanza di urgenza nell'arresto del motoscafo, che stava già fuggendo verso le coste turche. Posta in questi termini la questione, la Corte ha ritenuto dubbio che, al momento degli spari, le due guardie costiere agissero nella ragionevole convinzione che la loro vita e la loro integrità fisica fossero in pericolo e ha concluso che l’uso della forza nel caso non era né assolutamente necessario né strettamente proporzionato agli scopi legittimi perseguiti ai sensi dell’articolo 2 § 2 (a) e (b) della Convenzione (§ 153) (Luca Franzetti).

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, La Corte EDU alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, pp. 555 ss.

 

C. eur. dir. uomo, Sez. III, 30 gennaio 2024, Akhmednabiyev e Kamalov c. Russia

Inefficacia delle indagini sull'omicidio dei famigliari dei ricorrenti – Violazione

Inadempimento da parte dello Stato dell'obbligo positivo di adottare misure operative preventive per salvaguardare la vita del padre della prima ricorrente - Esistenza di un rischio “reale e immediato” per la sua vita - Status di giornalista come ulteriore obbligo di adottare tutte le misure necessarie per garantire la sua protezione in linea con le norme e le raccomandazioni internazionali pertinenti - Violazione

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte riguardava l’uccisione di due giornalisti russi (sig. A. e sig. K.), a distanza di tempo rispetto ad alcune minacce di morte che gli stessi avevano ricevuto, per via delle posizioni assunte sul tema dei diritti umani. Nel dettaglio, il 3 settembre 2009, venivano distribuiti, da parte di ignoti, volantini minatori in cui si accusavano diversi giornalisti, difensori dei diritti umani, di collusione con gli islamici armati del Daghestan nell’omicidio di alcuni agenti di polizia. Per questi fatti, il 23 ottobre 2009 è stato aperto un procedimento penale in relazione ai reati di appello pubblico a impegnarsi in attività estremiste (articolo 280 § 1 del codice penale) e di incitamento all'odio e all'inimicizia attraverso i mass media (articolo 282 § 1). Il 9 luglio 2013 il sig. A.  veniva assassinato vicino alla sua casa a Semender, in Russia. Anche il sig. K., citato nel volantino che prendeva di mira i giornalisti, veniva assassinato a Makhachkala, in Russia, il 15 dicembre 2011. A seguito di questi fatti le autorità russe avviavano le indagini sugli omicidi. Le famiglie dei due giornalisti incontravano però numerosi ostacoli nel corso dell’iter legale, comprese le inadeguatezze percepite nella completezza e nella speditezza delle indagini. In particolare, le indagini risultavano caratterizzate da ritardi, sospensioni e accuse di inefficacia, sollevando serie preoccupazioni sull'impegno profuso da parte delle autorità russe. Invocando l’articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti lamentavano, dunque, che le autorità non erano riuscite a proteggere la vita dei rispettivi parenti e che le indagini sulle circostanze della loro morte erano state inefficaci. In particolare, i ricorrenti rappresentavano come le autorità russe non avessero predisposto alcuna misura per proteggere i giornalisti dopo le prime minacce perpetrate ai loro danni. Con riferimento alla morte del sig. A., la Corte osserva innanzitutto come l'indagine per tale omicidio sia ancora in corso già da più di nove anni. La qual cosa, già di per sé, si dimostra essere un forte indizio del fatto che il procedimento è viziato al punto da costituire una violazione degli obblighi positivi dello Stato convenuto ai sensi della Convenzione, salvo che – cosa non accaduta nel caso di specie - lo Stato non abbia fornito ragioni altamente convincenti e plausibili per giustificare la durata del procedimento (su cui v. anche Corte Edu, Terza Sezione, 17 luglio 2018, Mazepa e altri c. Russia, § 80). La Corte ha poi messo in luce, sempre nella prospettiva dell’inefficacia dell’indagine effettuata, la scarsa collaborazione tra le autorità inquirenti e il dipartimento di polizia locale, oltre all’assenza di regolari informazioni sullo svolgimento delle indagini, nonostante i ripetuti tentativi del ricorrente di ottenerle. Quanto, invece, alla vicenda del sig. K, la Corte ha messo in luce, oltre all’eccessiva durata delle indagini (dal dicembre 2011 sino al 2020), in spregio al requisito della “ragionevole rapidità” (su cui v. Corte Edu, Seconda Sezione, 3 maggio 2016, Cerf c. Turchia, § 79), come il mancato riconoscimento dello status procedurale di vittima ai parenti “non stretti” (del sig. K) non abbia consentito a questi ultimi di prendere adeguata contezza dello svolgimento delle indagini, (§ 94 s.). A parere della Corte, dunque, già in seguito alle prime avvisaglie di minacce serie e concrete alla vita e incolumità dei due giornalisti, le autorità sarebbero dovute intervenire con provvedimenti concreti ed effettivi, appalesandosi, invece, l’inerzia come “un’impressione di tolleranza da parte delle autorità di contrasto nei confronti di atti illeciti gravi e mina quindi la fiducia del pubblico nel principio di legalità e nel mantenimento dello Stato di diritto da parte dello Stato” (§ 106). A fortiori, lo status di giornalista ricoperto dal sig. A e dal sig. K doveva fondare un obbligo ulteriore – in capo alle autorità nazionali (a seguito delle minacce ricevute) - al fine di adottare tutte le misure necessarie per garantire protezione, in linea con le norme e le raccomandazioni sulla sicurezza dei giornalisti sviluppate dal Consiglio d'Europa e dalle Nazioni Unite. Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte conclude che lo Stato non ha rispettato il suo obbligo positivo di adottare misure adeguate per salvaguardare la vita dei giornalisti. (Luca Franzetti).

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Malfunctioning of domestic system e violazione degli aspetti sostanziali e procedurali del diritto alla vita, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, pp. 359 ss.

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. IV, 9 gennaio 2024, Miranda Magro c. Portogallo.

Trattamento inumano - Trattamento degradante - Persone incapaci di intendere e di volere - Detenzione di una persona incapace presso l'unità psichiatrica di un ospedale penitenziario, in condizioni inadeguate - Violazione

Il caso trattato dalla corte inerisce alla vicenda del sig. M, cui era stata diagnosticata una schizofrenia paranoide nel 2002. In particolare, il sig. M era stato sottoposto a detenzione preventiva nel 2019, su ordine del tribunale, per essersi reso responsabile – a causa del suo stato psico fisico – di diversi presunti reati (danni, minacce e molestie sessuali, presumibilmente commessi nel maggio 2017). Il 2 settembre 2019, il Tribunale penale di Évora aveva condannato il ricorrente, dichiarandolo però non penalmente responsabile in ragione della sua situazione di salute. Tuttavia, in considerazione del pericolo per la società e il rischio di recidiva, aveva nondimeno disposto l'applicazione di una misura di detenzione preventiva per un periodo massimo di tre anni in un istituto psichiatrico adeguato, disponendo però, congiuntamente, la sospensione dell'esecuzione del provvedimento, a patto che il ricorrente venisse sottoposto al necessario trattamento psichiatrico presso una struttura ospedaliera della città di Évora. Successivamente era stato poi internato (nel 2021) dalle autorità sanitarie dell’ospedale, prima di terminare il suo periodo di carcerazione preventiva, a causa della sua renitenza nel trattamento sanitario. Il ricorrente lamenta, in particolare, che le condizioni di detenzione in cui era ristretto (come, ad esempio, filo spinato posto a limite delle recinzioni e mezzi di repressione fisica in dotazione alle guardie della struttura) erano del tutto inidonee a garantire una sua corretta e pronta guarigione. Sosteneva, altresì, che l'unità psichiatrica fosse un ospedale carcerario e non un centro di salute mentale, e che egli avrebbe dovuto, invece, essere ricoverato in un istituto psichiatrico più adeguato. Siffatta detenzione aveva, inoltre, contribuito ad un peggioramento delle sue condizioni di salute, dato l'ambiente repressivo del carcere, privo di accesso a cure mediche e supporto psicologico. Diversamente opinando, il Governo sosteneva di aver somministrato le cure specialistiche necessarie, oltre a valutare l’unità psichiatrica in questione come idonea ad offrire un’adeguata assistenza. Sconfessando l’impostazione offerta dalle autorità portoghesi, la Corte ha ravvisato una violazione degli artt. 3 e 5 §1 della Convenzione, giudicando le cure come insufficienti e carente un trattamento terapeutico adeguato. A tal proposito la Corte ha richiamato i principi generali elaborati, sia a livello europeo (cfr., ad esempio, il Rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e trattamenti o punizioni inumani o degradanti del 13 novembre 2020), che a livello internazionale (così i Meccanismi di prevenzione nazionali adottati nel 2019 e nel 2020 dalle Nazioni Unite), in tema di responsabilità degli Stati riguardo l’assistenza sanitaria ai detenuti affetti da disturbi mentali. In tali rapporti emergeva, in particolare, l’inadeguata assistenza medica disponibile proprio presso l’unità psichiatrica dell’ospedale penitenziario lusitano. Inoltre, a causa del sovraffollamento e della tipologia delle strutture, le carceri ordinarie non potevano fornire le condizioni necessarie per rispondere adeguatamente ai bisogni psichiatrici e terapeutici di persone con disturbi a cui veniva imposta la detenzione preventiva (§ 78 ss.). Secondo la Corte, un simile trattamento del paziente psichiatrico risulta disumano e degradante, pertanto non conforme all’art. 3 della Carta. Per i profili relativi al diritto ad un processo equo v. infra sub art. 5 §1 Cedu.  (Luca Franzetti)

 

C. eur. dir. uomo, com. sez. I, sent. 11 gennaio 2024, Libri c. Italia

Trattamenti inumani e degradanti – compatibilità condizioni di salute con la detenzione – violazione

Condannato all’ergastolo per appartenenza ad associazione a delinquere di stampo mafioso, il ricorrente, attualmente detenuto nel carcere di Parma, soffre di una grave forma di osteoporosi con collassi vertebrali e fibromialgia, e oggi risulta totalmente invalido. L’esordio della malattia avviene nel 2017, ed è a partire da quell’anno che il ricorrente vede peggiorare progressivamente le proprie condizioni di salute. Varie volte egli chiede di essere ammesso alla detenzione domiciliare, ma senza successo. Le misure adottate nei suoi confronti si risolvono in diversi trasferimenti, da Roma Rebibbia a Milano Opera, per approdare, infine, a Parma, dove viene collocato in una sezione di assistenza intensiva, prima, e in una cella senza barriere architettoniche, poi. Il ricorrente lamenta l’insufficienza delle cure - i ritardi nella fornitura di fisioterapia, di apparecchi ortopedici e nella prescrizione di alcuni esami, nonché la collocazione in una cella non idonea al suo primo arrivo nel carcere di Parma - e la protrazione dello stato detentivo come una violazione dell’art. 3 Cedu. Se, per la C.edu, le condizioni del ricorrente non erano così gravi da imporne la liberazione, diversa è conclusione sotto il profilo dell’adeguatezza dell’assistenza sanitaria: il ricorrente necessitava, infatti, di una regolare fisioterapia, comprendente sia la riabilitazione funzionale da effettuare in carcere, sia un trattamento riabilitativo intensivo da effettuare in strutture esterne. Da qui, la violazione dell’art. 3 Cedu. (Francesco Zacchè)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Dalla Corte di Strasburgo nuovi criteri in materia di condizioni detentive ed art. 3 CEDU?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 345 ss.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. IV, 9 gennaio 2024, Miranda Magro c. Portogallo.

Persone incapaci di intendere e di volere - Detenzione di una persona incapace presso l'unità psichiatrica di un ospedale penitenziario- Detenzione illegale in violazione dei requisiti dell'articolo 5 § 1 (e) - Violazione

Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al diritto alla libertà e alla sicurezza v. supra sub art. 3 Cedu. La Corte si è poi soffermata sul delicato rapporto tra pazienti affetti da disabilità intellettive o psicosociali e il loro stato di detenzione nei reparti psichiatrici carcerari. Richiamando la disciplina dell’art. 5 § 1 lettera e) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di Strasburgo enuncia la necessità e l’urgenza che gli Stati membri dell’Unione europea ricerchino programmi idonei per garantire condizioni di vita adeguate alle persone con disturbi mentali detenute presso le unità psichiatriche di  ospedali penitenziari, onde evitare trattamenti degradanti e onde favorire forme terapeutiche che agevolino l’eventuale ritorno e integrazione del detenuto nella comunità (cfr. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 31 gennaio 2019, Rooman c. Belgio, §§ 190-214). È di prioritaria importanza, si legge nelle parole della Corte, offrire ai pazienti psichiatrici detenuti in strutture carcerarie attività terapeutiche, riabilitative e ricreative – compresi farmaci e cure mediche adeguate – mirando sia a controllare i sintomi della malattia sia a ridurre il rischio che questi soggetti potrebbero rappresentare per la società. La Corte ragiona, dunque, sulla legittimità della detenzione del ricorrente in unità psichiatrica (in quanto soggetto schizofrenico) alla luce dell’art. 5, par. 1 della Convenzione (§§ 83 ss.). A tal riguardo occorre, dunque, verificare se l’istituto in cui era stato detenuto il ricorrente disponesse di forme di trattamento che tenessero conto dei bisogni specifici e delle specifiche condizioni di salute del paziente. L'unità psichiatrica in questione, però, sebbene, inizialmente, destinata alla detenzione temporanea di detenuti comuni che necessitavano di assistenza psichiatrica mentre scontavano la loro pena, nella prassi era divenuta luogo di detenzione preventiva di soggetti che, dichiarati non penalmente responsabili a causa del proprio disturbo mentale, necessitavano di cure. Il fatto che il ricorrente era stato collocato in una struttura non adeguata non è, però, di per sé sufficiente a ritenere illegittima la sua detenzione. Tuttavia, il mantenimento di pazienti affetti da disturbi mentali nel reparto psichiatrico di un carcere ordinario (in attesa di un successivo collocamento in strutture più adeguate), senza fornire cure idonee nel mentre appare certamente incompatibile con l’art. 5 § 1 lettera e) della Convenzione. (Luca Franzetti)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Misure di contenzione fisica e violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti. La “sottile linea rossa” tra esigenze di tutela dell’incolumità del paziente psichiatrico e rispetto del margine di apprezzamento del giudice nazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, pp. 332 ss.