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31 Luglio 2023


Osservatorio Corte EDU: giugno 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Luca Franzetti (artt. 3, 5, 8 e 10 Cedu) e Paola Concolino (artt. 6 e 8 Cedu).

 

In giugno abbiamo selezionato pronunce relative a: estradizione e rischio ergastolo senza prospettive di rilascio (art. 3 Cedu); detenzione illegittima mediante trattenimento di attivisti ambientalisti a bordo di navi e successivo arresto (art. 5 e 10 Cedu); assoluzione dinanzi al giudice di pace e proseguimento del procedimento dinanzi al tribunale per i soli interessi civili (art. 6 Cedu); pubblicazione di immagini e dati personali di imputato di associazione per delinquere (art. 8 Cedu); ammonimento del questore nei confronti di sospetto autore di atti persecutori (art. 8 Cedu); sanzione penale per insulti alla bandiera nazionale (art. 10 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, 29 giugno 2023, Bijan Balahan c. Svezia

Estradizione - Mancanza di prove che dimostrino il rischio reale di una condanna all'ergastolo senza condizionale in seguito ad estradizione – Assenza di grave sproporzione della pena – Non violazione

Il caso riguardava la decisione del governo svedese di estradare un cittadino con doppia cittadinanza (iraniana e statunitense) dalla Svezia agli Stati Uniti. Era ricercato, infatti, in California con l'accusa di omicidio aggravato, tortura, induzione alla falsa testimonianza, dissuasione di un testimone dopo una precedente condanna e furto aggravato, tutti reati commessi presumibilmente nel 2020. Il ricorrente sosteneva (in ossequio al c.d. test elaborato in Corte Edu, Grande Camera, 3 novembre 2022, Sanchez-Sanchez c. Regno Unito) che, se fosse stato condannato, avrebbe ricevuto una condanna all'ergastolo senza condizionale o una condanna di fatto all'ergastolo senza condizionale, perché avrebbe dovuto scontare un periodo minimo di 61 anni prima di essere idoneo alla libertà vigilata, il che avrebbe superato la sua aspettativa di vita. La Corte europea ha tuttavia disatteso le doglianze, ritenendo che al massimo avrebbe ricevuto una condanna all'ergastolo con condizionale. La Corte non è stata inoltre convinta dell’ulteriore argomentazione per cui il ricorrente avrebbe dovuto attendere a lungo per ottenere la libertà condizionale. Residuava, infatti, una notevole incertezza sulla durata della pena minima che avrebbe potuto ricevere. In particolare, i pubblici ministeri e i giudici americani avevano la facoltà di decidere come applicare la regola "three strikes and you're out': e, in caso di sua mancata applicazione, la pena minima sarebbe stata di 17 anni. Tutto ciò premesso, la Corte ha concluso che il ricorrente non ha dimostrato l'esistenza di un rischio reale di ricevere una condanna all'ergastolo de jure o de facto senza condizionale, in caso di sottoposizione ad estradizione. Per quanto riguarda l'argomentazione per cui avrebbe ricevuto una pena gravemente sproporzionata negli Stati Uniti, invece, la Corte ha ribadito che la "grave sproporzione" implica un test assai rigoroso, soddisfatto solo in rare e uniche occasioni. Le accuse in capo al soggetto erano certamente gravi, ma non sono state ritenute sufficienti le argomentazioni difensive avanzate, specie con riferimento al rischio di andare incontro ad un ergastolo senza possibilità di condizionale. In sintesi, la Corte ha ritenuto che l'eventuale estradizione negli Stati Uniti non costituirebbe una violazione dell'articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti). Degna di nota è però la dissenting opinion del giudice Wojtyczek, secondo cui il materiale probatorio allegato con riferimento al sistema legale californiano (in particolare v. Los Angeles County District Attorney’s Office, upon request of the US Department of Justice, 25.02.2022, §. 33) «mostra chiaramente come il ricorrente dovrebbe affrontare una potenziale sentenza di condanna all’ergastolo con possibilità di liberazione condizionale esclusivamente dopo 61 anni» risultando de facto una pena irriducibile. Inoltre, nonostante (in linea con il meccanismo di revisione coniato nella già richiamata sentenza Sanchez-Sanchez c. Regno Unito) il sistema americano (in ispecie, quello della California) consenta la riduzione della permanenza carceraria grazie ai c.d. “sentencing credits” (per buona condotta o per partecipazione a programmi riabilitativi), di fatto ciò appare «praticamente privo di significato in ragione delle circostanze del caso concreto»: attesa, infatti, l’ampia discrezionalità concessa ai giudici nell’applicazione della “Three Strikes Law” (cfr. §§ 25, 33(b) e 35(c) della sentenza) il rischio di una pena sine die è pressoché reale. L’ulteriore rischio – per così dire, di sistema – insito nel ragionamento della Corte, soggiunge infine sempre il giudice Wojtyczek, è quello di svuotare di qualsiasi effetto pratico il precetto dell’art. 3 nel contesto di procedimenti per estradizione. (Luca Franzetti)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1741.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 27 giugno 2023, Bryan e altri c. Russia

Arresto e detenzione illegali - Detenzione a bordo di una nave a seguito di protesta ambientalista - Successivo arresto e detenzione arbitraria - Violazione

Il caso di specie origina da una protesta ambientalista da parte di attivisti di Greenpeace presso la piattaforma di trivellazione petrolifera Prirazlomnaya, dislocata al largo delle coste russe. In particolare, la protesta ha coinvolto due attivisti arrampicatisi sulla piattaforma dopo aver lanciato dei gommoni da una nave battente bandiera olandese (la Arctic Sunrise). Tale manifestazione ha comportato l’intervento della guarda costiera russa, la quale, dopo il rifiuto opposto dalla Arctic Sunrise di sottoporsi al controllo di frontiera, ha proceduto con l’abbordaggio della nave. Non essendo, peraltro, possibile redigere il verbale di infrazione amministrativa in loco, all'Arctic Sunrise è stato chiesto di recarsi al porto di Murmansk, ma, stante il rifiuto del capitano dell’imbarcazione, si è proceduto al rimorchio, con gli attivisti a bordo (dal 19 al 24 settembre 2013). Nel frattempo, i due attivisti saliti a bordo della piattaforma sono stati intercettati e fermati, con successivo trasbordo sulla nave della guardia costiera russa (dal 18 al 19 settembre 2013), prima di essere successivamente ricongiunti con gli altri attivisti a bordo dell’Arctic Sunrise. All'arrivo a Murmansk gli attivisti sono stati arrestati e la loro detenzione è stata ordinata con l'accusa di pirateria. Le accuse sono state successivamente riqualificate in “hooliganism” e il procedimento contro di loro è stato interrotto in virtù di un'amnistia. Invocando l'art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e l'art. 10 (libertà di espressione), i ricorrenti hanno denunciato l’arbitrarietà, oltre che la natura illegale, del loro arresto e detenzione preventivi. Hanno prospettato altresì un’illegittima interferenza delle autorità russe con la loro libertà di espressione. La Corte, accogliendo le rimostranze dei ricorrenti all’unanimità, ha ravvisato una violazione degli artt. 5 § 1 e 10 della Convenzione in questa atipica forma di trattenimento. Dopo aver trattato la tematica della giurisdizione e della competenza della Corte stessa a decidere sul caso (§§ 24-47), i giudici di Strasburgo si sono soffermati, anzitutto, sulla violazione dell’art. 5, con riferimento al periodo di fermo cui sono stati costretti i due attivisti prelevati a bordo della guardacoste russa (18-19 settembre 2013). A tal proposito, rileva la corte, «l'applicabilità dell'articolo 5 della Convenzione non può essere esclusa dal fatto, invocato dal Governo, che l'obiettivo delle autorità era stato quello di assistere i ricorrenti e garantire la loro sicurezza» (§ 63): infatti, anche le misure destinate alla protezione o adottate nell'interesse percepito della persona interessata possono essere considerate una privazione della libertà (nello stesso senso v. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 15 dicembre, 2015, Khlaifia e altri c. Italia, § 71). I ricorrenti, oltretutto, osserva la corte, non sono mai risultati bisognosi di cure o assistenza, venendo, a contrario, forzosamente prelevati da parte delle autorità russe, contro la loro volontà. Per quanto attiene, invece, alla condizione di privazione della libertà di tutti i ricorrenti (19-24 settembre 2013, quando la nave ambientalista è stata sotto il controllo delle forze russe e rimorchiata per quasi una settimana con tutti i richiedenti a bordo), i giudici di Strasburgo osservano come sia del tutto irrilevante il fatto che i ricorrenti non siano stati “fisicamente” privati della libertà personale (cfr. C. eur. dir. uomo, sez. IV, 23 luglio 2013, M.A. c. Cipro, § 193). Inoltre, evidenzia sempre la Corte, le autorità russe non sono mai state in grado di fornire plausibili spiegazioni sull’impossibilità di redigere il verbale al momento del fermo, così come delle ragioni sottostanti, costituendo ciò una gravissima violazione dell’art. 5 della Convenzione. Infatti, come ben evidenziato in un passaggio della sentenza, «avendo assunto il controllo su un individuo, le autorità hanno il dovere di rendere conto della sua sorte» (§ 73): nel caso di specie, invece, non sono stati registrati dati di detenzione rilevanti (come la data, l'ora e il luogo di detenzione, il nome dei detenuti, i motivi della detenzione e il nome della persona che l'ha effettuata). La Corte ha poi esaminato il trattenimento dei ricorrenti dopo il 24 settembre 2013, il quale, pur essendo stato oggetto di registrazione, è stato egualmente ritenuto arbitrario. In particolare, si è osservato che le posizioni dei tribunali e degli inquirenti russi in merito allo status della Prirazlomnaya, considerata una nave e un impianto portuale, sono risultate incoerenti e confuse per l'interpretazione della legislazione in materia. Infatti, anche se le accuse penali contro i ricorrenti sono state successivamente riqualificate come “hooliganism”, i ricorrenti hanno continuato a essere detenuti fino al loro rilascio su cauzione, in conformità con l'ordinanza di custodia cautelare originaria, basata però sull'accusa di pirateria (§§  76 ss.). La Corte ha quindi ritenuto anche la detenzione dei ricorrenti dopo il 24 settembre 2013 e fino al loro rilascio non legittima ai sensi dell'articolo 5 § 1 (c) della Convenzione. Per i profili relativi al diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, v. infra sub art. 10 (Luca Franzetti)

Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Accompagnamento coattivo di polizia finalizzato all’identificazione e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 1359.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 giugno 2023, Roccella c. Italia

Equità processuale – ricorrente assolto dal giudice di pace – prosecuzione del processo penale avanti al tribunale per i soli interessi civili su appello della parte civile – non violazione

Il ricorrente è stato rinviato a giudizio avanti il giudice di pace per il reato di ingiuria. Nel corso del processo, sono stati sentiti sia testimoni d’accusa che testimoni di difesa. Il giudice ha assolto il ricorrente in quanto ha ritenuto che le discrepanze emerse tra le testimonianze assunte non consentissero di addivenire alla prova della responsabilità penale del ricorrente oltre ogni ragionevole dubbio. La sentenza è stata appellata al tribunale dal pubblico ministero e dalla parte civile. Tuttavia, il processo è proseguito per i soli interessi civili in quanto l’appello della pubblica accusa è stato ritenuto inammissibile, ai sensi degli artt. 593 e 608 c.p.p. Il tribunale ha poi accolto il ricorso della parte civile, ritenendo credibili i testimoni d’accusa e – viceversa – non imparziali i testimoni della difesa, e ha condannato il ricorrente al risarcimento dei danni. Il ricorrente lamenta, quindi, una violazione dei principi dell’equo processo, sotto il profilo della parità delle armi, ritenendo che il tribunale avrebbe dovuto ordinare l’audizione dei testimoni prima di procedere alla sua condanna, anche secondo la consolidata giurisprudenza della Corte EDU che prevede che il giudice d’appello debba riassumere la testimonianza decisiva, qualora intenda ribaltare in senso sfavorevole all’imputato la sentenza del giudice di primo grado. I giudici di Strasburgo hanno dapprima specificato che i principi sanciti dalla giurisprudenza richiamata dal ricorrente non sono particolarmente rilevanti nell’ambito dei procedimenti relativi ai soli interessi civili, ove i criteri di valutazione della prova sono meno rigorosi (§ 50).  La Corte ha quindi aggiunto che un’eventuale violazione dei principi del contraddittorio e della parità delle armi deve essere accertata considerando il procedimento nel suo complesso (§ 50). Ebbene, rileva la Corte EDU, tutti i testimoni, a carico e a discarico del ricorrente, sono stati ascoltati nel corso del giudizio di primo grado e il ricorrente, mediante l’assistenza del proprio difensore, ha esercitato il pieno diritto di esaminarli e di contro-esaminarli (§ 51). Pertanto, secondo i giudici di Strasburgo, l’equità del procedimento nel suo complesso non è stata pregiudicata (§ 53) (Paola Concolino).

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 20 giugno 2023, Margari c. Grecia

Fotografie e dati personali della ricorrente – interferenza non sufficientemente giustificata – sproporzione – violazione

La ricorrente è stata arrestata con l’accusa di partecipazione ad associazione a delinquere, frode, falsificazione e utilizzo di documenti falsi in concorso con altre sei persone. La vicenda oggetto di indagine riguardava una serie di truffe immobiliari perpetrate a danno di comuni cittadini che aveva portato l’organizzazione criminale a conseguire un profitto illecito di oltre 700.000 euro. Al fine di tutelare la società da tali crimini e di accertare se vi fossero stati altri casi di truffa ad opera della medesima organizzazione, il procuratore – con decisione approvata anche dal procuratore generale presso la corte d’appello – ha disposto che venissero pubblicate le fotografie e i dati personali degli imputati, inclusi quelli della ricorrente, in uno con le accuse elevate a carico dell’organizzazione criminale, da parte di qualsiasi media e sito web, per un periodo di sei mesi. La ricorrente lamenta di avere subito una violazione del proprio diritto alla vita privata ai sensi dell’art. 8 Cedu per tre ordini di ragioni: in primo luogo, la stessa non è stata preventivamente avvisata dalle autorità di tale pubblicazione; in secondo luogo, non ha avuto la possibilità di impugnare la decisione del procuratore; infine, la pubblicazione ha enunciato le accuse in maniera generalizzata, senza distinzioni tra i singoli imputati, dando, dunque, una rappresentazione non esatta delle imputazioni elevate a carico di ciascuno di essi (ad esempio, non specificando che la ricorrente era accusata di essere stata partecipe e non anche promotrice dell’associazione come, invece, era accaduto per altri coimputati).  La Corte, pur riconoscendo che l’ingerenza fosse conforme all’ordinamento nazionale (§ 51) e che la pubblicazione in questione fosse legittimamente finalizzata alla tutela di diritti e libertà secondo quanto richiesto dall’art. 8, comma 2 Cedu (§ 52), accoglie le doglianze della ricorrente (§§ 57-60).  I giudici di Strasburgo evidenziano come, secondo il diritto interno, la pubblicazione delle accuse è una misura normalmente accompagnata da una previa notifica all’interessato e può essere da questi impugnata (§ 57). Tale regime non si applica nel caso di accuse per reati associativi, come quello di specie (§ 57). La Corte EDU contesta la legittimità di tale deroga. La ricorrente, infatti, avrebbe almeno dovuto essere informata prima della pubblicazione in quanto la pendenza di un procedimento penale nei suoi confronti non avrebbe dovuto limitare l’ambito di protezione della sua vita privata (§ 57). Inoltre, la ricorrente non ha avuto alcuna possibilità di essere sentita prima della decisione né di chiederne un riesame e di esporre le proprie ragioni al riguardo e, dunque, non ha goduto di strumenti procedurali effettivi mediante i quali far valere il proprio diritto alla vita privata, in condizioni di equità (§ 58). Infine, i giudici di Strasburgo evidenziano come non possa essere considerata legittima la pubblicazione censurata anche per la rappresentazione generalizzata delle accuse a carico degli imputati. L’imputazione nei confronti della ricorrente appariva, infatti, più grave di quella effettiva (§ 59). La Corte ritiene che il trattamento dei dati personali relativi ad accuse penali richieda una protezione rafforzata e, anche in virtù del rispetto della presunzione di innocenza, tali dati devono essere rappresentati in maniera precisa e fedele (59). Alla luce di tali considerazioni, la Corte EDU conclude che l’ingerenza nella vita privata della ricorrente sia stata sproporzionata rispetto agli scopi legittimi perseguiti (§ 60) (Paola Concolino).

Riferimenti bibliografici: F. Ertola, Ambiti di tutela della privatezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, 4, pp. 1745 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 22 giugno 2023, Germano c. Italia

Ammonimento del questore nei confronti di sospetto autore di atti persecutori – compressione del diritto alla vita privata e famigliare del destinatario della misura – necessità in una società democratica – assenza – violazione

Nel maggio del 2009, al culmine di una crisi coniugale, la moglie del ricorrente lasciava la casa familiare dove aveva fino ad allora vissuto. Pochi mesi dopo, la stessa presentava al questore di Savona una richiesta di ammonimento ex art. 8 d.l. n. 11/2009 nei confronti del marito, descrivendo una lunga serie di episodi di violenza fisica e verbale, nonché ulteriori comportamenti a carattere strettamente persecutorio. Ritenendo fondata la richiesta, il questore ammoniva il ricorrente, che, di conseguenza, proponeva ricorso al Tar ligure per ottenere l’annullamento del provvedimento amministrativo, considerato illegittimo – inter alia - per la mancata comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, imposta in via generale dall’art. 7 l. n. 241/1990. Accogliendo tale motivo di ricorso, i giudici amministrativi annullavano l’ammonimento. La pronuncia veniva sottoposta a gravame dal Ministero dell’interno dinanzi al Consiglio di Stato che la riformava sul rilievo che la misura di prevenzione dell’ammonimento è, per sua natura, caratterizzata dall’urgenza e dalla gravità delle condotte contestate, essendo finalizzata ad evitare un danno irreparabile alla presunta vittima di stalking. Il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo asserendo la violazione dell’art. 8, nonché degli artt. 6 § 1 e 8, sotto il profilo della violazione dei suoi diritti di partecipazione e difesa, della mancanza di motivi pertinenti e sufficienti a giustificare l’ammonimento del questore e della mancanza di un sufficiente controllo giudiziario su tale misura. In primo luogo, i giudici si soffermano sulla riconducibilità dell’ammonimento del questore tra le ingerenze nell’esercizio del diritto alla vita privata e familiare. A tal proposito, due sono gli aspetti essenzialmente valorizzati. In primo luogo, si osserva che, presupponendo l’accertamento – sia pure in via soltanto indiziaria – di condotte penalmente rilevanti, l’ammonimento produce un effetto stigmatizzante, con possibili effetti negativi anche sulla sua vita professionale. In subordine, si pone l’accento quanto meno sul “chilling effect” che la misura di prevenzione può determinare sull’esercizio dei diritti protetti dall’art. 8 Cedu. Nel caso di specie, l’invito rivolto al ricorrente di non tenere più condotte analoghe a quelle che avevano dato luogo all’ammonimento avrebbe infatti potuto compromettere i suoi rapporti con la figlia, che coabitava con la moglie, nonché con alcuni amici in comune. Ricondotta dunque l’ingerenza nel perimetro dell’art 8 Cedu, la Corte procede poi a valutarne la legittimità sotto i profili della base legale, della legittimità della finalità perseguita e, infine, della necessità della misura in una società democratica. È proprio con riferimento a quest’ultimo requisito che la Corte ravvisa una violazione della Convenzione. Anzitutto, rileva il fatto che il questore, senza indicare le ragioni di urgenza ricorrenti nel caso concreto, non aveva fornito al ricorrente la possibilità di essere ascoltato prima dell’ammonimento (§125-131). In secondo luogo, il questore non aveva indicato in maniera esaustiva le ragioni poste a fondamento dell’ingerenza nella vita privata e familiare del ricorrente, come invece un provvedimento di tale portata e di durata indefinita avrebbe richiesto: da un lato, infatti, gli episodi rilevanti erano stati descritti genericamente; dall’altro lato le dichiarazioni delle persone sentite dalla p.g. non avevano corroborato le accuse della moglie (§132-137). In terzo luogo, il ricorrente non aveva goduto di un effettivo controllo giurisdizionale sui presupposti legittimanti l’ammonimento, posto che il Tar ligure aveva annullato il provvedimento amministrativo per un vizio di carattere procedimentale, mentre il Consiglio di Stato si era limitato ad affermare genericamente che le indagini disposte dal questore avevano corroborato le affermazioni contenute nella richiesta presentata dalla moglie. Così facendo, i giudici nazionali non avevano garantito un “sufficient judicial review” sulla legittimità e sulla proporzionalità dell’ammonimento (§138-143). (Luca Franzetti)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. pen. proc., 2017, p. 1192; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. pen. proc., 2020, p. 2112

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 8 giugno 2023, Fragoso Dacosta c. Spagna

Libertà di espressione - Sanzione penale per aver insultato la bandiera nazionale durante una protesta - Assenza di incitamento alla violenza  – Assenza di disordini - Dibattito su una questione di interesse generale - Mancato raggiungimento di un giusto equilibrio tra interessi in gioco - Violazione

La Corte Europea ha ravvisato una violazione della libertà di espressione ai sensi dell'art. 10 della Convenzione con riferimento alla condanna emessa nei confronti del sig. F.D. per le dichiarazioni pronunciate (servendosi di un megafono) con linguaggio blasfemo durante una protesta pacifica contro gli stipendi non pagati. Nel dettaglio, il ricorrente era stato condannato a pagare 1.260 euro di multa, per aver insultato la bandiera spagnola mentre protestava, in qualità di rappresentante sindacale, per i salari non pagati degli addetti alle pulizie dell'Arsenale militare di Ferrol, una base militare sotto la responsabilità del Ministero della Difesa. In risposta ai salari non pagati, i dipendenti dell'impresa di pulizia avevano scioperato da ottobre 2014 a marzo 2015. Durante questo periodo, i dipendenti, insieme ad alcuni rappresentanti sindacali, si erano riuniti quotidianamente davanti all'arsenale, gridando slogan relativi alle loro proteste (come "la bandiera non paga le bollette"), fischiando e creando, in generale, rumore e disturbo. Queste proteste avevano coinciso con l'innalzamento solenne quotidiano della bandiera nazionale alla presenza dei militari. Nonostante un primo ammonimento dell’ammiraglio capo alla moderazione e al rispetto delle istituzioni, il ricorrente, insieme a una trentina di manifestanti, davanti all’arsenale e nel momento solenne di innalzamento della bandiera, aveva gridato con un megafono ulteriori frasi ingiuriose nei confronti della bandiera. A seguito dei fatti di cui sopra, il ricorrente era stato indagato e condannato ai sensi dell'art. 543 del c.p. (vilipendio alla Spagna). Il ricorrente aveva allora presentato un recurso de amparo alla Corte costituzionale spagnola, sostenendo una violazione dei suoi diritti alla libertà di pensiero e alla libertà di espressione. La Corte spagnola ha però respinto il ricorso, ravvisando un sentimento di intolleranza nelle parole pronunciate, ritendendole pertanto non scriminate dalla libertà d’espressione; oltre a ciò, la Corte ha altresì ritenuto proporzionata la pena inflitta. Diverse sono invece le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di Strasburgo. Anzitutto, la Corte ha sottolineato che le dichiarazioni contestate non erano rivolte a una persona, ma a un simbolo (§ 27). Inoltre, la Corte ha evidenziato la necessità di distinguere chiaramente tra critica e insulto (§ 28): in determinate circostanze, infatti, se l’unico intento delle espressioni è quello di insultare un’istituzione o una persona, una conseguente punizione non comporterebbe, in linea di principio, una violazione dell'art. 10 § 2 della Convenzione; il linguaggio usato dal ricorrente, viceversa, pur considerato provocatorio e deprecabile, non ha ingenerato disordini, né tantomeno incitato all’odio o alla violenza. Inoltre, la Corte  ha ricondotto le parole proferite non nel semplice insulto, bensì nella critica e nell’espressione di protesta verso il datore di lavoro per stipendi non pagati. La Corte ribadisce a questo proposito che i membri di un sindacato devono poter esprimere le loro rimostranze al datore di lavoro e, sebbene chiunque partecipi a un dibattito pubblico di interesse generale - come il ricorrente - non debba superare certi limiti, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei diritti di altre persone, “a degree of exaggeration, or even provocation, is permitted; in other words, a degree of immoderation is allowed” (§ 32). A fortiori, le dichiarazioni in questione sono state rilasciate oralmente da un rappresentante sindacale in una sola occasione, di fronte a un pubblico limitato, nel contesto di una protesta durata diversi mesi e relativa a salari non pagati, e che non hanno provocato alcun disturbo o disordine. Ne consegue che la severità della pena inflitta è di gran lunga superiore alla gravità del reato, da ritenersi pertanto sproporzionata allo scopo perseguito (§ 33). Alla luce delle circostanze del caso, la Corte ritiene che le autorità spagnole non abbiano raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco, ravvisando di conseguenza una violazione dell'art. 10 della Convenzione (Luca Franzetti)

Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La pubblicazioni di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte edu condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1164

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 27 giugno 2023, Bryan e altri c. Russia

Libertà di espressione - Illegittimità della detenzione che incide sulla legittimità dell'ingerenza - Violazione

Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al diritto alla libertà e alla sicurezza v. supra sub art. 5 Cedu. I ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 10, lamentando il fatto che l'arresto, la detenzione e l'azione penale proposte nei loro  confronti, oltre a «non essere necessari in una società democratica» (§ 93), abbiano costituito un'illegittima interferenza con la loro libertà di esprimere un'opinione su una questione di significativo interesse sociale, ovvero le conseguenze ambientali della trivellazione e dello sfruttamento del petrolio. In particolare, facendo esplicito riferimento a precedenti situazioni di persecuzione a danno di giornalisti perpetrate in Russia, hanno portato all’attenzione della corte prove «di molestie sistematiche nei confronti di giornalisti che si occupano di questioni ambientali in Russia, soprattutto dopo la promulgazione della c.d. "Foreign Agents Law"» (§ 95). I ricorrenti, pertanto, sottolineano come spetti alla corte (i) dapprima estendere la garanzia per la libertà di stampa ex art. 10  per includere una gamma più ampia di coloro che svolgono funzioni giornalistiche; (ii) in subordine valutare se l'arresto e la detenzione siano stati prescritti dalla legge, se vi siano ragioni pertinenti e sufficienti per l’interferenza e – infine - se le azioni degli individui durante la protesta siano state adeguatamente valutate dalle autorità nazionali in quanto relative alla funzione di vigilanza pubblica della stampa (§ 96). I giudici di Strasburgo, ribadite le conclusioni in punto di arbitrarietà e illegittimità del trattenimento operato e ribadendo come i requisiti di legittimità di cui agli artt. 5 e 10 mirino a proteggere l’individuo dall’arbitrio dell’autorità, traggono la conclusione per cui, se la detenzione è illegittima e costituisce un’interferenza con una delle libertà espressamente garantite dalla Convenzione, «cannot be regarded, in principle, as a restriction of that freedom prescribed by national law» (§ 97). L’assenza di un valido fondamento legale della detenzione rende, di conseguenza, superfluo valutare la legittimità dello scopo di questa ingerenza e la sua necessarietà all’interno di una società democratica, ravvisandosi una violazione dell’art. 10 nel caso in esame. (Luca Franzetti)