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27 Giugno 2023


Osservatorio Corte EDU: maggio 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Cecilia Pagella (artt. 3, 8-14 e 10 Cedu) e Violette Sirello (art. 6 Cedu).

 

In maggio abbiamo selezionato pronunce relative a: esecuzione di pena perpetua e meccanismi revisione della condanna (art. 3 Cedu); violazione dell’equità processuale in caso condanna fondata sulla confessione resa in un interrogatorio di polizia non documentato e senza il difensore (art. 6 Cedu); bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e la libertà d’espressione in caso di frasi omofobe pronunciate da politici (artt. 8 e 14 Cedu); Incitamento all’odio o alla violenza su base razziale, nazionale, etnica, religiosa nell’ambito del discorso politico (art. 10 Cedu).

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 9 maggio 2023, Horion c. Belgio

Pena perpetua – meccanismi che consentano la revisione della condanna – possibilità realistica di reiserimento sociale – impossibilità di soddisfare le condizioni poste per la liberazione – pena di fatto perpetua – violazione.

Il ricorrente è un condannato in via definitiva per l’omicidio di cinque persone che dal 1979 si trova in stato di detenzione. In base alla legge belga, egli avrebbe potuto essere ammesso, a partire dal 1991, a una serie di misure alternative che gli avrebbero consentito di scontare la pena almeno parzialmente all’esterno del carcere. A partire dal 1993, il ricorrente aveva formulato di fronte al TAP (Tribunal de l’Application des Peines) numerose richieste di essere ammesso alle misure alternative sopradette, le quali erano state rigettate in ragione del fatto che il programma rieducativo presentato non consentiva di escludere il rischio di commissione di ulteriori gravi delitti. L’unica misura ritenuta dal TAP idonea a scongiurare tale pericolo era quella suggerita nel 2018 da una commissione composta da psicologi e psichiatri e consistente in un soggiorno presso un’unità di psichiatria come tappa intermedia tra la permanenza in carcere (ritenuta dagli esperti ormai dannosa tanto per il ricorrente quanto per la collettività, in quanto inidonea a conseguire l’obiettivo della risocializzazione) e la liberazione. Le diverse unità di psichiatria presenti sul territorio rifiutavano, tuttavia, di prendere in carico il ricorrente: il rifiuto si fondava su motivi di ordine economico, dal momento che le unità citate non erano sovvenzionate dallo Stato per accogliere persone condannate. Dopo aver esperito – nel corso di una vertenza legale durata decenni – tutte le vie di ricorso interne, il ricorrente si rivolgeva alla Corte EDU contestando la violazione dell’art. 3 per essere sottoposto a una pena inumana in quanto, di fatto, perpetua. In base alla giurisprudenza convenzionale, da cui la pronuncia che qui si sta sintetizzando non si discosta, l’inflizione di una pena perpetua è compatibile con l’art. 3 CEDU purché la legislazione statale preveda dei meccanismi che consentano la revisione della sentenza e che dunque offrano al condannato la possibilità di porre fine al suo stato di privazione della libertà (Vinter e al. c. Regno Unito del 2013 e Murray c. Paesi Bassi del 2016) (§ 61). L’opportunità di reinserimento sociale offerta al condannato deve essere seria, e cioè deve consentirgli una possibilità realistica di liberazione (Viola c. Italia, 2019) (§ 66). Astrattamente, la legislazione belga prevede un meccanismo di revisione della sentenza di condanna all’ergastolo (il ricorrente, infatti, ha potuto rivolgersi periodicamente al TAP formulando delle richieste di accesso alle misure alternative alla detenzione); tale meccanismo, tuttavia, non offre, di fatto, alcuna possibilità di successo per il ricorrente: la condizione del ricovero in un’unità psichiatrica posta dal TAP alla commutazione della pena detentiva in misura alternativa ha reso di fatto inaccessibile quest’ultima, con la conseguenza che la pena detentiva inflitta al ricorrente risulta, di fatto, perpetua, ponendosi, dunque, in contrasto con l’art. 3 CEDU. (Cecilia Pagella)

Riferimenti bibliografici: S. Bernardi, La disciplina dell’ergastolo senza possibilità di liberazione alla luce delle più recenti sentenze di Strasburgo, in RIDPP, 2017, p. 1215; E. Zuffada, In tema di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata: la Corte europea si accontenta delle rassicurazioni dei giudici inglesi, in RIDPP, 2017, p. 874.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 11 maggio 2023, Lalik c. Polonia

Equità processuale - condanna fondata sulla confessione resa in un interrogatorio di polizia non documentato e senza il difensore - violazione

Arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato, il ricorrente, trattenuto in commissariato e sottoposto all’etilometro che ne aveva rivelato lo stato di ubriachezza, veniva “informalmente interrogato” - il giorno successivo, e senza un nuovo accertamento del tasso alcolemico - da tre agenti di polizia. L’interrogatorio non era documentato (§ 9-11). In seguito, formalmente ascoltato come testimone dal pubblico ministero, il ricorrente aveva dichiarato di aver parlato volontariamente con la polizia, senza costrizione; solo alcune ore dopo era stato messo in condizione di consultare un difensore, in presenza di un ufficiale di polizia e, il giorno ancora successivo, aveva acconsentito a essere interrogato dal pubblico ministero in assenza del difensore, confessando l’omicidio volontario (§ 12-14). Il difensore, sopraggiunto nel corso dell’interrogatorio (che veniva, così, sospeso), aveva ottenuto un colloquio riservato con il suo assistito, a seguito del quale questi ritrattava la confessione (§ 15). Durante l’udienza di convalida dell’arresto davanti al giudice, il ricorrente aveva confermato la ritrattazione, sostenendo che la prima confessione, resa davanti agli agenti, era stata motivata dalla paura di ritorsioni da parte di questi ultimi, tale da indurlo a ribadire anche la seconda confessione davanti al p.m. prima che arrivasse il suo avvocato (§ 16). Nel corso del dibattimento, il ricorrente aveva infine ammesso di aver dato fuoco alla vittima per scherzo e senza l’intenzione di ucciderla (§ 18). In una successiva udienza, uno degli agenti di polizia che aveva informalmente interrogato l’arrestato aveva confermato che l’atto non era stato documentato in quanto – appunto – si trattava di un interrogatorio informale, riferendo inoltre quanto confessato dall’arrestato in quella sede (§ 19). All’esito del dibattimento, il ricorrente veniva condannato per omicidio volontario aggravato: la motivazione si era fondata su tutte le informazioni rese dall’arrestato durante l’interrogatorio informale della polizia, a cui era fatto espresso riferimento (§ 20). All’esito del secondo grado, il giudice d’appello confermava la condanna, giustificando la decisione sulla base della mancanza di un divieto per il giudice di impiegare come prova le dichiarazioni rese in un interrogatorio informale, in coerenza con la giurisprudenza della Suprema Corte polacca (§ 22). Esaurite le vie di ricorso interne a seguito del rigetto del ricorso in cassazione (§ 23), il condannato lamenta dinanzi alla Corte europea la violazione dell’art. 6 comma 3 lett. c Cedu (§ 43). La Corte europea ribadisce la centralità degli avvertimenti, da somministrare all’arrestato, relativi al diritto di rimanere in silenzio, al diritto a non autoincriminarsi e al diritto di godere dell’assistenza difensiva (§ 54 e 62), in quanto diritti generalmente riconosciuti alla base di un procedimento equo, volti a proteggere l’accusato da costrizioni da parte delle autorità e a evitare errori giudiziari. Inoltre, sottolinea come l'accesso tempestivo a un avvocato rientri fra le garanzie procedurali che la Corte tiene particolarmente in conto quando esamina se una procedura abbia violato il privilegio contro l'autoincriminazione (§ 55). L’effettività di tali diritti implica che l’accusato ne sia previamente informato e la rinuncia a uno di essi non comporta la rinuncia agli altri: è però essenziale che le persone in stato di fermo di polizia ottengano l'assistenza di un avvocato quando non sono state precedentemente informate dalle autorità del loro diritto di rimanere in silenzio (§ 56). Infine, il privilegio contro l'autoincriminazione copre, oltre alla confessione, anche ogni dichiarazione autoaccusatoria capace d’incidere sulla posizione dell'imputato (§ 57). Attesa l’importanza della fase investigativa per l’allestimento del quadro probatorio a carico, “qualsiasi conversazione” tra un sospettato detenuto e la polizia deve essere trattata come un contatto formale, senza che possano essere elusi i diritti fondamentali considerati dall’art. 6 comma 3 lett. c Cedu (§ 58). Questi ultimi rappresentano requisiti del processo equo (§ 64): se, da un lato, essi devono essere concreti ed effettivi (§ 66), dall’altro, l’indubbio interesse dello Stato a esercitare l’azione penale per un reato grave - quale l’omicidio volontario - non può essere perseguito a detrimento dei diritti fondamentali dell’accusato riconosciuti dal parametro convenzionale in parola (§ 78). Per la Corte europea, non risulta da alcun documento che l’autorità nazionale avesse informato l’arrestato (in condizione di indubbia vulnerabilità, perché ubriaco: § 67) dei propri diritti prima di essere informalmente interrogato, peraltro senza che neppure ne fosse stata accertata la sobrietà: la relativa informazione gli era stata fornita solo prima dell’interrogatorio formale davanti al pubblico ministero (§ 59-60). D’altra parte, il primo contatto fra il difensore e l’assistito era avvenuto solo dopo quindici ore dall’arresto e in presenza di un ufficiale di polizia, oltretutto a seguito di un primo interrogatorio informale durato circa tre ore (§ 61). Ne deriva che il ricorrente, che avrebbe dovuto essere protetto dalle garanzie dell’art. 6 Cedu fin dal momento del suo arresto, non è stato sufficientemente informato dei propri diritti (§ 63) e non è stato posto nelle condizioni di contestare il contenuto dell’interrogatorio di polizia, dal momento che l’atto, non verbalizzato, è stato oggetto di una mera nota informale di polizia (§ 68). Il giudice nazionale neppure ha messo in dubbio l’utilizzabilità di tale nota informale di polizia al fine della condanna, addirittura allegata al fascicolo processuale, fermo restando che il divieto d’uso (previsto dal codice polacco) era comunque stato aggirato dall’esame dibattimentale dell’ufficiale di polizia in ordine al contenuto della medesima nota informale (§ 69-70). D’altro canto, pur in presenza di ulteriori elementi di prova, la confessione resa dal ricorrente nel corso del primo interrogatorio di polizia ha avuto peso decisivo per il giudizio di colpevolezza (§ 75-77). Simili prassi pongono «l’arrestato in una posizione svantaggiosa fin dall'inizio dell'indagine» ed è «preoccupante» che i giudici nazionali le abbiano «avallat[e]» (§ 80). Da qui, l’iniquità del procedimento penale nel suo complesso, con conseguente violazione dell’art. 6 comma 3 lett. c Cedu (§ 81-82). (Violette Sirello)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Violazione della difesa tecnica ed equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1211 ss.

 

ART. 8 e 14 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 30 maggio 2023, Nepomnyashchiy e al. c. Russia

Frasi omofobe pronunciate da politici – mancata tutela da parte delle autorità a fronte delle discriminazioni subite – mancato bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e la libertà d’espressione – violazione.

La sentenza che qui si sintetizza riguarda due vicende differenti. La prima vede come protagonisti alcuni uomini omosessuali attivisti per i diritti delle persone LGBTI, i quali avevano sporto una denuncia nei confronti del governatore della regione del Tambov per alcune frasi omofobe (del tenore di «gli omosessuali andrebbero fatti a pezzi, e i pezzi andrebbero gettati al vento») pronunciate durante un’intervista. La seconda vicenda prende spunto da un attacco violento (gli autori imbracciavano mazze da baseball e pistole) nei confronti dei membri di un’organizzazione di supporto alla comunità LGBTI, durante il quale i ricorrenti avevano riportato gravi lesioni, e dall’intervista rilasciata in merito all’accaduto da parte di un membro dell’assemblea legislativa di San Pietroburgo, il quale giustificava le violenze e rivolgeva pesanti insulti nei confronti degli omosessuali, che definiva «perversi» e che poneva sullo stesso piano degli assassini. In entrambi i casi i ricorrenti facevano valere davanti alle giurisdizioni nazionali che le opinioni espresse dai politici erano suscettibili di integrare il reato di Incitamento all’odio e all’inimicizia nei confronti di un gruppo di persone individuate sulla base dell’appartenenza a uno specifico gruppo sociale (art. 282 del codice penale russo). In entrambi, tuttavia, i casi la sussistenza del reato veniva esclusa dalle Corti interne sul presupposto che l’inclinazione sessuale non rappresentasse un criterio sufficiente per inscrivere una persona all’interno di un “gruppo sociale”. I ricorrenti si rivolgevano alla Corte EDU lamentando una violazione degli artt. 8 e 14 CEDU per le offese rivolte nei confronti della comunità LGBTI da parte di due pubblici ufficiali e per l’incapacità delle autorità di offrire un’adeguata risposta agli atti di discriminazione da loro subiti. La Corte ritiene che l’ordinamento russo preveda gli strumenti giuridici adeguati a tutelare la vita privata dei ricorrenti; cionostante, riconosce che sussiste una violazione dell’art. 8 Cedu, in relazione all’art. 14 Cedu in quanto afferma che, nel caso concreto, lo Stato non ha adempiuto all’obbligo di proteggere le persone contro le discriminazioni (escludendo che i gay fossero un “gruppo sociale”, le Corti interne hanno negato ai ricorrenti ogni forma di tutela contro le discriminazioni subite) e non ha effettuato alcun bilanciamento tra i diritti protetti dall’art. 8 e dall’art. 10 della CEDU, assegnando prevalenza assoluta alla libertà d’espressione.

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 15 maggio 2023, Sanchez c. Francia

Incitamento all’odio o alla violenza su base razziale, nazionale, etnica, religiosa – limitazioni alla libertà d’espressione nel contesto politico – toni aspri e registro espressivo sloganistico tipico del discorso politico – onere del politico di evitare sconfinamenti in forme di incitamento all’odio – non violazione.

I fatti di causa hanno luogo nel contesto della campagna per le elezioni legislative tenutesi in Francia nel 2012 e coinvolgono un politico del partito Front National (oggi Rassemblement National), candidato alla carica di deputato per la circoscrizione di Nimes. Il ricorrente era titolare di una pagina Facebook aperta, sulla quale alcuni utenti avevano postato commenti islamofobi, coi quali elencavano una serie di stereotipi sugli arabi ed esplicitamente associavano l’appartenenza alla religione musulmana all’adesione a modelli comportamentali criminali. Il ricorrente si era limitato a raccomandare agli utenti della sua pagina di moderare i toni al momento della formulazione dei post, senza tuttavia attivarsi onde rimuovere i commenti già pubblicati. Gli autori dei commenti venivano condannati dalle Corti interne a titolo di Istigazione all’odio o alla violenza nei confronti di un gruppo di persone individuato sulla base dell’etnia, della nazionalità, della razza o della religione (artt. 23 e 24 l. 29 luglio 1881, sulla libertà di stampa). La responsabilità veniva estesa al ricorrente ­­– sulla base dell’art. 93-3 della legge 82-652 del 29 luglio 1982 – per non aver rimosso i commenti islamofobi nemmeno dopo averne avuto conoscenza. Il ricorrente contesta una violazione dall’art. 10 della CEDU, in quanto ritiene che la sua condanna in sede penale per i fatti descritti rappresenti una limitazione alla libertà d’espressione non “necessaria in una società democratica”. La Corte – non discostandosi dalla decisione assunta in precedenza dalla V sezione – respinge il ricorso: pur riconoscendo che la libertà d’espressione è strumento irrinunciabile per garantire la democraticità del dibattito politico e che dunque le autorità nazionali devono ispirarsi a particolare cautela al momento dell’imposizione di limitazioni a tale diritto (§ 146), afferma altresì la necessità di rispettare l’eguale dignità di ogni essere umano e dunque di reprimere ogni forma di incitamento o giustificazione dell’odio fondato sull’intolleranza (§ 149). I toni aspri e il registro espressivo sloganistico sono generalmente ammessi nel contesto politico (§ 149), ma è responsabilità del/della professionista della politica scongiurare il pericolo che essi sconfinino in manifestazioni di odio o di intolleranza: è dunque legittimo che a costui o a costei sia imposto l’onere non solo di selezionare accuratamente le espressioni da utilizzare, ma altresì di vagliare la correttezza del registro espressivo impiegato da altri, militanti del suo partito o partecipanti a un gruppo Facebook di cui lui/lei è proprietario/a (§ 150). (Cecilia Pagella)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Gli incerti confini giurisprudenziali delle ingerenze nella libertà d’espressione in ambito elettorale. La Corte EDU tra esigenze di tutela dei valori in una società democratica e pluralista e rispetto del libero dibattito politico, in RIDPP, 2022, p. 568.