Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Martina Pasquin (artt. 2, 3, 8 e 11 Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 5 e 6 Cedu).
In maggio abbiamo selezionato pronunce relative a: morte di un detenuto causata da immobilizzazione (art. 2 Cedu); incatenamento di un soggetto in stato di arresto a un letto ospedaliero (art. 3 Cedu); presupposti della custodia cautelare (art. 5 Cedu); termini di impugnazione (art. 6 Cedu); imparzialità del giudice (art. 6 Cedu); omessa protezione dei residenti dall’inquinamento causato da una fonderia (art. 8 Cedu); diritto di interrogare o far interrogare i testimoni a carico (art. 6 Cedu); libertà di riunione e utilizzo di dispositivi di protezione individuale durante una manifestazione (art. 11 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. V, 27 maggio 2025, Kalkan c. Danimarca
Obblighi positivi – Morte del ricorrente in carcere dopo essere stato immobilizzato in posizione prona per tredici minuti – Mancato adempimento da parte delle autorità nazionali dell’obbligo di formazione degli agenti penitenziari - Violazione
Il caso riguarda la morte del figlio della ricorrente, avvenuta in carcere dopo che lo stesso era stato trattenuto in posizione prona con blocco delle gambe per circa tredici minuti, a seguito di cui aveva avuto un infarto. La Corte esamina la condotta delle autorità danesi concentrandosi sull'adeguatezza della formazione e delle istruzioni fornite agli agenti penitenziari in merito all'uso della posizione prona durante la contenzione dei detenuti. Rilevando la mancata trasmissione da parte delle autorità nazionali agli agenti penitenziari di informazioni chiare e adeguate sui rischi associati alla posizione prona, nonché l’assenza di iniziative di revisione e aggiornamento di tali istruzioni, la Corte ritiene che vi sia stata una violazione dell’art. 2 sotto il profilo del mancato rispetto dell’obbligo positivo dello Stato di tutelare la vita (§ 129). (Martina Pasquin)
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. III, 27 maggio 2025, Pedev c. Bulgaria
Trattamento degradante – Carattere non strettamente necessario dell’uso di catene per tenere il ricorrente legato al letto ospedaliero – Trattamento subito in presenza della madre che ha aggravato l’impatto psicologico – Obblighi procedurali – Assenza di indagini efficaci – Violazione
Il ricorrente, arrestato il 10 luglio 2020 nel contesto di una manifestazione a Sofia, ricorre alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo sia sostanziale che procedurale, per essere stato vittima di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine durante l’arresto, la detenzione alla stazione di polizia e il ricovero ospedaliero, nonché per la mancata conduzione di un’indagine efficace da parte delle autorità bulgare su tali accuse. Quanto alla prima doglianza, per la parte relativa all’arresto e alla successiva detenzione presso la stazione di polizia, la Corte rileva che – sebbene il ricorrente fosse stato ricoverato con una commozione cerebrale e altri segni sul corpo il giorno successivo all’arresto – tali lesioni appaiono compatibili con la dinamica degli eventi, in particolare con una caduta accidentale all’interno della stazione di polizia, e non attribuibili a maltrattamenti, come accertato dall’autorità giudiziaria bulgara nel corso di un’indagine penale avviata nel 2022, che la Corte ritiene approfondita ed efficace, e sufficiente a dichiarare il ricorso manifestamente infondato e respingerlo in merito a tali profili. Diversa è la valutazione relativa al ricovero ospedaliero, in particolare con riferimento all’immobilizzazione al letto, con mani e piedi legati, lamentata dal ricorrente, rispetto alla quale la Corte riconosce una violazione dell’art. 3 in quanto trattamento degradante. Dagli atti risulta che il ricorrente, già sottoposto a sorveglianza costante da parte di due agenti penitenziari, fu legato al letto il 12 luglio 2020 per un periodo circoscritto – dalle ore 15.00 fino alle 20.30 dello stesso giorno – mediante una catena fissata al piede destro (§§ 13, 75). La Corte, richiamando il proprio consolidato orientamento, ribadisce che un trattamento può dirsi “degradante” ai sensi dell’art. 3 non soltanto quando provoca sofferenze fisiche o psichiche di particolare intensità, ma anche quando ha l’effetto di umiliare o avvilire l’individuo, o suscita un sentimento di paura, ansia o inferiorità, in modo incompatibile con il rispetto della dignità umana (§ 87). Nel caso di specie, la misura di contenzione non è apparsa giustificata né da un rischio di fuga né da un comportamento aggressivo del ricorrente, già indebolito da una commozione cerebrale e costantemente vigilato all’interno di una stanza d’ospedale da due agenti, di cui uno posizionato all’interno della camera e l’altro all’esterno (§§ 89, 90). La Corte osserva che il ricorrente non aveva mostrato segni di agitazione o violenza e che la presenza permanente di personale di sorveglianza era tale da neutralizzare ogni pericolo di evasione, rendendo la misura innecessaria (§ 90). A ciò si aggiunge l’ulteriore elemento della presenza della madre, accorsa in visita presso l’ospedale, che ha aggravato l’umiliazione e il disagio psicologico sofferto dal ricorrente (§ 13). Quanto alla violazione degli obblighi procedurali, la Corte constata che le autorità bulgare hanno omesso di condurre un’indagine efficace e tempestiva sull’episodio di contenzione fisica durante il ricovero ospedaliero. Nonostante il ricorrente avesse sporto denuncia in merito all’accaduto e avesse lamentato formalmente l’uso delle catene, nessuna specifica attività istruttoria fu avviata per accertare le responsabilità di tale trattamento (§ 93). La Corte ricorda che l’art. 3 impone agli Stati l’obbligo positivo di svolgere un’indagine ufficiale effettiva ogni qualvolta vi sia un’accusa argomentata di maltrattamenti inflitti da agenti statali o sotto la loro responsabilità (§ 97). L’indagine deve essere indipendente, obiettiva e sufficientemente approfondita, e deve essere avviata d’ufficio quando sussistano elementi indiziari sufficienti, anche in assenza di una denuncia formale da parte della vittima (§ 98). Nel caso di specie, le autorità si sono limitate a valutare genericamente la doglianza del ricorrente nell’ambito di un procedimento più ampio, senza verificare in concreto la proporzionalità e la necessità della misura coercitiva adottata (§ 95). Inoltre, è emerso che nessuna indagine penale fu aperta con riferimento specifico a tale episodio, né fu tentata l’identificazione dei responsabili della decisione di procedere all’immobilizzazione, con conseguente elusione dell’obbligo di accertamento e sanzione delle condotte eventualmente illecite (§ 99). In ragione di ciò, la Corte riconosce una violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo procedurale. (Martina Pasquin)
Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Detenzione e infermità psichica sopravvenuta: un problema europeo e una soluzione nazionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,2019, 2, pp. 1065 e ss.; C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, pp. 1567 ss.
Art. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, com. sez. IV, sent. 20 maggio 2025, Matchavariani c. Georgia
Legittimità della detenzione – custodia cautelare non necessaria e arbitraria – violazione
Il ricorrente viene arrestato per aver disobbedito a un ordine legittimo della polizia ed è poi posto in custodia cautelare. Nei suoi confronti viene così avviato un procedimento di natura amministrativa e, nel corso del giudizio, il tribunale chiede alla polizia, che riveste il ruolo di pubblica accusa, di presentare prove a sostegno dell’ipotesi accusatoria, rinviando l’udienza di qualche ora (§ 21). Prima del rinvio, la difesa chiede la liberazione del ricorrente, non essendovi motivo per mantenere la detenzione cautelare durante il giudizio; tuttavia, il tribunale rigetta la richiesta, affermando che il rilascio può essere ordinato solo con il decorso del termine massimo di quarantotto ore (§ 22). Alla ripresa del processo, dopo che l’accusa presenta come nuove prove tre videoregistrazioni, l’imputato viene condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria e rilasciato. La difesa presenta ricorso, lamentando, fra l’altro, la violazione del principio d’imparzialità del giudice e l’assenza di motivi che giustificassero il mantenimento della detenzione (§ 30); il ricorso è però rigettato. Con riguardo all’art. 5 comma 1 Cedu, il ricorrente contesta l’arbitrarietà e l’illegittimità della detenzione provvisoria. Premesso che la privazione della libertà costituisce un’extrema ratio, applicabile soltanto quando altre misure meno severe sono state prese in considerazione e ritenute insufficienti a salvaguardare gli interessi tutelati, la Corte europea osserva che, nel caso di specie, l’arresto è stato disposto sulla base di un "ragionevole sospetto” di commissione di un reato. Tuttavia, affinché la custodia cautelare possa essere considerata non arbitraria, non è sufficiente che tale misura sia adottata ed eseguita in conformità al diritto nazionale, ma deva altresì risultare necessaria alla luce delle circostanze concrete (§ 62). Nel caso di specie, la protrazione della detenzione cautelare è stata giustificata sulle considerazioni che essa rientrava nei limiti massimi previsti dalla legge ed era finalizzata a garantire l'applicazione di una potenziale pena detentiva. È quindi mancata una valutazione individuale in merito alla concreta proporzionalità della misura e quindi alla sua necessità (§ 66): ne consegue la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)
Art. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez.V, sent. 15 maggio 2025, Vachik Karapetyan e altri c. Armenia
Equità processuale - diritto di accesso al giudice – termini per impugnare – violazione
Condannato dal Tribunale amministrativo per aver disobbedito a un ordine legittimo della polizia, il ricorrente, dopo il rigetto dell’appello, presenta ricorso per cassazione. Tuttavia, la Corte di cassazione dichiara il ricorso inammissibile perché presentato oltre il termine perentorio di un mese, considerando quale dies a quo la data in cui è stata pronunciata la decisione (§ 20). Anzitutto, la Corte europea afferma che il procedimento, ancorché definito amministrativo dall’ordinamento interno, deve considerarsi penale alla luce dei criteri Engel. Ciò premesso, il giudice di Strasburgo evidenzia come il diritto d’impugnare possa essere effettivamente esercitato soltanto dal momento in cui le parti siano in grado di prendere conoscenza della decisione; in caso contrario, i giudici, ritardando la notificazione delle loro decisioni, potrebbero ridurre sostanzialmente i termini per impugnare o addirittura rendere impossibile l’impugnazione (§ 88). Nel caso in esame, la decisione impugnabile è stata notificata quattro giorni dopo la sua pronuncia e il ricorrente ha presentato il ricorso per cassazione entro un mese dalla data di notifica della decisione impugnata; tuttavia, la Corte di cassazione ha, per un verso, dichiarato il ricorso inammissibile perché presentato oltre il termine di un mese, calcolato a partire dalla data della pronuncia e, dall’altro, ha escluso che il ricorrente avesse presentato richiesta di restituzione nel termine. Nel valutare se la limitazione subita dal ricorrente ad accedere alla Corte di cassazione possa ritenersi proporzionata, il giudice europeo ha verificato la prevedibilità dell’applicazione del termine (§ 94): in particolare, si è soffermato su una decisione della Corte costituzionale, la quale, da un lato, aveva sancito la costituzionalità del calcolo del termine d’impugnazione dalla data della pronuncia, a condizione che la decisione fosse effettivamente notificata alla parte interessata entro il termine di legge, ossia il giorno successivo e, dall’altro, aveva stabilito che, in casi di notifica della decisione oltre il termine prescritto dalla legge, il termine doveva essere restituito de jure, senza discrezionalità del giudice. Nel caso di specie la condizione posta dalla Corte costituzionale affinché il termine decorresse dalla pronuncia della decisione – ossia, la tempestiva notifica della decisione – non era stata soddisfatta e, pertanto, non era irragionevole per il ricorrente aspettarsi che il termine di ricorso venisse restituito o comunque il suo ricorso fosse considerato ammissibile in quanto presentato entro un mese dalla notifica (come era accaduto in diversi casi risalenti approssimativamente allo stesso periodo del ricorso del ricorrente). Alla luce di queste considerazioni, il giudice europeo ritiene l'applicazione del termine non prevedibile (§ 101). Inoltre, la Corte di cassazione, non concedendo la restituzione nel termine in ragione del difetto di una formale richiesta del ricorrente (il quale, tuttavia, aveva manifestato implicitamente, ma chiaramente, la sua intenzione di chiedere la restituzione nel termine), ha adottato un approccio eccessivamente formalistico (§ 105). Ne deriva la violazione del diritto di accesso al giudice, di cui all’art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: E. Crippa, L’accesso alle corti superiori tra ostacoli prevedibili e limitazioni arbitrarie, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 300.
C. eur. dir. uomo, com. sez. IV, sent. 20 maggio 2025, Matchavariani c. Georgia
Equità processuale – imparzialità del giudice – profilo oggettivo – non violazione
Per la sintesi dei fatti di causa, v. sub art. 5. Il ricorrente ritiene che il tribunale di primo grado abbia attivamente aiutato la polizia a presentare e sostenere le accuse a suo carico, violando così il requisito d’imparzialità oggettiva. Premesso che deve affermarsi la natura penale delle accuse a carico del ricorrente, nonostante esse siano qualificate "amministrative" ai sensi della legislazione georgiana, il giudice europeo anzitutto rammenta come il profilo oggettivo dell’imparzialità riguardi principalmente i legami gerarchici o di altra natura tra il giudice e gli altri protagonisti del procedimento, dovendosi valutare caso per caso se il rapporto in questione sia di natura e grado tali da inficiare l’imparzialità dell’organo giudicante (§ 82). Considerate le circostanze del caso, e in particolare la natura “amministrativa” dell’illecito per l’ordinamento interno, la Corte di Strasburgo osserva che, sebbene sia normalmente compito della parte inquirente presentare e provare l'accusa al fine di consentire il contraddittorio tra le parti, le garanzie di carattere penale di cui all’art. 6 Cedu non si applicano necessariamente con tutta la loro severità a tutte le categorie di casi che rientrano in tale ambito (§ 88); pertanto, nel caso di specie, sebbene le prove introdotte dall’accusa a seguito della richiesta del giudice siano state importanti per la condanna, questa si è basata anche su altre prove e, inoltre, il ricorrente ha potuto contestare tutte le prove prodotte dalla polizia (§ 91). Non risulta perciò violato l’art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: V. Sirello, Questioni in Tema Di Imparzialità Oggettiva Del Giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1249 ss.; L. Pressacco, Processus est actus trium personarum: imparzialità del giudice e assenza dell’accusatore nel processo, ivi, 2024, p. 378.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 27 maggio 2025, Engels c. Belgio
Equità processuale – diritto di interrogare o far interrogare i testimoni a carico – non violazione
Nel corso di un’indagine penale per corruzione e associazione a delinquere, alcuni indagati rilasciano dichiarazioni incriminanti nei confronti del ricorrente. Nel processo di primo grado, il ricorrente, salva la prima udienza, non compare, adducendo motivi di salute, mentre gli altri coimputati confermano le dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti (§ 7-8). Condannato, il ricorrente presenta appello, ma nel giudizio di seconde cure né lui né il suo difensore si presentano, adducendo entrambi motivi di salute ma non chiedendo il rinvio dell’udienza: la condanna è sostanzialmente confermata, sulla scorta delle dichiarazioni dei coimputati. Successivamente, il ricorrente presenta opposizione, contestando nelle sue conclusioni le dichiarazioni dei coimputati, senza tuttavia chiedere che fossero ascoltati; tuttavia, con successive conclusioni chiede di poter interrogare i coimputati (§ 16). La richiesta è rigettata e la condanna è confermata. Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 Cedu. Al riguardo, la Corte di Strasburgo osserva che indubbiamente la mancata comparizione in appello dei testimoni determinanti è dipesa dal rifiuto della corte d’appello, non sussistendo gravi motivi che giustificassero l’assenza. Tuttavia, viene evidenziato che il mancato confronto con gli accusatori nel giudizio di primo grado è stato determinato dalla difesa, non avendo il difensore chiesto il rinvio dell’udienza al fine di consentire al ricorrente di comparire e confrontarsi con i coimputati (§ 50); inoltre, il ricorrente, assistito da un difensore, ha chiesto che i coimputati fossero ascoltati nei momenti finali del processo d’appello, senza indicare alcuna ragione per cui non avrebbe potuto presentare tale richiesta precedentemente (§ 51); infine, il ricorrente ha avuto la possibilità di fornire la propria versione dei fatti, di contestare le accuse a carico e di contraddire le dichiarazioni accusatorie (§ 54). Pertanto, la Corte europea esclude che sia stata pregiudicata l'equità del procedimento. (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: P. Concolino, L’equità processuale: leading case e applicazione concreta della C.edu, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, 1628 ss.
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. I, 6 maggio 2025, L. F. e altri c. Italia
Obblighi positivi – Mancata adozione di tutte le misure necessarie a contenere l’inquinamento causato da una fonderia – Aggravamento della salute dei residenti nell’area limitrofa – Lesione della vita privata e familiare – Violazione
La questione affrontata dalla Prima sezione è se l’insufficiente adozione di misure di prevenzione e tutela per ridurre al minimo o eliminare gli effetti dell’inquinamento causato dalla protratta attività di una fonderia situata in un’area residenziale del comune di Salerno – nonostante il comprovato impatto nocivo sull’ambiente e sulla salute della popolazione – costituisca violazione degli artt. 2 e 8 CEDU (§ 1). I ricorrenti, 153 cittadini residenti entro un raggio di sei chilometri dall’impianto industriale, lamentano l’incapacità delle autorità italiane di proteggere la loro vita e salute, avendo esse consentito lo sviluppo residenziale nell’area circostante la fonderia e omesso di adottare le misure necessarie a contenere l’inquinamento e gli effetti negativi delle emissioni dell’impianto industriale, che avrebbero causato specifiche patologie ai residenti dell’area interessata (§§ 11 ss.). In primo luogo, la Corte osserva che in tema di danni ambientali che riguardano una singola, identificata e circoscritta fonte di inquinamento e un’area geografica limitata, è opportuno esaminare la questione in via esclusiva dalla prospettiva del diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU (§ 108). In merito a questo profilo, sulla base dei propri precedenti, la Corte riconosce che un grave inquinamento ambientale, che comprometta il benessere e la salute degli individui in misura tale da interferire con la libera fruizione dei loro spazi abitativi e da incidere effettivamente nella loro sfera privata, costituisce una violazione del loro diritto alla vita privata e familiare (§ 115). La valutazione di tale livello minimo di gravità va effettuata con riguardo a tutte le circostanze del caso, tenendo conto dell’intensità e della durata delle emissioni, degli effetti fisici e psichici conseguenti l’esposizione ecc. ecc. Nel giudizio in oggetto, la violazione viene affermata proprio sul presupposto della prolungata esposizione degli abitanti della zona a un inquinamento ambientale significativo e del radicale peggioramento delle condizioni di vita nel contesto residenziale limitrofo all’impianto. Pur ammettendo l’impossibilità di attribuire con certezza le patologie lamentate dai ricorrenti esclusivamente all’inquinamento proveniente dall’impianto, in assenza di accertamenti medico-legali univoci sul punto, la Corte osserva, da un lato, come la prossimità dell’impianto abbia reso lo stato di salute dei ricorrenti comunque più vulnerabile, e dall’altro, ritiene che gli effetti delle emissioni della fonderia – odori, fumi, polveri, rumori – abbiano inciso negativamente sul benessere dei ricorrenti e che una tale compromissione delle condizioni di vita costituisca, di per sé, un’interferenza ingiustificata nella sfera protetta dall’art. 8 (§ 118). Sul piano degli obblighi positivi, la Corte stigmatizza l’inadeguatezza dell’azione statale sotto il profilo della carenza di un effettivo sistema di controllo e regolamentazione dell’impianto, che ha consentito il proseguimento dell’attività nonostante fosse già noto da tempo che lo stesso operava in un contesto urbanizzato, in evidente contrasto con le indicazioni già contenute nel Piano Regolatore Comunale del 2006 (che aveva ritenuto l’impianto “assolutamente incompatibile” con l’area residenziale limitrofa), nonché nelle conclusioni di numerosi studi epidemiologici (§§ 159-165). Rispetto a tale ultimo profilo, particolare rilievo assume la mancata ponderazione, da parte delle autorità italiane, tra l’interesse alla continuazione dell’attività industriale e l’interesse individuale dei ricorrenti a vivere in un ambiente salubre (§ 170): secondo la Corte, a fronte delle autorizzazioni rilasciate nonostante l’acclarato pregiudizio alla salute e alla qualità della vita della popolazione residente, le autorità sono venute meno al loro obbligo positivo di adottare tutte le misure necessarie a garantire l’effettiva tutela del diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata (§ 171). Si segnala l’opinione parzialmente dissenziente del giudice Serghides, critico, in particolare, rispetto alla scelta della maggioranza di non esaminare le questioni anche sotto l’angolo del diritto alla vita. (Martina Pasquin)
Riferimenti bibliografici: M. Nicolini, Azioni, omissioni e responsabilità dello Stato italiano nella gestione del drammatico problema della terra dei fuochi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 1, pp. 367 ss.
ART. 11 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. II, 20 maggio 2025, Russ c. Germania
Libertà di riunione pacifica – Condanna penale del ricorrente per aver indossato una visiera di plastica durante una manifestazione pacifica, ritenuta una violazione del divieto nazionale di indossare “armi protettive” durante le assemblee pubbliche – Mancato bilanciamento tra il diritto del ricorrente e gli obiettivi legittimi perseguiti dal divieto nazionale – Interferenza non “necessaria in una società democratica” – Violazione
Oggetto del giudizio è la compatibilità con l’art. 11 CEDU della condanna penale inflitta al ricorrente, attivista politico, per aver indossato durante una manifestazione una visiera di plastica, qualificata dalle autorità tedesche come “arma protettiva” ai sensi della legislazione nazionale in materia di assemblee pubbliche. La Corte è chiamata a valutare se tale misura sanzionatoria – pur di lieve entità – costituisca un’interferenza sproporzionata con il diritto alla libertà di riunione pacifica, come lamentato dal ricorrente. Secondo la Corte, l’assemblea a cui il ricorrente ha partecipato deve ritenersi di natura pacifica, in quanto il ricorrente non ha adottato comportamenti violenti né risulta che gli organizzatori avessero finalità diverse da quelle pacifiche, nonostante la presenza, in altre zone della città, di gruppi isolati responsabili di atti di vandalismo e aggressione (§§ 36-39). Ne deriva che la condanna penale del ricorrente ha interferito con il suo diritto alla libertà di riunione pacifica tutelato dall’art. 11 CEDU (§ 41). Quanto alla giustificazione dell’ingerenza, la Corte ritiene soddisfatti i requisiti formali di legalità e legittimità. L’interferenza era “prevista dalla legge” – in particolare dall’art. 27(1) della legge tedesca sulle assemblee pubbliche – e risponde a scopi legittimi quali la prevenzione dei disordini e la tutela dei diritti e delle libertà altrui (§§ 44-48). Tuttavia, è sul piano della necessità e proporzionalità dell’ingerenza che il controllo di Strasburgo conduce a un esito diverso da quello dei giudici interni. Secondo la Corte, infatti, la condanna penale del ricorrente non risulta “necessaria in una società democratica” ai sensi dell’art. 11 § 2 CEDU. In primo luogo, la Corte ribadisce che le sanzioni penali comminate per condotte pacifiche nel contesto di manifestazioni pubbliche richiedono una giustificazione particolarmente stringente, poiché possono esercitare un effetto dissuasivo sulla partecipazione al dibattito pubblico e alla protesta collettiva (§§ 49-51). Pur riconoscendo che un divieto generale di armi protettive può, in astratto, contribuire a prevenire disordini, i giudici osservano che la visiera indossata dal ricorrente era una semplice protezione artigianale, realizzata con un foglio di plastica trasparente e un elastico, la cui pericolosità effettiva per l’ordine pubblico era quantomeno dubbia (§ 53). In secondo luogo, la Corte osserva che i tribunali nazionali non hanno effettuato un’adeguata valutazione delle circostanze concrete della manifestazione, né si sono interrogati sulla concreta minaccia che l’oggetto in questione potesse costituire per la sicurezza pubblica. (§§ 54-55). Inoltre, la Corte rileva che nessun ordine preventivo fu impartito al ricorrente affinché rimuovesse la visiera, né fu motivato il ricorso diretto alla sanzione penale, anziché a misure meno inflittive (§ 55). A fronte dell’assenza di un bilanciamento effettivo tra il diritto del ricorrente a partecipare a una manifestazione pacifica e l’interesse pubblico alla sicurezza, la Corte conclude che i giudici nazionali non hanno fornito motivazioni “pertinenti e sufficienti” per giustificare la condanna penale, la quale pertanto costituisce una violazione dell’art. 11 CEDU (§§ 56-58). (Martina Pasquin)
Riferimenti bibliografici: C. Cataneo, L’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza al fine di disperdere una riunione pacifica non autorizzata integra una violazione dell’art. 11 CEDU, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 1.