ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
02 Maggio 2023


Osservatorio Corte EDU: marzo 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Beatrice Fragasso (artt. 3 e 10 Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 5, 6 e 4 Prot. 4 Cedu).

 

In marzo abbiamo selezionato pronunce relative a: condizioni di vita e rimpatri di migranti trattenuti presso l’hotspot di Lampedusa (artt. 3 e 5 Cedu, art. 4 Prot. 4 Cedu); presunzione di innocenza e doppio binario sanzionatorio (art. 6 Cedu); tutela della parte civile in caso di prescrizione del reato (art. 6 Cedu); rivelazione di informazioni relative a magistrati che avevano prestato servizio per la Stasi durante la DDR (art. 10 Cedu); sanzione disciplinare nei confronti di un avvocato che aveva denunciato un presunto fatto corruttivo commesso da un pubblico ministero (art. 10 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, 30 marzo 2023, J.A. e altri c. Italia

Divieto di trattamenti inumani e degradanti – Trattenimento nell’hotspot di Lampedusa – precarie condizioni igienico-sanitarie – sovraffollamento – violazione

I ricorrenti sono quattro cittadini tunisini che, nel 2017, dopo aver lasciato la Tunisia a bordo di un’imbarcazione di fortuna, erano stati soccorsi da una nave italiana e portati nell’hotspot di Lampedusa, dove erano rimasti per dieci giorni. Durante tale periodo, allegano di aver vissuto in condizioni inumane e degradanti e di non aver avuto la possibilità di uscire dalla struttura né di interagire con le autorità competenti. Successivamente, i ricorrenti erano stati portati all’aeroporto dell’isola, dove avevano firmato dei documenti senza comprenderne il significato, scoprendo solo in seguito che si trattava di provvedimenti di respingimento emessi dalla Questura di Agrigento. Essi venivano infine trasportati in aereo all'aeroporto di Palermo, e da lì trasferiti in Tunisia. I ricorrenti lamentano, anzitutto, la violazione dell’art. 3 Cedu, in relazione ai trattamenti inumani e degradanti subìti durante la permanenza nell’hotspot di Lampedusa, consistenti in condizioni igieniche precarie, sovraffollamento, carenza di servizi e di letti. La Corte di Strasburgo, nel ribadire che le difficoltà derivanti dalla gestione di un elevato numero di migranti e richiedenti asilo non esonera gli Stati membri dal rispetto degli obblighi derivanti dall’art. 3 Cedu (§ 65), accoglie il ricorso, ritenendo che l’inadeguatezza delle condizioni di vita nell’hotspot, nel periodo considerato, era testimoniata da molteplici fonti, nazionali e sovranazionali, tra cui i report redatti dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (§ 62) e dal Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (§ 63), e che il Governo italiano non aveva fornito elementi sufficienti a sostegno della tesi secondo cui le condizioni individuali di soggiorno dei ricorrenti erano state dignitose (§ 64). Per i profili relativi alla violazione dell’art. 5 Cedu e dell’art. 4 Prot. 4 Cedu, v. infra.  (Beatrice Fragasso)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Dalla Corte di Strasburgo nuovi criteri in materia di condizioni detentive ed art. 3 CEDU?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 345.

 

 

Art. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 30 marzo 2023, J.A. e altri c. Italia

Legalità della privazione della libertà personale – diritto all’informazione sui motivi della detenzione – diritto al controllo di legalità - detenzione per dieci giorni presso un hotspot – assenza di qualsiasi base giuridica – violazione

Per la sintesi dei fatti di causa, v. sub art. 3. I ricorrenti, quattro migranti irregolari giunti in Italia via mare dalla Tunisia, lamentano l’illegittima privazione della libertà personale, in quanto non autorizzati a lasciare il centro di accoglienza durante i dieci giorni di permanenza. A tal riguardo, la Corte europea rammenta che l'art. 5 comma 1 lett. f Cedu consente una limitazione della libertà personale nei confronti di una persona straniera, allo scopo di impedirle l’ingresso non autorizzato nel Paese oppure qualora nei confronti della medesima sia in corso una procedura di espulsione o di estradizione. Nel caso di specie, se la finalizzazione all’espulsione può venire in rilievo solo per le poche ore precedenti l'allontanamento dei ricorrenti, occorre verificare se la restrizione della libertà, disposta per impedire loro un accesso non autorizzato nel paese, abbia rispettato il requisito della "legalità" e, in particolare, si sia basata sul diritto interno (§ 85). A questo proposito, il giudice europeo concentra anzitutto l'attenzione sulla funzione degli hotspot: all’epoca dei fatti, tali strutture non erano destinate a fungere da centri di trattenimento, essendo strutture di identificazione e smistamento (§ 88); né nell’ordinamento italiano era dato riscontrare un fondamento normativo che consentisse l’utilizzo dell’hotspot di Lampedusa come centro di detenzione per stranieri (§ 91). Pertanto, la limitazione della libertà personale dei ricorrenti deve definirsi illegittima e arbitraria, ai sensi dell’art. 5 comma 1 lett. f Cedu,  mancando sia una base giuridica chiara e accessibile sia un provvedimento motivato che ne disponesse il trattenimento (§ 97). Di conseguenza, per le autorità non è stato possibile informare i ricorrenti dei motivi legali della loro detenzione né i ricorrenti hanno potuto contestarne la legalità, risultando così violati i commi 2 e 4 dell’art. 5 Cedu (§ 98-99). (Roberta Casiraghi)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, La Corte edu alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 555 ss.

 

 

Art. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 9 marzo 2023, Rigolio c. Italia

Presunzione d’innocenza - procedimento davanti alla Corte dei conti nei confronti di un soggetto prosciolto per prescrizione – valutazione della Corte dei conti autonoma rispetto a quella del giudice penale - espressioni usate dalla Corte dei conti non attributive della responsabilità penale - non violazione

Nei confronti del ricorrente, assessore comunale all’urbanistica, vengono instaurati due procedimenti, uno penale (per il reato di appropriazione indebita, poi riqualificato in corruzione) e uno innanzi alla Corte dei conti (per lesione dell’immagine dell’amministrazione). Il procedimento penale, dopo una condanna pronunciata dal giudice di prima cure, si conclude con una sentenza che dichiara estinto il reato, ma condanna civilmente il ricorrente. Quanto al procedimento innanzi alla Corte dei conti, esso si conclude con una sentenza, in cui, riconosciuta la «particolare gravità del “fatto corruttivo”» (§ 36), il ricorrente è condannato al pagamento di una somma di denaro a favore del comune. Lamentando il ricorrente la violazione anche della fairness processuale, il giudice europeo esamina la questione dal punto di vista del solo art. 6 comma 2 Cedu (§ 65). A tal riguardo, viene rammentato come la presunzione d’innocenza, pur essendo considerata anzitutto una garanzia processuale, riveste una seconda funzione, evitando che i soggetti beneficiari di un'assoluzione o di un’archiviazione siano trattati da pubblici ufficiali o autorità come se fossero effettivamente colpevoli del reato loro addebitato (§ 84); tuttavia, affinché venga in gioco l'applicabilità della norma convenzionale nell’ambito di un successivo procedimento extrapenale, occorre un nesso fra quest’ultimo e il procedimento penale concluso (§ 85). Volgendo lo sguardo nel caso di specie, la Corte di Strasburgo osserva come il fatto che la Corte dei conti abbia esaminato il fascicolo penale, basando il proprio ragionamento in gran parte sul contenuto dello stesso, sia sufficiente per affermare l’esistenza di uno stretto legame tra i due procedimenti. Tuttavia, il giudice di Strasburgo non condivide l'argomento del ricorrente secondo cui la prescrizione penale impediva ai giudici nazionali di stabilire la responsabilità civile per gli stessi fatti, poiché, l'assoluzione pronunciata in sede penale, pur dovendo essere rispettata nell'ambito del procedimento risarcitorio, non preclude l'accertamento della responsabilità civile (§ 100). D’altra parte, il procedimento innanzi alla Corte dei conti non era né accessorio al procedimento penale né una prosecuzione dello stesso. La questione del risarcimento, infatti, per verso, è stata oggetto di una valutazione giuridica separata, basata su criteri di valutazione e di prova che differivano dalle norme applicabili in sede penale e, per l’altro, è stata decisa sulla base di prove che – pur provenendo dal procedimento penale - sono state portate all'attenzione della Corte dei conti in contraddittorio; né è irrilevante la circostanza che, per la pronuncia, la Corte dei conti abbia tenuto conto non solo della commissione di un atto oggettivamente qualificabile come reato, ma anche di ulteriori dati, quali l'incidenza dei fatti in questione e i costi che l'amministrazione locale ha dovuto assumere per ripristinare la sua immagine presso il pubblico (§ 112). Per quanto riguarda il linguaggio impiegato dalla Corte dei conti, premesso che esso riveste un’importanza cruciale per valutare il rispetto della presunzione d’innocenza, il giudice europeo ritiene che le espressioni usate dalla Corte dei conti, laddove ha richiamato il «fatto di corruzione accertato nel procedimento penale» e la «particolare gravità del "fatto corruttivo"», non siano esclusive del diritto penale, potendo essere impiegate anche nel diritto civile per l’accertamento della relativa responsabilità: pertanto, tali espressioni non possono ragionevolmente essere interpretate come attributive di responsabilità penale al ricorrente (§ 117). È quindi esclusa la violazione convenzionale. (Roberta Casiraghi

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Impugnazione per condanna ai soli fini civili: limiti e compatibilità con la presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 551 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 30 marzo 2023, Diémert c. Francia

Equità processuale – diritto d’accesso al giudice – mancato esame nel merito del ricorso a causa del sopraggiungere della prescrizione – onere della parte civile di monitorare l'andamento del procedimento per evitare la prescrizione – restrizione prevedibile e non eccessiva – non violazione 

Il ricorrente, parte civile in un procedimento per diffamazione, lamenta una violazione del suo diritto d’accesso a un giudice, in quanto la sua pretesa risarcitoria non è stata esaminata nel merito, in ragione del sopraggiungere del termine di prescrizione, determinato da un rinvio del dibattimento disposto dalla corte d’appello in data troppo lontana. In particolare, il ricorrente ritiene eccessivamente formalistico l’orientamento giurisprudenziale che impone alla parte civile di vigilare sull'andamento del procedimento e di convocare l'imputato in una delle udienze qualora si renda necessario interrompere la prescrizione. La Corte europea ribadisce che il diritto d’accesso a un tribunale deve essere concreto ed effettivo, pur prestandosi a limitazioni, in particolare per quanto riguarda le condizioni di ricevibilità di un ricorso; tuttavia, tali limitazioni sono compatibili con l’equità processuale solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito. Più precisamente, il giudice di Strasburgo prende in esame tre criteri: la prevedibilità della restrizione; la questione di chi debba sopportare le conseguenze negative degli errori commessi nel corso del procedimento; la questione sull’eventuale eccessivo formalismo delle restrizioni. Inoltre, qualora venga in rilievo il diritto d’accesso al giudice dell’impugnazione, occorre tener conto di come la vicenda sia stata esaminata dai tribunali di grado inferiore (§ 34). Nel caso di specie, la Corte di Strasburgo osserva che la restrizione al diritto d’accesso a un tribunale determinata dalla prescrizione perseguiva tre finalità, ossia assicurare la corretta amministrazione della giustizia, la certezza del diritto e, trattandosi di un reato di stampa, tutelare la libertà di espressione (§ 37). Riconosciuti legittimi tali scopi, il giudice europeo rileva altresì che le richieste del ricorrente sono state prese in seria considerazione in primo grado e che la giurisprudenza in materia può definirsi chiara, accessibile e consolidata, risultando dunque prevedibile la restrizione (§ 38-39). Né l’onere procedimentale posto a carico della parte civile può definirsi eccessivo: il ricorrente era assistito da un difensore e quindi in grado di conoscere tale onere; il difensore avrebbe potuto presentare osservazioni sulla domanda di rinvio avanzata dall'imputato o fare presente al giudice che la data fissata per l’udienza avrebbe determinato la prescrizione; il ricorrente aveva tre mesi di tempo per notificare alle parti una citazione a comparire in un'altra udienza (§ 45-47). Di conseguenza, non è violato l’art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)

 

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 28 marzo 2023, Saure c. Germania (n. 2)

Libertà di espressione – rifiuto di fornire informazioni riguardanti magistrati che in precedenza avevano lavorato per la Stasi – nome e sede di servizio dei magistrati – assegnazione di fascicoli riguardanti “atti illeciti commessi dalla DDR” – non violazione – natura e grado della collaborazione con la Stasi, anche con riferimento alla commissione di illeciti penali – violazione

Il ricorrente, un giornalista tedesco, lamentava la violazione dell’art. 10 Cedu in relazione al rifiuto, opposto dal Ministero della Giustizia del Land di Brandeburgo, di fornire alcune informazioni riguardanti tredici giudici e un pubblico ministero che in precedenza avevano lavorato per il Ministero per la Sicurezza dello Stato dell'ex Repubblica Democratica Tedesca (c.d. Stasi) e che, dopo la riunificazione della Germania, erano stati integrati nel sistema giudiziario dei nuovi Länder. In particolare, il giornalista aveva chiesto di accedere alle seguenti informazioni: nome e sede di servizio dei magistrati; natura e grado della collaborazione con la Stasi, allo scopo di far emergere eventuali condotte penalmente rilevanti; eventuale assegnazione di fascicoli riguardanti “atti illeciti commessi dalla DDR”. Il ricorrente lamenta altresì che le autorità giudiziarie interne si erano dimostrate lente e non imparziali, in violazione dell’art. 6, § 1, Cedu. La Corte Edu evidenzia, innanzitutto, che una compressione del diritto alla libertà di espressione è giustificata soltanto quando essa sia prevista dalla legge e necessaria, in una società democratica, al perseguimento dei fini legittimi elencati all’art. 10, § 2, tra i quali vi sono anche quelli – sussistenti nel caso di specie – di proteggere la reputazione e i diritti altrui, impedire la divulgazione di informazioni riservate e garantire l’autorità del potere giudiziario (§§ 52-56). I giudici di Strasburgo ritengono che la mancata comunicazione dei nomi e delle sedi di servizio dei magistrati che avevano collaborato con la Stasi non violi l’art. 10, dal momento che la suddetta rivelazione avrebbe potuto avere gravi conseguenze sulla vita privata dei magistrati e, in generale, sull’autorità del potere giudiziario, senza che ad essa potesse corrispondere un contributo informativo, per l’opinione pubblica, di comparabile rilievo (§§ 59-65). Non viola l’art. 10 nemmeno il rifiuto di fornire informazioni circa l’assegnazione di fascicoli riguardanti “atti illeciti commessi dalla DDR”, stante la vaghezza della richiesta (§§ 73-76). Contrasta con l’art. 10, invece, il diniego di fornire informazioni (anonime) circa la natura e il grado di collaborazione dei magistrati con la Stasi, dal momento che – a fronte di informazioni che, rivelando il coinvolgimento dei magistrati in attività penalmente rilevanti, avrebbero potuto contribuire in maniera rilevante ad un dibattito pubblico di interesse generale – le autorità tedesche non avevano addotto ragioni sufficienti per escluderne l’accesso (§§ 66-72). Infine, le doglianze fondate sull’art. 6, § 1 sono tutte rigettate, per mancato esperimento dei rimedi interni, ai sensi dell’art. 35, § 1 e 4 (§§ 77-82). (Beatrice Fragasso)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 marzo 2023, Rogalski c. Polonia

Libertà di espressione – sanzione disciplinare nei confronti di un avvocato che aveva denunciato un presunto fatto corruttivo commesso da un pubblico ministero, senza che vi fossero sufficienti indizi che provassero la fondatezza della notizia – mancanza di motivazione pertinente e sufficiente da parte dell’Ordine degli avvocati – violazione

Il ricorrente, un avvocato polacco, aveva denunciato all’autorità giudiziaria, su incarico di un cliente, un presunto caso di corruzione che avrebbe coinvolto il pubblico ministero al quale era assegnato un procedimento penale in cui lo stesso cliente era parte offesa. Nella denuncia, l’avvocato sosteneva che il procedimento era stato “prematuramente e ingiustificatamente” archiviato e che l’unica spiegazione per tale "decisione irrazionale" era che il pubblico ministero incaricato dell'indagine fosse stato corrotto; l’atto non conteneva, tuttavia, alcuna indicazione sulle circostanze del presunto illecito né sulle persone che sarebbero state coinvolte (§ 6). L’Ordine degli avvocati di Varsavia, ritenendo che il ricorrente avesse presentato una denuncia senza che vi fossero sufficienti indizi a supporto, infrangendo così alcune disposizioni del codice deontologico, aveva irrogato una sanzione pecuniaria e disposto la sospensione dall’esercizio della professione per un anno (§ 11 e 14). L’avvocato ricorreva alla Corte Edu, lamentando che la sanzione disciplinare violava l’art. 10 Cedu. I giudici di Strasburgo accolgono il ricorso, sostenendo che – benché la compressione del diritto alla libertà di espressione fosse prevista dal codice deontologico e giustificata dal fine di proteggere il potere giudiziario da attacchi infondati (§§ 42-43) – l’Ordine degli avvocati non aveva fornito motivazioni sufficienti a dimostrare che tale compressione fosse “necessaria in una società democratica”, così come richiesto dall’art. 10, § 2, Cedu. In particolare, da un lato, non ci sono prove che il ricorrente avesse inteso calunniare la persona denunciata (§ 47), e, dall’altro, questi aveva agito su incarico di un cliente e non può dunque essere ritenuto responsabile dell’eventuale falsità dei fatti raccontati da quest’ultimo (§ 49). Inoltre, la Corte ritiene che la denuncia presentata dal ricorrente non fosse del tutto sprovvista di elementi indizianti e che la procura avrebbe dovuto effettuare verifiche ulteriori, invece di archiviare il procedimento dopo soltanto otto giorni dalla ricezione della denuncia (§ 50). Infine, la compressione del diritto alla libertà di espressione era stata sproporzionata, dal momento che il ricorrente – oltre a non poter esercitare la professione per un anno – aveva subìto gravi danni reputazionali ed economici, derivanti, questi ultimi, dalla necessità di sostenere le spese del procedimento disciplinare (§ 52). (Beatrice Fragasso)

 

 

Art. 4 Prot. n. 4 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 30 marzo 2023, J.A. e altri c. Italia

Divieto di espulsione collettiva - respingimento differito senza tenere adeguatamente conto delle situazioni individuali - violazione

Per la sintesi dei fatti di causa, v. sub art. 3. I ricorrenti, quattro migranti irregolari giunti in Italia via mare dalla Tunisia, sostengono di essere stati oggetto di un respingimento differito equivalente a un'espulsione collettiva, senza alcuna possibilità d’impugnare il provvedimento di espulsione o di ottenerne copia. La Corte europea accerta la violazione dell’art. 4 Prot. n. 4 Cedu: tenuto conto del brevissimo lasso temporale intercorrente fra la firma dei provvedimenti di respingimento da parte dei migranti (senza che ne comprendessero il contenuto) e il loro allontanamento, costoro non hanno beneficiato della possibilità di presentare un’eventuale impugnazione (§ 113); per di più, i provvedimenti di respingimento e di allontanamento sono stati emessi senza tenere adeguatamente conto delle singole situazioni individuali, determinando una forma di espulsione collettiva, incompatibile con la norma convenzionale (§ 116). (Roberta Casiraghi)     

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, La Corte edu alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 555 ss.