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11 Gennaio 2024


Osservatorio Corte EDU: novembre 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Davide Colombo (artt. 3 e 4 Prot. 7 Cedu) e Luca Pressacco (artt. 4, 5, 6 e 8 Cedu).

 

In novembre abbiamo selezionato pronunce relative a: ergastolo irriducibile (art. 3 Cedu); maltrattamenti e trattenimento illegittimo di migranti irregolari (artt. 3 e 5 Cedu); sanzioni disciplinari nei confronti di detenuti (art. 3 Cedu); risarcimento del danno a favore di vittima di lavori forzati (art. 4 Cedu); imparzialità e indipendenza del giudice d’appello (art. 6 Cedu); riservatezza dei colloqui difensivi (art. 8 Cedu); doppio binario sanzionatorio (art. 4 Prot. 7 Cedu).

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 9 novembre 2023, Lang c. Ucraina

Divieto di trattamenti inumani e degradanti - procedimento di estradizione – ergastolo irriducibile – onere della prova – non violazione

Il caso concerne un cittadino statunitense residente in Ucraina, arrestato dalle autorità ucraine – e poi rilasciato – in relazione a varie accuse (tra cui turbamento del commercio mediante violenza e uso di armi da fuoco in relazione a crimini violenti esitati in omicidio), in esecuzione di un mandato di arresto proveniente dagli Stati Uniti. A fronte della richiesta di estradizione formulata dalle autorità statunitensi, il ricorrente adiva la Corte europea, ritenendo sussistente un rischio effettivo che l’estradizione comportasse, nonostante le rassicurazioni di segno contrario provenienti dagli Stati Uniti, la condanna alla pena di morte o, comunque, l’esecuzione di una condanna all’ergastolo irriducibile, senza possibilità di liberazione condizionale. Con riferimento al primo motivo di doglianza, la Corte europea richiama i propri precedenti in materia (C. eur. dir. uomo, sez. IV, Harkins and Edwards c. Regno Unito, 17 gennaio 2012; C. eur. dir. uomo, Grande Camera, McCallum c. Italia, 21 settembre 2022), osservando che non vi sono motivi per dubitare della validità delle rassicurazioni fornite dalle autorità statunitensi circa il fatto che il ricorrente non sarebbe stato condannato alla pena di morte (§32). Per quanto attiene, invece, al rischio di esecuzione di una condanna all’ergastolo irriducibile, i giudici di Strasburgo si riportano ai principi formulati in una propria recente pronuncia (C. eur. Dir. Uomo, Grande Camera, Sanchez-Sanchez c. Regno Unito, 3 novembre 2022), evidenziando come, in tema di estradizione, qualora sia paventato il rischio di esecuzione di una condanna a pena perpetua, occorra svolgere un test in due fasi. In primo luogo, occorre verificare che il ricorrente abbia fornito elementi di prova che rilevino motivi sostanziali da cui desumere l’esistenza di un rischio reale, in caso di estradizione e nell’eventualità di una condanna, dell’esecuzione di una pena perpetua, irriducibile, senza possibilità di liberazione condizionale. Solo laddove venga assolto tale onere probatorio, occorre quindi accertare se nello Stato residente esista un meccanismo procedurale di revisione, azionabile fin dal momento dell’eventuale sentenza, che consenta alle autorità locali di valutare il percorso rieducativo del condannato o qualsiasi altro elemento, relativo al comportamento del detenuto o ad altre significative circostanze personali, suscettibile di essere valutato positivamente ai fini della scarcerazione (§34). Ne consegue che, siccome il ricorrente non è ancora stato condannato con sentenza definitiva all’ergastolo, egli deve innanzitutto dimostrare che, in caso di condanna, esiste un rischio reale di esecuzione di una pena a vita irriducibile, nell’ambito della quale non vengano tenute in debita considerazione tutte le circostanze attenuanti o aggravanti rilevanti nel caso concreto (§35). La Corte europea evidenzia come il ricorrente non abbia dimostrato che la sua estradizione negli Stati Uniti lo avrebbe esposto al rischio reale di un trattamento in contrasto con l’art. 3 Cedu, non essendo conseguentemente necessario per la Corte procedere alla seconda fase dell'analisi di cui sopra (§§ 36 ss.). (Davide Colombo)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1741; S. Bernardi, La disciplina dell’ergastolo senza possibilità di liberazione alla luce delle più recenti sentenze di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2017, p. 1215.

 

C. eur. dir. uomo, Sez. I, 16 novembre 2023, A.E. e altri c. Italia

Trattamenti inumani e degradanti – trasferimento in bus di immigrati sudanesi per quindici ore in estate con carenza di cibo e acqua – violenza da parte degli operanti e costrizione immotivata a rimanere senza vestiti – violazione

I ricorrenti, cittadini sudanesi immigrati illegalmente in Italia, venivano arrestati ad agosto a Ventimiglia e portati in una caserma, dove venivano privati dei telefoni, fatti spogliare e lasciati nudi per almeno dieci minuti; alcuni migranti che non adempivano immediatamente agli ordini venivano percossi dagli agenti di polizia presenti. Senza ricevere alcun tipo di informazione in relazione alla loro situazione, i ricorrenti, scortati da numerosi agenti di polizia, venivano fatti salire su un bus e obbligati a rimanere sempre seduti ai posti a loro assegnati. Coloro che necessitavano di utilizzare i servizi igienici venivano accompagnati da due agenti e la porta del cubicolo era lasciata aperta. Durante il tragitto ai ricorrenti era offerto da mangiare solo un panino, mentre l’acqua era distribuita solo su richiesta e solo dopo una lunga attesa. Il bus raggiungeva Taranto dopo quindici ore di viaggio e i ricorrenti erano condotti in un hotspot, dove erano costretti ad alloggiare in tende esposte alla calura estiva e in cui cibo e acqua erano insufficienti. I ricorrenti venivano costretti a firmare alcuni documenti, senza l’assistenza di un avvocato e senza comprendere di cosa si trattasse, scoprendo solo successivamente di aver dichiarato di non avere intenzione di richiedere protezione internazionale. A distanza di qualche giorno i ricorrenti venivano fatti salire su un altro bus, di ritorno a Ventimiglia, versando in condizioni simili a quelle del viaggio di andata. Da Ventimiglia venivano portati a Torino per essere fatti imbarcare su un aereo per il Sudan. A Torino i ricorrenti riuscivano, grazie ai contatti con alcuni connazionali, a manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale. Venivano allora sentiti dalla commissione territoriale di Torino, che riconosceva ai ricorrenti il diritto di asilo in ragione della loro storia personale e del rischio per la loro vita in caso di rimpatrio in Sudan. Nell’adire la Corte EDU, i ricorrenti lamentano di essere stati sottoposti, successivamente al loro arresto a Ventimiglia, a trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’art. 3 CEDU, e di essere stati privati illegalmente della loro libertà, in violazione dell’art. 5 della Convenzione. Prima di entrare nel merito del ricorso, la Corte ribadisce il suo costante orientamento secondo cui, quando un individuo è privato della libertà personale, ogni ricorso alla forza fisica che non sia strettamente necessario lede la dignità umana ed è pertanto suscettibile di comportare una violazione dell’art. 3 CEDU (§ 81). La Corte europea ritiene poi che le condizioni a cui i ricorrenti sono stati sottoposti durante il loro arresto e durante il viaggio verso Taranto, in assenza di motivate ragioni, hanno causato, complessivamente considerate, un notevole stress ai ricorrenti medesimi e un sentimento di umiliazione di livello tale che le suddette condizioni hanno costituito un trattamento degradante, vietato ai sensi dell’art. 3 (§§ 82 ss.). Con riferimento poi alla privazione della libertà dei ricorrenti, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 5 nella circostanza che le autorità italiane non avessero fornito ai detenuti alcuna documentazione che li informasse delle ragioni del loro arresto e li avessero costretti a rimanere nei luoghi di detenzione in assenza di provvedimenti motivati, emanati solo a distanza di vari giorni a Taranto (§§ 100 ss.). (Davide Colombo)

Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Accompagnamento coattivo di polizia finalizzato all’identificazione e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2022, p. 1359; I. Giugni, Esercizio legittimo della forza e obbligo di formazione degli agenti statali, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2022, p. 1365; P. Bernardoni, La Corte EDU alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2021, p. 555.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 28 novembre 2023, Schmidt e Smigol c. Estonia

Trattamenti inumani e degradanti – sanzioni disciplinari consecutive di isolamento in carcere – violazione

I ricorrenti sono cittadini estoni, in tale Stato detenuti, i quali, a causa di comportamenti illeciti dagli stessi tenuti durante la propria detenzione carceraria, sono stati sottoposti a svariate sanzioni disciplinari consistenti nell’isolamento in cella, applicate spesso consecutivamente. I ricorrenti lamentano che tali sanzioni costituiscano un trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art. 3 CEDU. La Corte preliminarmente osserva che il divieto di contatto tra detenuti per ragioni di sicurezza, disciplinari o protettive non costituisce di per sé un trattamento o una punizione inumana (§ 123). Sebbene l'esclusione prolungata dall'associazione con altri non sia auspicabile, la ricaduta di una misura del genere nell'ambito dell'art. 3 della Convenzione dipende dalle condizioni particolari, dal rigore della misura, dalla sua durata, dall'obiettivo perseguito e dai suoi effetti sulla persona interessata. La Corte ricorda tuttavia che l’isolamento senza un’adeguata stimolazione mentale e fisica può, a lungo termine, avere effetti dannosi, con conseguente deterioramento delle facoltà mentali e delle abilità sociali. L’isolamento sensoriale completo, abbinato all’isolamento sociale totale, può distruggere la personalità e costituisce una forma di trattamento inumano che non può essere giustificato da esigenze di sicurezza o da qualsiasi altro motivo. Pertanto, l'isolamento non può essere imposto a un detenuto a tempo indeterminato e dovrebbe basarsi su motivi seri, disposto solo in via eccezionale e con le necessarie garanzie procedurali e dopo che sia stata presa ogni precauzione (§ 125). La Corte evidenzia che nel caso di specie l'isolamento a cui sono stati sottoposti i ricorrenti è stato imposto come misura disciplinare, comportando il loro isolamento per lunghi periodi cumulativi. A questo proposito, è significativo che il periodo massimo di quarantacinque giorni per il quale può essere imposto il c.d. “regime della cella di punizione” ai sensi del diritto interno non sembra aver avuto alcuna incidenza sulle modalità di applicazione consecutiva delle sanzioni, poiché i ricorrenti sono stati tenuti in isolamento per periodi ininterrotti molto più lunghi del limite fissato dalla legge. La Corte dubita che l'isolamento come forma di sanzione disciplinare sia stato effettivamente imposto come misura di ultima istanza, osservando in ogni caso che il Governo non ha presentato ragioni convincenti quanto all'esistenza di circostanze eccezionali atte a giustificare l’uso di periodi così lunghi di isolamento come misura puramente disciplinare (§ 162). La Corte conclude dunque che v’è stata una violazione dell’art. 3 in relazione ai periodi trascorsi dai ricorrenti in celle di isolamento chiuse a chiave. (Davide Colombo)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Dalla Corte di Strasburgo nuovi criteri in materia di condizioni detentive ed art. 3 CEDU?, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2017, p. 345.

 

ART. 4 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 28 novembre 2023, Krachunova c. Bulgaria

Divieto di schiavitù e di lavoro forzato – obblighi positivi – sfruttamento della prostituzione forzata – diritto della vittima al risarcimento del danno patrimoniale per i mancati guadagni – negazione – violazione

La ricorrente, costretta per un certo periodo di tempo a prostituirsi sotto la pressione di violenze e minacce, si costituiva parte civile nel giudizio penale a carico del soggetto accusato di averne sfruttato le prestazioni per chiedere il risarcimento del danno derivante dal reato. All’esito del giudizio interno, otteneva il riconoscimento del danno non patrimoniale per le sofferenze subite, mentre l’istanza di risarcimento del danno patrimoniale – consistente nei mancati guadagni, sistematicamente ceduti allo sfruttatore – veniva rigettata dalle corti nazionali. Queste ultime, infatti, sostenevano che i proventi di contratti illeciti o contrari al buon costume non avrebbero potuto costituire oggetto di risarcimento ma, semmai, di confisca (peraltro, mai disposta nel caso di specie). La vittima del reato, dunque, ricorre a Strasburgo, lamentando di non aver potuto usufruire di alcun rimedio legale per ottenere il ristoro degli introiti derivanti dalle prestazioni sessuali cui era stata costretta. La Corte europea verifica, in primo luogo, che tutti gli elementi della definizione internazionale della tratta degli esseri umani (condotta, mezzi, scopo) siano integrati e, di conseguenza, che la norma sancita dall’art. 4 Cedu sia applicabile nel caso di specie (§ 145 ss.). Oltrepassato questo scoglio preliminare, i giudici di Strasburgo si interrogano sull’esistenza di un obbligo positivo che, in virtù del medesimo art. 4 Cedu, imponga agli Stati contraenti di consentire alle vittime di tratta di chiedere ai trafficanti un ristoro per i mancati introiti derivanti dalle prestazioni imposte coercitivamente (§ 158 ss.). Sulla base di una meticolosa ricostruzione ermeneutica, corredata da ampi cenni di diritto comparato e internazionale, la Corte europea giunge alla conclusione che la possibilità di chiedere un risarcimento per i mancati guadagni – in particolare per quelli trattenuti dai trafficanti – costituisce una porzione essenziale della risposta integrata che lo Stato deve intraprendere nei confronti del fenomeno criminale della tratta di esseri umani (§ 171). Invero, secondo l’opinione espressa dalla Corte di Strasburgo, il risarcimento costituisce «un mezzo per garantire la restitutio in integrum» a questa particolare categoria di vittime; inoltre, «fornirebbe loro i mezzi finanziari per ricostruire la propria vita, contribuendo a salvaguardare la loro dignità, a favorire il loro recupero e a ridurre il rischio che cadano nuovamente vittime dei trafficanti» (ibidem). Infine, nell’ultima parte della pronuncia (179 ss.), la Corte europea verifica se le corti nazionali abbiano effettivamente contravvenuto agli obblighi positivi imposti dall’art. 4 Cedu. Nel giungere alla soluzione positiva, accertando la violazione del dettato pattizio, i giudici di Strasburgo precisano che la pronuncia in commento non riguarda, in termini generali, la legittimità della prostituzione o la validità dei relativi contratti nella prospettiva convenzionale (§ 192). La sentenza, invece, si “limita” ad affermare che l'obbligo positivo di consentire alle vittime della tratta di chiedere ai trafficanti il risarcimento per i mancati guadagni non può essere escluso sulla base del fatto che i relativi proventi costituirebbero il frutto di prestazioni contrarie alla morale corrente o al buon costume, come sostenuto dalle corti bulgare nel procedimento da cui trae origine la vicenda in oggetto (ibidem). (Luca Pressacco)

F. Vitarelli, La grande camera estende l’ambito di operatività dell’art. 4 Cedu: verso una sempre maggiore tutela delle vittime vulnerabili in contesti di sfruttamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 2116 ss.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, 19 novembre 2023, A.E. e altri c. Italia

Diritto alla libertà e alla sicurezza – privazione della libertà personale finalizzata all’espulsione dello straniero – detenzione priva di una base giuridica chiara e accessibile – mancata informazione sui motivi della privazione della libertà personale – impossibilità de facto di contestare la legalità della detenzione – violazione

Per la sintesi dei fatti di causa, v. supra, sub art. 3 Cedu. In aggiunta alle doglianze concernenti il divieto di trattamenti inumani e degradanti, i ricorrenti lamentano anche di aver subito una privazione illegittima della libertà personale. La detenzione si sarebbe protratta dal momento del loro “arresto”, avvenuto presso il campo di accoglienza della Croce Rossa di Ventimiglia, passando per il trasferimento verso l’hotspot di Taranto, cessando soltanto al momento della convalida del provvedimento di trattenimento funzionale all’espulsione. La Corte europea riconosce, in primo luogo, che i ricorrenti sono stati privati della libertà personale e trattenuti forzosamente, senza che fosse fornita loro alcuna indicazione circa i motivi della detenzione (§ 106). Pertanto, la limitazione della loro libertà personale deve essere considerata illegittima e arbitraria, ai sensi dell’art. 5 comma 1 lett. f Cedu, mancando sia una base giuridica chiara e accessibile, sia un provvedimento motivato che disponesse il trattenimento coercitivo dei ricorrenti. D’altra parte, i giudici di Strasburgo osservano (§ 107) che, all’epoca in cui si sono svolti i fatti (2016), si registrava una preoccupante lacuna normativa circa la regolazione degli hotposts, come emerge sia dai rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sia dai precedenti della Corte europea nella materia de qua (cfr., per esempio, C. eur. dir uomo, sez. I, 30 marzo 2023, J.A. e altri c. Italia, § 89 ss.). Considerate tali premesse, i giudici di Strasburgo non vedono come le autorità nazionali avrebbero potuto fornire indicazioni specifiche circa le ragioni poste a fondamento della detenzione, consentendo altresì ai ricorrenti di contestare i relativi provvedimenti di fronte a un’istanza di carattere giurisdizionale (§ 108). Di conseguenza, si considerano violate anche le garanzie sancite dall’art. 5 commi 2 e 4 Cedu. (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Accompagnamento coattivo di polizia finalizzato all’identificazione e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2022, p. 1359; P. Bernardoni, La Corte edu alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 555 ss.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, 28 novembre 2023, Tadić c. Croazia

Equità processuale – imparzialità e indipendenza del giudice d’appello – deposizione del Presidente della Corte suprema come testimone d’accusa nel giudizio di primo grado – la deposizione non costituisce elemento di prova determinante per la condanna – il Presidente non può decidere discrezionalmente l’assegnazione delle cause, né impartire istruzioni specifiche ai giudici della Corte suprema, i quali godono di sufficienti garanzie di indipendenza – non violazione

Il ricorrente è stato condannato in via definitiva per tentata corruzione in atti giudiziari poiché avrebbe cospirato, in concorso con altri soggetti, al fine di influenzare le decisioni della Corte suprema croata su un caso di alto profilo politico e mediatico. Egli si duole per la violazione del diritto a un processo equo, assicurato dall’art. 6 comma 1 Cedu. Sostiene, in particolare, che la Corte suprema croata – la quale ha confermato, in qualità di giudice d’appello, la condanna emessa nei confronti del ricorrente dal tribunale distrettuale – non avrebbe agito come un giudice indipendente e imparziale nel caso di specie. A sostegno di questa doglianza, osserva che il Presidente della Corte suprema risultava coinvolto nei fatti oggetto del procedimento penale, tanto che nel giudizio di primo grado era stato chiamato a deporre come testimone d’accusa. Di conseguenza, il collegio della Corte suprema chiamato a svolgere le funzioni d’appello nel caso de quo non avrebbe potuto determinarsi con la necessaria serenità (sebbene il Presidente, quale persona fisica, non ne facesse parte).  La Corte europea esamina le doglianze suddividendo il profilo dell’imparzialità (oggettiva) da quello dell’indipendenza dell’organo giurisdizionale. Per quanto riguarda il primo aspetto, si osserva che la testimonianza del Presidente della Corte suprema non costituisce una prova determinante per la condanna del ricorrente (§ 63). La difesa, peraltro, ha potuto esaminare il teste a carico nel corso del dibattimento per saggiarne la credibilità (§ 66).  Venendo, poi, alle modalità con cui si è svolto il giudizio di seconda istanza, i giudici di Strasburgo considerano che la Corte suprema abbia esaminato nel dettaglio le argomentazioni addotte dal ricorrente coi motivi d’appello, fornendo una congrua giustificazione per confermare la sentenza emessa dalla corte distrettuale (§ 67). Per quanto concerne l’indipendenza dell’organo giurisdizionale, la Corte europea rileva che nell’ordinamento croato il Presidente della Corte suprema non ha il potere di individuare discrezionalmente la sezione o i giudici cui affidare la trattazione di una determinata causa (§ 72), ovvero di impartire direttive specifiche in merito alle decisioni da assumere (§ 73). D’altra parte, secondo l’opinione espressa dalla Corte di Strasburgo, i giudici della Corte suprema godono di guarentigie sufficienti anche sotto i profili ordinamentali e disciplinari, visto che le prerogative presidenziali in tali settori non sembrano tali da porre a repentaglio l’indipendenza dei singoli magistrati (§ 74 ss.). In conclusione, i timori del ricorrente circa l’imparzialità della Corte suprema, seppur prima facie giustificati, non trovano un riscontro concreto nell’assetto normativo o nelle modalità con cui è stata condotto il procedimento nazionale. (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’imparzialità del giudice fra precedenti valutazioni e influenze mediatiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 747 ss.; F. Ertola, Esigenze di imparzialità e processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 2235 ss.; R. Casiraghi, Indipendenza e imparzialità del giudice nei procedimenti per reati ministeriali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 354 ss.

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, 14 novembre 2023, Canavci e altri c. Turchia

Diritto alla vita privata e familiare – riservatezza dei colloqui difensivi – controllo costante nel corso dei colloqui tra difensore e cliente (detenuto) – registrazione delle comunicazioni tramite dispositivi audio e video – assenza di vincoli e garanzie procedurali adeguate – misure arbitrarie – violazione

La vicenda riguarda il monitoraggio e la registrazione degli incontri dei ricorrenti (in stato di custodia cautelare) con i loro avvocati, sulla base di un decreto legislativo adottato in applicazione dello stato di emergenza conseguente al tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 in Turchia. I ricorrenti sostengono che tali interferenze nelle comunicazioni difensive rappresentano una lesione illegittima del loro diritto alla riservatezza, assicurato dall’art. 8 Cedu. I giudici di Strasburgo affermano, in primo luogo, che il controllo delle comunicazioni tra difensore e cliente costituisce un’interferenza significativa nella sfera della privacy, dato che le informazioni fornite all'avvocato riguardano questioni intime, delicate e personali. Di conseguenza, chi si rivolge a un professionista per chiedere assistenza legale deve poter contare sulla riservatezza e sulla confidenzialità delle comunicazioni in questione (§ 91). Per ammettendo che sia possibile infrangere la client-attorney confidentialiy per esigenze di contrasto ai fenomeni gravi di criminalità organizzata e di terrorismo, la Corte europea ricorda che tali interferenze sono ammissibili solo in casi eccezionali e, in ogni caso, soltanto a condizione che siano previste garanzie adeguate e sufficienti per scongiurare gli abusi dell’autorità (§ 96). Ciò, tuttavia, non si è verificato nel caso di specie, visto che le disposizioni normative approvate in attuazione dello stato di emergenza hanno conferito al pubblico ministero un potere sostanzialmente illimitato di comprimere la riservatezza delle comunicazioni tra difensore e cliente (detenuto) tramite misure di sorveglianza anche tecnologica. La normativa rilevante, difatti, non contempla limiti temporali o controlli giurisdizionali sulle misure in questione, né prevede disposizioni specifiche per determinare le modalità di utilizzo e si conservazione delle informazioni così raccolte. Considerate queste premesse, non desta particolare stupore che nel caso di specie si siano registrate applicazioni arbitrarie e indifferenziate delle misure di sorveglianza, così che la compressione dei diritti defensionali non può che essere considerata in violazione dell’art. 8 Cedu (§ 105). Infine, rispondendo alle argomentazioni sollevate dal governo convenuto con una significativa affermazione di principio, i giudici di Strasburgo hanno precisato che restrizioni arbitrarie del diritto di difesa non sono giustificabili nemmeno invocando l’art. 15 Cedu, che pure consente di derogare agli obblighi convenzionali nei casi di particolare urgenza e di minaccia all’integrità della nazione (§ 107). (Luca Pressacco)

S. Basilico, Lo smartphone sequestrato contiene corrispondenza con un difensore: che fare?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 757 ss.; S. Basilico, Il diritto alla privatezza non è recessivo rispetto alla sicurezza nazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1069 ss.

 

ART. 4 PROT. 7 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 14 novembre 2023, C.Y. c. Belgio

Diritto a non essere giudicato o punito due volte – doppio binario sanzionatorio penale e amministrativo – connessione sostanziale sufficientemente stretta tra i procedimenti – non violazione

La ricorrente è una cittadina belga, lavoratrice autonoma come infermiera, esercitante la propria attività professionale presso il domicilio dei pazienti. Nei suoi confronti venivano avviate indagini per le ipotesi di reato di frode in assicurazione e falso documentale. In sede penale la ricorrente veniva assolta il 27 gennaio 2015 per difetto di dolo, mentre in sede amministrativa veniva condannata il 26 febbraio 2015 al pagamento di svariate migliaia di euro, in parte a titolo di restituzione delle somme indebitamente incamerate, in parte a titolo di sanzione. La ricorrente lamenta una violazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Prot. n. 7 alla CEDU in relazione alla condanna in sede amministrativa, nonostante il procedimento penale si fosse concluso con una assoluzione. Nell’affrontare il ricorso, la Corte richiama in primo luogo la propria giurisprudenza in materia, alla luce della quale una violazione del divieto di essere giudicati o puniti più volte per lo stesso fatto può essere ravvisato anche laddove vengano in rilievo procedimenti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente penali (C. eur. dir. uomo, Grande Camera, A.B. c. Norvegia, 15 novembre 2016; C. eur. dir. uomo, Grande Camera, Zolotukhin c. Russia, 10 febbraio 2009). In particolare, il carattere penale è da valutare alla luce dei noti criteri Engel (C. eur. dir. uomo, Grande Camera, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976): qualificazione giuridica come reato nel diritto interno, natura dell’illecito e grado di severità della sanzione. Nel caso esaminato, il carattere penale può essere riconosciuto alle sanzioni amministrative, in ragione della loro gravità e delle finalità repressive perseguite, ma non anche alle somme da restituire in quanto indebitamente percepite: il recupero di tale denaro, infatti, non ha scopo dissuasivo o repressivo ed ha quindi natura civile (§ 40). La Corte quindi ricorda che non vi è una duplicazione dei procedimenti passibile di violazione del principio del ne bis in idem laddove tra gli stessi, pur di natura penale, sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta (C. eur. dir. uomo, Grande Camera, A.B. c. Norvegia, 15 novembre 2016). Pacifica la connessione temporale, dacché i procedimenti erano stati condotti contestualmente, la Corte ricorda che, per propria giurisprudenza, un vincolo materiale sufficientemente stretto sussiste laddove: le diverse procedure mirano a obiettivi complementari; la duplicazione dei procedimenti sia una conseguenza prevedibile del comportamento commesso; i procedimento vengano condotti in modo da evitare il più possibile ripetizioni nella raccolta e nella valutazione delle prove; la sanzione irrogata all’esito del secondo procedimento tenga conto di quella irrogata all’esito del primo, in modo che il trattamento sanzionatorio complessivo sia proporzionato alla gravità del fatto commesso (§ 57). Nel caso esaminato, secondo la Corte tali requisiti sussistono. In primo luogo, la normativa belga prevede una disciplina che, in caso di doppio binario sanzionatorio, evita la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove e consente di tenere conto della sanzione irrogata per prima, come avvenuto nel caso di specie, senza peraltro che la duplicazione dei procedimenti fosse circostanza imprevedibile per la ricorrente. In secondo luogo, la Corte osserva che l'obiettivo perseguito dal procedimento amministrativo non è quello di tutelare gli interessi generali della società (per cui già provvede la legge penale mediante l’incriminazione dei reati di falso), bensì quello di tutelare gli interessi della pubblica amministrazione, di assicurarne il buon andamento e, più in generale, di garantire il finanziamento generale della previdenza sociale (§ 62). Per tali motivi, poiché tra i procedimenti esperiti, pur entrambi di natura sostanzialmente penale, sussiste una connessione temporale e sostanziale sufficientemente stretta, la Corte esclude violazioni del principio del ne bis in idem(Davide Colombo)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, Ne bis in idem: una garanzia ancora in cerca d’identità, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2020, p. 2107.