Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Mario Nicolini (artt. 3, 7, 8 e 11 Cedu) e Michele Pisati (artt. 6 e 8 Cedu).
In ottobre abbiamo selezionato pronunce relative a: maltrattamento di migrante in zona di confine (art. 3 Cedu); revisione della sentenza di condanna fondata su confessioni estorte ai ricorrenti (art. 6 Cedu); prevedibilità e accessibilità della sanzione penale (art. 7 Cedu); smaltimento di rifiuti e pericolo per la salute collettiva (art. 8 Cedu); intercettazioni di comunicazioni di soggetto non indagato (art. 8 Cedu); libertà di associazione e misure di contrasto a Hamas (art. 11 Cedu).
ART. 3 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. I, 5 ottobre 2023, Shahzad c. Ungheria
Trattamento inumano o degradante – Maltrattamento di un migrante da parte delle autorità di confine – Mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dello Stato sulla plausibile spiegazione delle lesioni subite – Uso della forza non necessario – Ineffettività delle indagini
Il caso concerne il ricorso di un richiedente asilo pakistano che accusa gli agenti di frontiera dell’Ungheria di trattamenti inumani o degradanti per il trattamento lui riservato all’atto di riportarlo verso il confine serbo a seguito del suo accesso illegale nel territorio magiaro (§ 1): per la stessa vicenda, la Corte si era già espressa (§ 5) riconoscendo l’illegittimità del respingimento preventivo realizzato dalle autorità ungheresi. Nella ricostruzione del ricorrente, dopo analitiche procedure di presa in carico ed identificazione (§§ 7-9), egli ed altri richiedenti asilo sarebbero stati oggetto di pestaggi da parte degli agenti di polizia: per quanto concerne la sua posizione specifica, l’accusa è quella di essere stato percosso sulla testa con una fibbia metallica fino al punto di perdere conoscenza, e successivamente preso a calci e cinghiate da altri due agenti. Mentre, insanguinati e feriti, correvano verso il confine serbo su ordine degli agenti, questi ultimi avrebbero bruciato tutti i loro beni prima abbandonati su luogo del pestaggio: solo grazie alla scelta di fotografare le ferite ed inviarle a propri conoscenti attraverso sistemi di messaggistica istantanea è stato possibile documentare i fatti (§ 10).A seguito di ricovero ospedaliero presso un ospedale serbo di confine, sono state certificate lesioni occipitali tali da richiedere l’applicazione di punti di sutura: il racconto è stato poi versato su un processo verbale reso dinnanzi alla polizia serba di frontiera (§ 12).A seguito di denuncia presentata dal ricorrente, è stata aperto un procedimento penale (§§ 13-30) nell’ambito del quale nessuno tra gli agenti di frontiera, sentiti come testimoni, ha riferito di violenze fisiche commesse sui migranti: l’infruttuosità delle investigazioni ha comportato che lo stesso Pubblico ministero ungherese chiedesse l’archiviazione del procedimento, considerando inattendibili le dichiarazioni rilasciate dai migranti alla polizia serba. Dopo un supplemento di indagini sollecitato dalla parte, di nuovo la Procura si determinava nel senso dell’archiviazione, respingendo le ulteriori richieste di riapertura dell’istruzione giunte dalla difesa delle parti offese (§ 38). Decidendo il merito, la Corte richiama sull’obbligo di indagini effettive (§ 52) ogni volta che vi siano elementi credibili per ritenere che taluno abbia sofferto trattamenti inumani o degradanti a causa dell’azione di pubbliche autorità. Nel caso di specie, in cui si è già formato un giudicato sull’illegittimità del respingimento del migrante (§ 55), sussistono elementi sufficienti a ritenere sussistente l’obbligo investigativo da parte delle autorità ungheresi, in quanto appaiono quantomeno verosimili le accuse mosse dal migrante. Rispetto alla conduzione delle indagini, molte riserve vengono mosse dalla Corte (§§ 58-60) sia sulle tecniche di assicurazione delle prove, che, soprattutto, rispetto alla scelta di assumere il contributo dichiarativo degli agenti di frontiera in veste di persone informate dei fatti e non di indagati (§ 61): le sommarie informazioni, infatti, sono state raccolte in modalità sincrona, senza neanche procedere alla compiuta identificazione dei soggetti coinvolti. Nell’ambito del procedimento, inoltre, nessuna dichiarazione è stata raccolta dalla persona offesa, rispetto alla quale l’Inquirente ha ritenuto sufficiente il contributo scritto rappresentato dalla denuncia presentata. Anche sull’attendibilità intrinseca delle testimonianze, la Corte rileva aporie e vizi nella scelta della magistratura ungherese di non considerare adeguatamente le varie divergenze emerse tra le testimonianze raccolte in ordine a plurimi profili concernenti le vicende in esame (§ 63). Sul piano dell’obbligo di indagini effettive, dunque, si ritiene violato l’art. 3 (§ 65). Dal punto di vista sostanziale (§ 69), la Corte richiama la propria giurisprudenza consolidata secondo cui, in caso di privazione della libertà personale da parte di autorità pubbliche, ogni uso della forza fisica al di fuori dei casi di stretta necessità costituisce un’ipotesi di trattamento inumano in quanto diminuisce la dignità umana dell’arrestato. In tali ipotesi, l’onere della prova, che deve essere raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio, grava sul Governo in base ad un principio di vicinanza: sono le pubbliche autorità, infatti, che devono assumersi la responsabilità per il trattamento di soggetti posti sotto la loro custodia che siano in grado di mostrare persistenti tracce di ferite inferte nel corso del periodo in cui erano sotto la sorveglianza delle pubbliche autorità (§§ 70-71).Nel caso di specie, la Corte rileva che il ricorrente ha soddisfatto il proprio onere di allegazione e che risultano plurimi elementi da cui evincere il sistematico ricorso a pratiche violente da parte delle autorità ungheresi di frontiera, anche in considerazione dell’incapacità del Governo di fornire adeguate spiegazioni rispetto all’interruzione delle videoriprese proprio in corrispondenza con le lesioni riportate dal ricorrente (§§ 72-74). (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Accompagnamento coattivo di polizia finalizzato all’identificazione e ricorso effettivo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1359ss.; I. Giugni, Esercizio legittimo della forza e obbligo di formazione degli agenti statali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1365ss.; M. Nicolini, Adempimento degli obblighi di protezione della vita di un militare suicidatosi a seguito di vessazioni subite dai coscritti: una pronuncia (tra le ultime) della Corte EDU contro la Federazione russa, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1372ss.; P. Bernardoni, La Corte EDU alle prese con la “difesa” dei confini di terra dell’Unione europea nei confronti dei migranti, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 1, pp. 555ss.; B. Fragasso, Operazioni militari e tutela dei diritti umani, tra giurisdizione extraterritoriale e obblighi di indagine ex art. 2 CEDU, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 2, pp. 738ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 4, pp. 2112 ss.; D. Sibilio, L’esame coatto delle urine tramite catetere, finalizzato all’ottenimento di prove, costituisce trattamento inumano e degradante, secondo la Corte di Strasburgo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 4, pp. 2250ss.; R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 3, pp. 1192 ss.
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 3 ottobre 2023, Repeşco e Repeşcu c. Repubblica di Moldavia
Equità processuale – revisione della sentenza di condanna fondata su confessioni estorte ai ricorrenti – violazione
I ricorrenti, cittadini moldavi condannati con sentenza definitiva, presentano un primo ricorso nel 2014 dinanzi alla Corte europea, sostenendo che la condanna è basata su confessioni estorte dalla polizia giudiziaria mediante tortura nella fase delle indagini preliminari (§§ 5-7). A fronte del riconoscimento unilaterale da parte del Governo moldavo della violazione dell’art. 3 Cedu nel procedimento a quo, la Corte di Strasburgo cancella dal ruolo tale primo ricorso ai sensi dell’art. 39 Cedu (§§ 8-9). Ed è sulla base di tale decisione che i ricorrenti propongono istanza di revisione della sentenza al giudice interno, poiché la dichiarazione unilaterale del Governo avrebbe confermato l’ingiustizia della condanna (§ 10). L’istanza è, tuttavia, rigettata dal giudice nazionale, in particolare perché la decisione della Corte edu di radiazione dal ruolo non menziona la locuzione “tortura” (§ 11). I ricorrenti si rivolgono di nuovo alla Corte edu, lamentando la contrarietà del rigetto dell’istanza di revisione all’art. 6 § 1 Cedu (§ 14). Nell’accogliere il ricorso, la Corte, in primo luogo, richiama il proprio indirizzo consolidato secondo cui le garanzie di equità processuale rilevano anche nelle cause di richiesta di riapertura di un procedimento penale derivante da una constatazione di violazione da parte della Corte medesima (§ 17). In secondo luogo, si ribadisce che l’utilizzo nell’ambito di un procedimento penale di dichiarazioni acquisite in violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti pregiudica di per sé l’equità del procedimento, con la conseguenza che, ogniqualvolta emerga un principio di prova sull’acquisizione di dichiarazioni autoaccusatorie mediante la violenza, spetta al giudice interno approfondirlo (§ 25). Muovendo da queste premesse, la Corte conclude per la sussistenza di una violazione dell’art. 6 § 1 Cedu: da un lato, nel rigettare l’istanza di revisione, il giudice moldavo ha utilizzato argomenti eccessivamente formalistici, senza un’analisi rigorosa delle allegazioni dei ricorrenti sull’uso della tortura nei loro confronti; dall’altro lato, in stretta correlazione, non ha tratto le conclusioni adeguate dalla dichiarazione unilaterale con cui il Governo ha ammesso la violazione dell’art. 3 Cedu (§ 30). (Michele Pisati)
Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, Prova ottenuta attraverso trattamenti inumani e degradanti ed equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 731.
ART. 7 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. V, 12 ottobre 2023, Affaire Total S.A. e Vitol S.A. c. Francia
Condanna di rappresentanti di una società per corruzione attiva di pubblici ufficiali stranieri sulla base di una legge prevedibile ed accessibile – Reato – Pagamento di commissioni occulte nell’ambito di operazioni occulte per l’acquisto di petrolio
La vicenda riguarda un’accusa di corruzione mossa a carico di Total S.A. e Vitol S.A. per aver pagato un sovrapprezzo occulto nell’ambito della trattativa per l’acquisto di petrolio iracheno, in violazione della Risoluzione ONU 14 aprile 1995, n. 986 che ha rigidamente disciplinato l’acquisto di petrolio dall’Iraq dopo la Prima guerra del Golfo. Gli episodi di corruzione sono emersi a seguito dell’intervento militare realizzato da una coalizione di Stati contro il regime di Saddam Hussein e hanno comportato, dopo un lunghissimo processo dagli esiti alterni, la condanna delle due società per corruzione. I ricorrenti si dolgono dell’imprevedibilità di tale esito giudiziario, in quanto l’interpretazione della legge data dagli organi giudicanti non sarebbe stata prevedibile all’epoca in cui i fatti contestati sono stati commessi. Per quanto concerne l’irretroattività, la Corte rileva che l’incriminazione prevista dall’art. 435 co. 3 del Codice penale francese è entrata in vigore il 29 settembre 2000, ossia prima della commissione dei fatti contestati, ed essa non ha fatto altro che trasporre nell’ordinamento interno un obbligo di incriminazione risultante da una Convenzione internazionale per la lotta alla corruzione siglata il 17 settembre 1997, in un contesto nel quale, peraltro, già da tempo le negoziazioni per l’acquisto di petrolio iracheno erano sottoposte a rigorosa regolamentazione. Quanto alla prevedibilità della condanna, la Corte, pur riconoscendo che si sia trattato del primo caso di incriminazione per corruzione internazionale trattato dalla giurisdizione francese, non ritiene che ciò costituisca un elemento sufficiente per considerare imprevedibile l’esito del giudizio, in considerazione del fatto che tutti i gradi di giurisdizione nazionali hanno ritenuto le fattispecie incriminatrici chiare ed evidentemente applicabili ai fatti contestati, fornendo ampia ed argomentata motivazione sul punto. A corollario dell’argomentazione, come ulteriore prova della prevedibilità dell’esito, si evidenzia la grande esperienza degli imputati nell’ambito del commercio internazionale di materie prime energetiche, che contribuisce a rendere chiaramente prevedibile e non arbitrario l’esito giudiziario di condanna.
Riferimenti bibliografici: A. Perin, Il diritto eurounitario a non incorrere in sanzioni sproporzionate e la discrezionalità correttiva del giudice nazionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1382ss.; M. Crippa, “Considerata la evidente illegittimità dei crimini di guerra”: la Corte EDU conferma la prevedibilità della responsabilità da comando ai sensi del diritto internazionale consuetudinario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 2, pp. 901ss; G. Mentasti, Il decreto Severino (finalmente) al vaglio della Corte EDU: nulla poena anche per i giudici europei, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 4, pp. 1607ss.; M. Mossa Verre, Materia penale e contempt of court. L’oltraggio alla corte islandese alla prova dei criteri Engel, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 2, pp. 752ss.
ART. 8 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. I, 19 ottobre 2023, Locascia e altri c. Italia
Obblighi positivi di azione – Protratta incapacità delle autorità statali di assicurare l’appropriato funzionamento del sistema di smaltimento dei rifiuti – Aggravamento dei rischi per la salute dei ricorrenti in ragione della protratta esposizione ad aree in prossimità di discariche– Lesione della vita privata e familiare – Messa in pericolo della salute dei ricorrenti in ragione della protratta esposizione ad inquinamento ambientale – Ineffettività dei rimedi giurisdizionali disponibili
Oggetto del giudizio è la questione se l’inefficiente gestione del sistema di smaltimento rifiuti in Campania da parte delle autorità a ciò preposte e l’incapacità di assumere adeguata misure preventive contro i rischi per la salute causati dalla prolungata esposizione all’inquinamento proveniente da una discarica situata tra i territori di Caserta e San Nicola La Strada costituisca una violazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione (§ 1). Le complesse vicende in punto di fatto sono ben riassunte dalla sentenza (§§7-77): in questa sede, è sufficiente evidenziare che, sul versante amministrativo, a vari livelli le autorità pubbliche sono intervenute con provvedimenti che hanno assunto come presupposto la pericolosità dei siti di smaltimento collocati nella c.d. Terra dei fuochi e, su quello giudiziario, tanto i procedimenti civili quanto quelli penali instaurati nell’ambito delle vicende qui esaminate hanno, a vari livelli, accertato la pericolosità degli impianti e l’insalubrità della situazione in cui la popolazione si trovava a vivere. I ricorrenti si dolgono (§ 84) dell’inadeguatezza delle misure assunte sia in relazione all’efficiente funzionamento del servizio di smaltimento dei rifiuti sia rispetto alla minimizzazione o eliminazione degli effetti delle emissioni inquinanti provenienti dalla discarica “Lo Uttaro”, lamentando che ciò abbia offeso tanto il loro diritto alla vita (art. 2) quanto quello del rispetto alla vita privata e familiare (art. 8). In relazione a quest’ultimo profilo, che, sulla base dei propri precedenti (§ 86), la Corte decide di esaminare in via esclusiva, la lesione sarebbe stata causata dalla grande quantità di rifiuti accumulati lungo le strade, che avrebbe comportato la necessità di un radicale mutamento delle abitudini socio-esistenziali. Quanto alla legittimazione attiva (§ 91), rilevata l’inammissibilità di un’azione popolare, essa viene sulla base della vicinitas, criterio peraltro ampiamente noto nella giurisprudenza amministrativa: possono ritenersi lesi nel loro diritto all’integrità della vita privata e familiare coloro ai quali sia risultato un effetto dannoso come conseguenza di un episodio di inquinamento ambientale. Quanto al merito, la Corte ribadisce il proprio orientamento (§ 120) secondo cui un grave inquinamento ambientale può danneggiare il benessere degli individui ed impedire loro di fruire dei loro spazi domestici al punto da comprometterne la vita privata e familiare: per assurgere al grado di lesività è richiesto che il livello di inquinamento ambientale raggiunga un certo livello, la cui soglia minima può individuarsi solo su base individuale, in ragione delle circostanze del caso concreto (intensità e durata dell’emissione, effetti fisici e psichici…). (§ 121). Soprattutto se è coinvolto l’esercizio di attività pericolose, gli Stati sono chiamati ad assumere anche azioni positive finalizzate alla maggior garanzia della vita privata e familiare dei loro cittadini, tra esse: la previsione di un sistema di licenze, la regolamentazione dettagliata delle operazioni di predisposizione, funzionamento e supervisione dell’attività e l’attribuzione di obblighi di attivazione e correlati poteri di intervento alle istituite autorità di controllo (§§ 122-124). Tra tali azioni positive, particolare rilievo è riservato al dovere di dettagliata informazione, che incombe sulle autorità in caso di imminenti minacce per la salute pubblica o l’ambiente, causate o da attività umane o da fattori naturali: in tali ipotesi, le autorità sono chiamate a fornire tutte le tempestive indicazioni affinché la cittadinanza possa far fronte agli incombenti pericoli, minimizzando quanto più possibile i rischi per l’incolumità (§ 125). Sulla componente materiale della lesione (§ 130), la Corte adotta un approccio fondato sul rilievo in base al quale, pur in assenza di documentata evidenza medica, è possibile ritenere che l’aver vissuto in un’area caratterizzata da significativa esposizione a rifiuti in violazione delle norme di sicurezza previste ha reso i ricorrenti più vulnerabili. Peraltro, anche in assenza di processi patologici accertati in senso medico-legale, l’esposizione ad un grave inquinamento ambientale può comunque mettere seriamente a repentaglio la salute dei cittadini, pregiudicandone la serena conduzione della vita privata, come è avvenuto nel caso di specie in cui i ricorrenti hanno, per molti mesi, vissuto in un ambiente contaminato dalla presenza di rifiuti sparsi per la strada o approssimativamente stoccati in centri di raccolta non regolamentari. A conferma di ciò, si richiama l’intervenuta sospensione di molte attività sociali quotidiane, da cui è derivato un significativo mutamento, in senso deteriore, delle abitudini di vita (§ 131). Viene, perciò, ritenuta provata la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, quantomeno nel periodo compreso fra l’11 febbraio 1994 ed il 31 dicembre 2009, termini rispettivamente iniziale e finale di efficacia della dichiarazione di stato di emergenza (§ 134): la motivazione si fonda sulla rilevata e protratta incapacità delle competenti autorità italiane di garantire un appropriato funzionamento del sistema di smaltimento dei rifiuti, rendendosi così inadempienti al loro obbligo positivo di fare quanto necessario per garantire il rispetto della vita privata dei cittadini. A conclusioni diverse si giunge rispetto al periodo successivo alla cessazione dello stato di emergenza, rispetto al quale la Corte ritiene non soddisfatto l’onere probatorio a carico dei ricorrenti di dimostrare il nesso eziologico fra la persistenza di inadeguate condizioni di trattamento dei rifiuti ed il peggioramento del loro stato di salute (§§ 135-136). Altro motivo di ricorso ai sensi dell’art. 8 concerne la discarica di Lo Uttaro, rispetto alla quale i ricorrenti denunciavano gravi inadempienze da parte del Governo, sia con riguardo all’informazione diffusa presso la cittadinanza, sia in rapporto alla più complessiva gestione del sito di smaltimento, che avrebbe messo a serio pericolo la salute della cittadinanza (§§ 140-141). Su questo punto, la Corte ritiene di poter affermare che l’esposizione ad agenti inquinanti a danno della cittadinanza possa ritenersi provata e che ciò abbia indubitabilmente messo in pericolo la salute dei cittadini stessi, per avere le autorità nazionali omesso di assumere adeguate misure che bilanciassero l’interesse collettivo al regolare andamento della raccolta dei rifiuti e quello individuale a non vedere compromessa la propria vita privata e familiare a causa dell’esposizione ad agenti inquinanti (§ 148-150). Viceversa, nessuna violazione dello stesso art. 8 è rilevata rispetto all’asserita carenza di informazioni (§ 152) che i ricorrenti lamentavano in ordine ai danni che avrebbero sofferto decidendo di continuare a vivere in prossimità della discarica: su questo aspetto, la Corte non ravvisa omissioni sanzionabili da parte delle istituzioni italiane, dando conto del fatto che, invece, ampia e diffusa informazione fosse fruibile rispetto all’insalubrità del sito. (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: M. Nicolini, Adempimento degli obblighi di protezione della vita di un militare suicidatosi a seguito di vessazioni subite dai coscritti: una pronuncia (tra le ultime) della Corte EDU contro la Federazione russa, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 3, pp. 1372ss.; R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 3, pp. 1192 ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 4, pp. 2112 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 26 ottobre 2023, Plechlo c. Slovacchia
Rispetto della vita privata – intercettazioni di comunicazioni di soggetto non indagato – violazione
Le conversazioni telefoniche del ricorrente sono intercettate nell’ambito di indagini preliminari riguardanti altri individui, concluse con provvedimento di archiviazione nel 2007 (§ 6). Ciò nonostante, il materiale risultante dalle operazioni, cioè le audio-registrazioni e le correlative trascrizioni, è conservato dalle forze di polizia anche dopo la chiusura del procedimento penale (§ 9). È solo nel 2016 che, anche sulla base delle risultanze emergenti da tale materiale, è avviato un nuovo procedimento penale direttamente nei confronti del ricorrente (§ 10). Quest’ultimo lamenta la violazione del proprio diritto al rispetto della vita privata (§ 32). La Corte, nell’esaminare il ricorso alla luce dell’art. 8 Cedu, richiama in via preliminare la propria giurisprudenza consolidata in materia: si è, infatti, ripetutamente affermato che qualsiasi ingerenza da parte di un’autorità pubblica nel diritto alla riservatezza deve essere “prevista dalla legge”. Il che esige non solo l’osservanza del diritto interno ma, specialmente nell’ambito delle operazioni di sorveglianza segreta, standard qualitativi elevati della legge, che deve essere chiara, prevedibile e adeguatamente accessibile, tale da tutelare gli individui da ingerenze arbitrarie e garantire il controllo della discrezionalità statale in materia (§ 43). Ciò premesso, i giudici di Strasburgo rilevano che il diritto slovacco non consente a coloro che sono coinvolti “casualmente” nelle intercettazioni svolte in un procedimento penale riguardante terzi di sottoporre a controllo il provvedimento autorizzativo delle operazioni, le modalità esecutive, la conservazione dei risultati e, in ultimo, l’utilizzo degli stessi (§ 44). Di qui, la Corte accoglie il ricorso (§ 51). (Michele Pisati)
Riferimenti bibliografici: M. Pisati, Sorveglianza segreta e diritto alla privacy, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 1757.
ART. 11 CEDU
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. I, 19 ottobre 2023, Internationale Humanitäre Hilfsorganisation c. Germania
Libertà di associazione – Divieto di associazione con conseguente dissoluzione e confisca dei beni per considerevoli donazioni in favore di organizzazioni caritative collegate con Hamas – Legittimità di azioni di contrasto al terrorismo internazionale – Largo margine di apprezzamento degli Stati sulla scelta dei mezzi per impedire finanziamenti anche indiretti al terrorismo – Associazioni con scopi contrari ai valori fondamentali protetti dalla Convenzione
Il caso è di particolare attualità in quanto concerne un provvedimento di scioglimento disposto dalle autorità tedesche nei confronti di un’associazione umanitaria, facente parte della più grande organizzazione islamica tedesca (§ 5), cui si addebita il coinvolgimento in attività di finanziamento indiretto al gruppo terroristico Hamas (§ 1).L’ente ha raccolto, fino al 2010, finanziamenti convogliati verso l’organizzazione Al-Yamiya al-Islamiya, fondata nel 1979 nella striscia di Gaza con l’obiettivo di dare sovvenzioni ai figli di cosiddetti “martiri”, cioè di persone morte o ferite combattendo contro Israele (§ 9) per poi passare al finanziamento di un’altra organizzazione, la Salam Society for Relief and Development, sempre con sede a Gaza (§ 10). Il 23 giugno 2010, il Ministro dell’Interno della Germania ha disposto lo scioglimento dell’organizzazione con conseguente confisca di tutti i beni (§ 13), addebitando all’organizzazione di fungere da strumento per il finanziamento indiretto dell’organizzazione terroristica Hamas: a questa decisone seguiva un contenzioso nell’ambito del quale sia la giurisdizione amministrativa che quella costituzionale (§§ 27-29) riconoscevano la legittimità dell’operato del Governo tedesco. Decidendo sul merito, la Corte richiama anzitutto il principio di legalità (§ 66) come presupposto indefettibile di qualsiasi provvedimento limitativo del diritto fondamentale alla libertà di associazione: sul punto, si afferma che nessuna violazione può essere addebitata alla Germania (§§ 67-71), il cui ordinamento offre basi legali sufficientemente chiare e precise per rendere prevedibili conseguenze del tipo di quella verificatasi nella vicenda in esame. Con riguardo alla legittimità dell’interferenza nel diritto di libertà, la Corte considera legittima la motivazione addotta dal Governo tedesco di proteggere la cooperazione internazionale vietando un’associazione utilizzata per veicolare strumenti di finanziamento indiretto ad un’organizzazione internazionalmente riconosciuta come terroristica (§ 76). Quanto alla proporzionalità della misura al raggiungimento dello scopo, la Corte (§ 81) sottolinea l’impossibilità per essa di sostituire il proprio apprezzamento a quello dello Stato parte e che nessuna violazione può ravvisarsi (§ 104) in quanto il provvedimento ha impattato su un’associazione rispetto alla quale plurimi elementi istruttori conducono a ritenere fosse implicata nel finanziamento indiretto di un gruppo, come Hamas, internazionalmente riconosciuto come terrorista. (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: C. Cataneo, L’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza al fine di disperdere una riunione pacifica non autorizzata integra una violazione dell’art. 11 CEDU, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 1, pp. 311ss.; G. Spinelli, La tutela della pace religiosa interna può giustificare limitazioni alla libertà di espressione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 1, pp. 666 ss.; T. Trinchera, La Corte europea di fronte alla minaccia di attentati terroristici: tra obblighi di prevenzione e limiti imposti all’uso della “forza letale”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 4, pp. 1200ss.