Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Benedetta Ceresoli (artt. 2, 3 e 13 Cedu) e Michele Pisati (art. 6 Cedu).
In ottobre abbiamo selezionato pronunce relative a: suicidi in carcere e protezione del diritto alla vita (artt. 2 e 13 Cedu); detenzione domiciliare umanitaria nel contesto della pandemia da Covid-19 (art. 3 Cedu); utilizzabilità nel processo di registrazioni effettuate da giornalisti (art. 6 Cedu); presunzione di innocenza e proscioglimento per prescrizione (art. 6 Cedu); motivazione della sentenza di condanna (art. 6 Cedu); principio della lex mitior in caso di successione di norme modificative del trattamento sanzionatorio (artt. 6 e 7 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, II° sezione, 15 ottobre 2024, Haugen c. Norvegia
Obblighi positivi – tutela della vita – custodia cautelare – suicidio – garanzia di cure adeguate intra moenia – carenze nell’assistenza medica – violazione
Il ricorrente, padre di un soggetto che soffriva di gravi patologie mentali suicidatosi in carcere, ricorreva alla Corte EDU denunciando la violazione dell’art. 2 CEDU, per non avere le Autorità norvegesi garantito un sistema di cura e sorveglianza medica adeguato e idoneo a impedire il suicidio del figlio nelle more della custodia cautelare in carcere. Il ricorso traeva origine dai seguenti fatti. Nel 2019, il figlio del ricorrente veniva condannato a un trattamento obbligatorio di salute mentale dopo il tentato omicidio di un conoscente (2018) e altri reati commessi in stato mentale psicotico, a causa del quale veniva esclusa in sede penale la sua responsabilità per incapacità di intendere e di volere. Tra il 2018 e il 2019, la sua salute mentale migliorava a tal punto da consentire il suo trasferimento in una struttura sanitaria con meno restrizioni di sicurezza, ove costui prendeva a vivere in alloggi condivisi con altri pazienti. Il 17 gennaio 2020, sotto l’effetto dell’alcol, il figlio del ricorrente uccideva un paziente della struttura in cui risiedeva; veniva quindi arrestato e accusato di omicidio. Il 18 gennaio 2020, ancora sotto custodia della polizia, veniva sommariamente esaminato da uno psichiatra, il quale suggeriva, visto lo stato del paziente, un esame psichiatrico forense completo, in fatto mai avvenuto. Il 20 gennaio 2020 l’Autorità giudiziaria norvegese disponeva la custodia cautelare dell’imputato nel carcere di Oslo, ove lo stesso veniva collocato nella “Unita 1”, adibita ai detenuti necessitanti di cure sanitarie speciali; ivi veniva quindi posto sotto sorveglianza periodica (ogni 30 min.) e veniva redatto un piano d’azione sanitario per gestire il suo rischio di suicidio, che comprendeva il suo coinvolgimento in attività di gruppo (§ 13). Nel follow-up successivo, il detenuto dimostrava sentimenti di colpa, di vuoto e generici intenti suicidi; il 30 gennaio 2020, a seguito di valutazione medica, il soggetto veniva trasferito in un ospedale psichiatrico a causa del rischio complessivo di suicidio; in ospedale, il 31 gennaio 2020, il rischio di suicidio veniva valutato elevato (§ 24). Il 4 febbraio 2020 il figlio del ricorrente veniva nuovamente tradotto in carcere, stante il rilevato miglioramento delle sue condizioni; tornato in carcere, veniva ricollocato nella “Unita 1”, sotto sorveglianza. In seguito, dimostrava scarso interesse nelle attività propostegli e gli unici contatti con personale medico risultavano essere quelli fornitigli per sottoporsi a iniezione antipsicotica; si registrava quindi una sostanziale carenza di follow-up. Il 25 febbraio 2020, sulla base del presunto miglioramento dello stato mentale del soggetto, la Direzione carceraria disponeva che, in caso di necessità di celle carcerarie nell’Unità 1, egli avrebbe potuto essere collocato in unità carcerarie ordinarie; non vi sono prove del coinvolgimento del personale medico nell’assunzione di tale decisione (§ 35-43). Il 28 febbraio 2020 il figlio del ricorrente veniva effettivamente trasferito in un’unità carceraria ordinaria, in assenza di qualsivoglia forma di sorveglianza o misure volte a proteggere l’ambiente fisico del paziente per evitare eventuali suicidi. Due giorni dopo, il 1° marzo 2020, il detenuto si suicidava impiccandosi con un cordoncino del suo maglione con cappuccio e l’asta per i vestiti nella sua stanza. Il ricorrente, dopo aver infruttuosamente denunciato le Autorità nazionali, penitenziarie e sanitarie, in sede penale, ricorreva da ultimo alla Corte EDU sostenendo che al momento dei fatti lo stato mentale del figlio era tale da non consentire la custodia cautelare o, in ogni caso, da imporre alle Autorità carcerarie e sanitarie interventi medici e di follow-up adeguati e specifici; le Autorità, infatti, avrebbero dovuto riconoscere l’esistenza di un rischio reale, immediato ed elevato di suicidio da parte del detenuto (§ 120). Il Governo sosteneva la preliminare violazione dell’art. 35 CEDU per mancato esaurimento dei rimedi nazionali esperibili, stante la paventata possibilità di ottenere il risarcimento del danno in sede civile; nel merito, sosteneva poi l’assenza di indici che, a fronte del miglioramento del paziente, avrebbero potuto rendere prevedibile il suicidio. La Corte EDU, superato positivamente e preliminarmente il vaglio di ammissibilità del ricorso stante l’assenza di rimedi consolidati esperibili dal ricorrente nel sistema norvegese, accoglie il ricorso e rileva la violazione dell’art. 2 CEDU. La Corte ribadisce che tale disposizione impone, tra l’altro, l’obbligo positivo di adottare misure preventive appropriate per salvaguardare, non solo da aggressioni altrui, ma anche da atti autolesivi, la vita delle persone sottoposte alla giurisdizione degli Stati firmatari. Per quanto sopra, la Corte rileva che, in assenza di un adeguato follow-up del paziente detenuto, in specie a far data dal 4 febbraio 2020, le Autorità non avrebbero razionalmente potuto né dovuto concludere per la sua idoneità al trasferimento in unità carcerarie ordinarie (§ 141). Sussiste quindi la violazione dell’art. 2 CEDU, stanti le rilevate gravi carenze nel coordinamento e nella somministrazione delle cure mediche al figlio del ricorrente, deceduto a seguito di suicidio in carcere. Per i profili relativi all’effettività dei rimedi interni v. infra sub art. 13 CEDU. (Benedetta Ceresoli)
Riferimenti bibliografici:
C. Mostardini, Responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico, in Riv. it. dir. pen. proc., 2017, pp. 354 e ss.
F.E. Manfrin, Violazione degli obblighi di protezione della vita e d’indagine: un recente caso di “frontiera” in materia di art. 2 CEDU, in Riv. it. dir. pen. proc., 2023, pp. 804 e ss.
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, I° sezione, 17 ottobre 2024, SM c. Italia
Detenzione in carcere – soggetto vulnerabile – HIV – rifiuto della detenzione domiciliare umanitaria – misure per la prevenzione del COVID-19 – trattamenti inumani e degradanti – non violazione
Il ricorrente, affetto da HIV e da una serie di malattie correlate (tra cui encefalopatia ed epatopatia cronica), adiva la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 3 per aver le Autorità italiane disposto il proseguimento della sua detenzione in carcere dal 22 novembre 2019 al 29 luglio 2020 (con rigetto della richiesta di concessione della detenzione domiciliare), nonché, in ogni caso, per l’inadeguatezza delle misure adottate per proteggerlo dal rischio di contrarre il COVID-19 intra moenia. Dal 2010, invero, il ricorrente risultava detenuto in carcere per scontare un cumulo di condanne con pena complessivamente superiore a 11 anni di reclusione, a fronte di molteplici reati commessi dal 1998; tuttavia, a causa del suo stato di salute, la magistratura di sorveglianza di Milano tra il 2015 e il 2018 gli concedeva a più riprese il differimento dell’esecuzione delle pene nonché per diversi periodi la sostituzione della detenzione carceraria con la detenzione domiciliare “umanitaria”, talvolta presso comunità residenziali e talaltra presso il domicilio di parenti, rilevando che lo stato di salute del ricorrente era incompatibile con la detenzione in carcere. Verso la fine del 2019, la magistratura di sorveglianza sospendeva, prima, e revocava, poi, la detenzione domiciliare, facendo così tradurre il ricorrente in carcere, a fronte della rilevata ripetuta violazione delle prescrizioni impostegli nonché a fronte di un’aggressione da questi realizzata ai danni di una donna e un minore, in occasione di una delle “fughe” dalla struttura residenziale per disabili presso cui risultava fino a quel momento confinato; di seguito, in carcere gli veniva assicurato un caregiver. Il 17 marzo 2020 – epoca in cui il COVID-19 aveva già assunto la forma di una pandemia globale – il ricorrente chiedeva nuovamente alle Autorità italiane di essere ammesso alla detenzione domiciliare per ragioni umanitarie; tale richiesta veniva tuttavia respinta fino alla fine di luglio poiché l’istante non aveva un luogo di residenza idoneo allo scopo e, in precedenza, aveva comunque ripetutamente violato le condizioni della misura. Il 20 luglio 2020, grazie al supporto del servizio medico del carcere, il ricorrente trovava una struttura idonea ad accoglierlo in regime di detenzione domiciliare umanitaria e, perciò, riproponeva apposita istanza, la quale veniva accolta il 29 luglio 2020. Il ricorrente, da ultimo, adiva la Corte EDU lamentando che il periodo trascorso in regime di detenzione carceraria dal 22 novembre 2019 al 29 luglio 2020 lo aveva esposto a pericolo serio e attuale per la sua vita, a causa delle patologie pregresse e certificate da cui era affetto, tenuto anche conto della diffusione del COVID-19 nell’epoca a cui risalgono i fatti. La Corte, anzitutto, dichiara inammissibile il ricorso nella parte in cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 CEDU per la presunta mancanza di trattamento e assistenza medica adeguati in carcere, stanti la genericità delle doglianze riportate a riguardo e l’assenza di documentazione medica idonea a testimoniare tale inadeguatezza (§ 80). La Corte, invece, dichiara ammissibile ma infondata la supposta violazione dell’art. 3 CEDU per quanto riguarda la compatibilità dello stato di salute del ricorrente con la detenzione: la Convenzione, d’altronde, non prevede alcun obbligo generale di liberazione del detenuto per motivi di salute (§ 90) e, nel caso di specie, le Autorità italiane hanno adeguatamente e ragionevolmente motivato la scelta di mantenere temporaneamente il ricorrente in stato di detenzione carceraria; il che vale ad escludere che la detenzione del ricorrente abbia costituito un trattamento inumano o degradante (§ 93). Infine, la Corte dichiara ammissibile ma infondata altresì la questione relativa alla violazione dell’art. 3 CEDU per la presunta inadeguatezza delle protezioni adottate dallo Stato a tutela del ricorrente contro il rischio di contrarre il COVID-19 intra moenia: in primo luogo, durante il periodo trascorso in carcere, il ricorrente non ha contratto il virus (§ 99); in secondo luogo, certamente lo stato di salute cagionevole e la detenzione carceraria potevano aver suscitato in lui il serio timore del contagio, ma all’epoca dei fatti quei timori erano condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione, all’esterno oltre che all’interno del carcere (§ 101); in terzo e ultimo luogo, in ogni caso, tenuto anche conto del fatto che le Autorità italiane stavano fronteggiando una pandemia globale dovuta a un virus fino allora sconosciuto, le misure di prevenzione del COVID-19 adottate in carcere – ex multis: precauzioni igieniche; procedure di pulizia e disinfezione; screening e quarantena dei nuovi detenuti e ristretti; dispositivi di protezione (i.e. mascherine) – potevano ritenersi sufficientemente adeguate, con conseguente assenza di motivi per ritenere che, in carcere, il ricorrente fosse stato esposto a un rischio più elevato rispetto alla popolazione esterna (§ 110). (Benedetta Ceresoli)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 8 ottobre 2024, Severin c. Romania
Equità processuale – utilizzo ai fini della sentenza di condanna di registrazioni di conversazioni effettuate da giornalisti – non violazione
Il ricorrente afferma la sussistenza di una violazione dell’art. 6 Cedu nel procedimento penale a suo carico, concluso con una sentenza di condanna per corruzione. Da un lato, lamenta l’utilizzo, ai fini della decisione, delle registrazioni effettuate nell’ambito di un’inchiesta giornalistica sui fatti oggetto del procedimento. Dall’altro lato, la doglianza riguarda l’esame dei medesimi giornalisti in qualità di testimoni, svoltosi mediante collegamento audiovisivo (§§ 55-59). La Corte rigetta il ricorso sotto entrambi i profili, in linea con l’indirizzo costante sul diritto dell’imputato di contestare gli elementi di prova e di opporsi al loro utilizzo, in contraddittorio e in condizioni di parità con l’accusa (§ 73). Quanto alle registrazioni, si nota che le stesse non sono state decisive per la condanna e che l’imputato, con i suoi difensori, ha potuto conoscerne il contenuto e contestarne efficacemente l’autenticità (§ 86). Il rispetto dell’equità processuale è, peraltro, confermato per la seconda questione, poiché l’imputato e i suoi difensori hanno avuto sufficiente possibilità di esaminare i testimoni a carico, seppure a distanza (§ 91). (Michele Pisati)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 10 ottobre 2024, Machalický c. Repubblica Ceca
Presunzione d’innocenza – la sentenza civile di rigetto della domanda di risarcimento dei danni subiti a causa del procedimento penale contiene affermazioni esplicite sulla responsabilità penale del ricorrente prosciolto per prescrizione – violazione
Il ricorrente, prosciolto per prescrizione del reato, presenta ai giudici nazionali domanda civile di risarcimento dei danni economici subiti a causa delle spese sostenute nel procedimento penale a suo carico (§ 9). A fronte del rigetto definitivo della domanda, si rivolge alla Corte edu, sostenendo che i giudici civili hanno fondato la propria decisione sulla considerazione che dagli atti del procedimento penale risultava in modo chiaro la responsabilità penale del medesimo ricorrente, nonostante l’estinzione del reato (§ 24). I giudici di Strasburgo svolgono una premessa sulla base dell’indirizzo consolidato: la presunzione d’innocenza di cui all’art. 6 § 2 Cedu opera sia nel procedimento penale che dopo il proscioglimento. In altre parole, la fondatezza del proscioglimento non può essere messa in dubbio in ogni procedimento extra-penale che costituisca corollario di quello concluso in senso liberatorio nella sede penale (§ 49). Dopo aver evidenziato l’esistenza di tale collegamento tra i procedimenti penale e civile nel caso di specie, la Corte rileva che il linguaggio utilizzato nella motivazione della sentenza civile esprime un’opinione inequivocabile sulla colpevolezza del ricorrente (§ 58). Di qui, accoglie il ricorso (§ 60). (Michele Pisati)
Riferimenti bibliografici: F. Zacchè, Archiviazione del procedimento per amnistia e giudizio d’innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 870.
C. eur. dir. uomo, com. sez. II, sent. 22 ottobre 2024, Kocaman c. Turchia
Equità processuale – motivazione della sentenza di condanna – violazione
Il ricorrente si rivolge alla Corte edu dopo la revoca della condanna definitiva in seguito a un’impugnazione straordinaria proposta dal pubblico ministero. Sostiene, in particolare, l’ingiustizia del primo procedimento in ragione dell’insufficienza della motivazione sulla colpevolezza nella sentenza di condanna (§§ 1-5). I giudici di Strasburgo esaminano, in via preliminare, la questione se, in virtù della revoca della condanna, il ricorrente possa considerarsi ancora vittima di una violazione dell’art. 6 Cedu e, così, legittimato a ricorrere alla Corte edu. Nel dare risposta positiva, si ricorda che lo status di vittima viene meno in presenza di due condizioni concorrenti: la prima è che le autorità nazionali abbiano riconosciuto la violazione della Cedu; la seconda è che abbiano rimediato alla stessa (§ 8). Nel caso di specie, il provvedimento liberatorio, pur rimuovendo la sentenza di condanna, non contiene alcun riconoscimento della violazione del diritto a un giudizio motivato nel procedimento a quo (§ 9). A questo proposito, la Corte ricorda che nei provvedimenti giurisdizionali devono trovare esplicito e puntuale riscontro tutte le questioni sollevate dalle parti che, ove accolte, risulterebbero decisive per l’esito del giudizio (§ 18). Viceversa, nel caso al vaglio, la sentenza di condanna non conteneva alcuna indicazione o valutazione sulle prove a carico del ricorrente, tali da dimostrare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Il ricorso è, pertanto, accolto (§ 19). (Michele Pisati)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 17 ottobre 2024, Cesarano c. Italia
Equità processuale – giudizio abbreviato – ergastolo – aspettativa di una pena massima di trenta anni di reclusione – non violazione
Per una sintesi dei fatti, v. infra, sub art. 7. La Corte esamina ex officio la questione del rispetto dell’art. 6 § 1 Cedu, che garantisce all’imputato di non essere arbitrariamente privato dei vantaggi correlati alla scelta dei riti alternativi (§ 91). I giudici di Strasburgo si interrogano sull’esistenza di un’aspettativa del ricorrente, a fronte della scelta del giudizio abbreviato, di incorrere, per il caso di condanna, in una pena massima di trenta anni di reclusione sulla base della versione più favorevole dell’art. 442 comma 2 c.p.p. modificato con l. n. 479 del 1999, vigente nel corso del procedimento di primo grado, piuttosto che dell’ergastolo senza isolamento diurno secondo la formulazione risultante dal d.l. n. 341/2000, in vigore al momento della richiesta di giudizio abbreviato (§ 96). Alla questione i giudici di Strasburgo danno risposta negativa, escludendo la violazione dell’equità processuale, poiché tale aspettativa deve misurarsi sul quadro normativo vigente al momento dell’opzione per il procedimento speciale (§§ 97-98). (Michele Pisati)
ART. 7 CEDU
C. eur. dir. uomo, I° sezione, 17 ottobre 2024, Cesarano c. Italia
Successione di leggi penali – rito abbreviato – omicidio e strage – ergastolo – reclusione pari a 30 anni – presunta applicazione della pena più severa – non violazione (a maggioranza)
Il ricorrente, condannato in via definitiva in Italia all’ergastolo senza isolamento diurno a seguito di rito abbreviato, ricorreva alla Corte EDU denunciando la violazione dell’art. 7 CEDU, a fronte della decisione dei Giudici nazionali di negargli la riduzione di pena dall’ergastolo a 30 anni di reclusione. Il ricorso traeva origine dai seguenti fatti. Nel 1995, il ricorrente veniva rinviato a giudizio (in concorso con altri coimputati) per omicidio e strage; reati che a quel tempo erano cumulativamente punibili con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno e rispetto ai quali non era ammesso il rito abbreviato. In seguito, la l. n. 479/1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, reintroduceva siffatta opzione processuale anche per i reati punibili in astratto con l’ergastolo e, nello specifico, prevedeva che, laddove il reato ascritto all’imputato fosse risultato punibile con l’ergastolo (senza ulteriori specificazioni, i.e. con o senza isolamento diurno), la pena irrogabile a seguito di condanna per abbreviato sarebbe stata pari a 30 anni di reclusione (§ 30). Il successivo art. 4-ter D.L. n. 82/2000 (conv. con modif. in L. n. 82/2000), entrato in vigore l’8 giugno 2000, riconosceva agli imputati per delitti puniti con la pena dell’ergastolo la possibilità di chiedere di essere giudicati con rito abbreviato nella successiva udienza, purché fossero ancora in corso le udienze istruttorie del loro caso, nei gradi di merito (primo grado o appello). Il ricorrente, diversamente da altri coimputati (che optavano allora per la prosecuzione del giudizio secondo rito abbreviato e venivano quindi condannati a 30 anni di reclusione), sceglieva di procedere secondo rito ordinario. Successivamente, entrava in vigore il d.l. n. 341 del 24 novembre 2000, un’asserita legge di interpretazione autentica della L. n. 479/1999, che, ai sensi dell’art. 7, stabiliva che per “ergastolo”, come previsto dalla L. n. 479/1999, doveva intendersi “ergastolo senza isolamento diurno”. Per l’effetto, ai sensi di tale intervento normativo, solo i soggetti punibili con l’ergastolo senza isolamento diurno, in caso di abbreviato, avrebbero avuto diritto alla riduzione di pena fino a 30 anni di reclusione; per contro, l’imputato punibile in astratto con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno avrebbe avuto diritto, a titolo di riduzione, di essere condannato alla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno, qualora avesse optato per il rito abbreviato (§ 31-33). Proprio a questo riguardo, nel 2009, interveniva la sentenza Scoppola, in occasione della quale la Corte EDU stabiliva che il principio di retroattività favorevole è desumibile anch’esso dall’art. 7 CEDU e impone che “in caso di divergenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima della sentenza definitiva, il giudice deve applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli” (§ 37). Quanto ai fatti di causa, il 25 ottobre 2007 il ricorrente veniva condannato in primo grado dalla Corte d’Assise di Napoli; il 19 febbraio 2010 la Corte d’Assise d’appello di Napoli annullava la condanna di primo grado del ricorrente per difetto di competenza e restituiva gli atti alla Procura della Repubblica di Roma; il 15 maggio 2012 il ricorrente veniva nuovamente rinviato a giudizio per le medesime accuse del 1995 ma, dinnanzi al G.U.P. di Roma, richiedeva questa volta l’accesso al rito abbreviato; veniva allora condannato alla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno, in applicazione (non della L. n. 479/1999, ma) dell’art. 7 D.L. n. 341/2000; la decisione veniva confermata in Appello e in cassazione, con conseguente passaggio in giudicato. Per quanto sopra, il ricorrente adiva, da ultimo, la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 7 CEDU, per essere stato condannato all’ergastolo senza isolamento diurno in applicazione del D.L. n. 341/2000 e non, invece, a 30 anni di reclusione in applicazione della L. n. 479/1999, nonostante – in aderenza al principio di diritto espresso in occasione della sentenza Scoppola – la legge più favorevole tra la data del commesso reato (1983) e la data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (2016) fosse, avuto riguardo al caso concreto, la L. n. 479/1999 (§ 53). Il Governo italiano, in risposta, evidenziava che la posizione del ricorrente non potesse essere assimilata a quella di Scoppola: quest’ultimo, infatti, aveva richiesto il rito abbreviato tra il 2 gennaio 2000 e il 24 gennaio 2000 (i.e. prima dell’intervento della succitata “legge di interpretazione autentica” in malam partem); per contro, il ricorrente aveva fatto domanda di accesso al giudizio abbreviato il 2 ottobre 2012, ben oltre, cioè, la data di entrata in vigore del D.L. n. 341/2000. La Corte EDU rigetta il ricorso, sull’assunto che le scelte procedurali dell’imputato e le condizioni di qualsiasi accordo tra l’imputato e lo Stato siano fondamentali quando si tratta della pena applicabile (§ 78); è infatti la sanzione applicabile al momento dell’accordo in questione quella in cui l’imputato sceglie consapevolmente di incorrere (§ 79). Sicché, pur restando valido il principio espresso nella sentenza Scoppola, tenuto conto del diverso momento in cui Scoppola e il ricorrente hanno chiesto l’accesso al rito abbreviato (il primo nell’effettiva vigenza della lex mitior mentre il secondo nella vigenza della legge successiva, meno favorevole), occorre concludere che è la data della richiesta del ricorrente di essere giudicato con rito abbreviato (e non la data del commesso reato) che segna l’inizio del lasso di tempo da prendere in considerazione per l’individuazione della lex mitior (§ 85), considerata anche la stretta interazione tra gli aspetti sostanziali e processuali nel caso concreto. Nella sua dissenting opinion il Giudice Felici osserva chel ricorrente non è stato condannato alla pena più mite tra quelle risultate in vigore tra la data del commesso reato (1983) e quella del passaggio in giudicato della sentenza (2016), come invece ha statuito la Corte EDU in occasione della sentenza Scoppola; al contrario, la presente sentenza limita di fatto e palesemente la portata del principio stabilito dalla Grand Chambre, nella parte in cui afferma che, qualora – come nel caso concreto – la pena irrogabile dipenda indirettamente da scelte processuali e difensive dell’imputato, il termine entro cui individuare la legge più clemente decorre non più dal tempus commissi delicti bensì dal momento in cui l’imputato formula richiesta di accesso al rito abbreviato (§ 4). (Benedetta Ceresoli)
ART. 13 CEDU, in relazione all’art. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, II° sezione, 15 ottobre 2024, Haugen c. Norvegia
Effettività degli strumenti di tutela nazionali – mancata protezione del diritto alla vita – risarcimento del danno – assenza di rimedi effettivi – violazione
Per la sintesi dei fatti e i profili relativi agli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita v. supra sub art. 2 CEDU. Il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 13 CEDU, a fronte della ritenuta assenza di rimedi interni effettivi funzionali al ristoro del danno derivante dalla violazione del diritto alla vita del di lui figlio. La Corte EDU accoglie il ricorso, evidenziando che, laddove sia in gioco la violazione di uno dei diritti sanciti nella Convenzione, quale è il diritto alla vita di cui all’art. 2 CEDU, a livello interno dovrebbe essere riconosciuto alla vittima un meccanismo per l’accertamento della responsabilità dello Stato e per il conseguente risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale; invece, nell’ordinamento norvegese non si rinvengono allo stato attuale mezzi appropriati per ottenere l’affermazione di responsabilità delle Autorità statali coinvolte, né il risarcimento del danno (§ 163). Invero, anche preso atto delle recenti sentenze della Corte suprema norvegese intervenute il 26 giugno 2024 (con cui in due casi è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per violazione, ad opera dello Stato, dei diritti sanciti nella CEDU), va rilevato che esse hanno creato un precedente per il futuro, ma non operano rispetto ai casi passati, come quello che ha dato origine al ricorso (§ 164). (Benedetta Ceresoli)