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04 Novembre 2024


Osservatorio Corte EDU: settembre 2024

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Candida Mistrorigo (artt. 8, 9, 10 e 11 Cedu) e Francesca Ertola (artt. 5, 6 e 8 Cedu).

 

In settembre abbiamo selezionato pronunce relative a: motivazione dell’ordinanza cautelare (art. 5 Cedu); condanna per reato connesso e presunzione di innocenza (art. 6 Cedu); autenticità delle prove (art. 6 Cedu); funzioni del pubblico ministero nel procedimento amministrativo-punitivo (art. 6 Cedu); revoca del permesso di soggiorno ed espulsione per motivi di sicurezza nazionale (art. 8 Cedu); sindacabilità del rifiuto di trasfusione di sangue per motivi religiosi (artt. 8 e 9 Cedu); limitazione delle libertà di espressione e riunione mediante fermo amministrativo (artt. 10 e 11 Cedu); sciopero della fame (art. 11 Cedu)

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 5 settembre 2024, Mujhtarli c. Azerbaijan e Georgia

Libertà personale – ordinanze cautelari motivate con formule stereotipate – violazione

Il caso riguarda un giornalista nato in Azerbaijan e residente in Georgia, noto per essere un fermo oppositore del governo (§ 5). Nel maggio 2017, il ricorrente è stato rapito, bendato e condotto contro la sua volontà presso un’unità militare di frontiera in Azerbaijan (§ 7), dove veniva arrestato con l’accusa di essersi illegalmente introdotto in territorio azero (§ 8), sottoposto a custodia cautelare per più di sette mesi e infine condannato a sei anni di reclusione (§ 122). Nonostante la denuncia di un possibile coinvolgimento della polizia locale nel rapimento del ricorrente, le autorità georgiane non procedevano all’acquisizione completa delle registrazioni delle telecamere di sorveglianza, affidando la conduzione delle indagini – durate più di sette anni – agli stessi agenti sospettati di averne preso parte (§ 148). A fronte di tali inefficienze, il ricorrente decideva dunque di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciando la violazione, oltre che dell’art. 3 Cedu, dell’art. 5 Cedu da parte sia della Georgia sia dell’Azerbaijan. Ribadita l’importanza degli obblighi procedurali che gravano sui singoli Stati a fronte di possibili lesioni de diritti fondamentali (§ 154-156), la Corte di Strasburgo ritiene che le dichiarazioni – coerenti e dettagliate – del ricorrente meritassero un’indagine adeguata (§ 157). In particolare, sarebbe stato necessario verificare la fondatezza delle due possibili ricostruzioni dei fatti denunciati: da una parte, la tesi del trasferimento forzoso, prospettata dal ricorrente; dall’altra, quella dell’illegittimo attraversamento dei confini per scopi di contrabbando, sostenuta dalle autorità azere (§ 159). Dopo aver accertato l’assoluta inefficienza delle investigazioni condotte dalle autorità georgiane (§ 168), i giudici europei non sono tuttavia in grado di stabilire – con certezza (§ 172) – se via sia stata una loro diretta partecipazione (o comunque una tacita acquiescenza) (§ 181). Quanto alla responsabilità in capo all’Azerbaijan, i giudici europei si soffermano sulla legittimità della privazione della libertà personale subita dal ricorrente. Sebbene l’arresto risultasse formalmente legittimo (§ 198), la C.edu sottolinea come le ordinanze cautelari, motivate con formule stereotipate (§ 205), muovessero dal presupposto di un volontario superamento dei confini, in assenza di sufficienti elementi a supporto di tale ricostruzione (§ 205). Vi è stata, pertanto, una violazione dell’art. 5 comma 3 Cedu (§ 206). (Francesca Ertola)

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 17 settembre 2024, C.O. c. Germania

Presunzione d’innocenza – la sentenza di condanna di imputati di reato connesso contiene una descrizione puntuale della condotta del ricorrente – assenza di effetti vincolanti nel procedimento separato – non violazione

Il ricorrente, amministratore di una banca privata tedesca, è accusato di aver preso parte a una complessa frode fiscale (Cum-Ex), rispetto a cui un azionista (M.S.) e un dipendente (N.D.) sono stati condannati per favoreggiamento in un separato procedimento. La motivazione delle sentenze emesse nei confronti M.S. e N.D. riportavano una descrizione puntuale della condotta del ricorrente – al momento della decisione, ancora imputato – illustrandone il ruolo attivo nelle operazioni di indebita percezione dei crediti d’imposta (§ 15). Sebbene i provvedimenti precisassero che si trattava di una «persona perseguita separatamente», ad avviso del ricorrente i tribunali interni hanno preso una chiara posizione in merito alla sua colpevolezza, compromettendo così l’equità del procedimento a suo carico (§ 48-50). Nel rigettare le doglianze sollevate ai sensi dell’art. 6 comma 2 Cedu, la Corte di Strasburgo si sofferma sugli effetti in tema di presunzione d’innocenza derivanti dalla separazione dei procedimenti (§ 59), evidenziando la necessità di contemperare tale diritto con l’esigenza, altrettanto fondamentale, che le sentenze nei confronti dei correi accertino in maniera chiara le responsabilità loro ascritte (§ 60). Nel caso di specie, la scelta di procedere separatamente era volta ad assicurare la ragionevole durata del processo nei confronti dei coimputati, alla luce della complessità del caso Cum‑Ex e delle confessioni rese da M.S. e N.D. in fase di indagini (§ 61). La preventiva definizione del ruolo del ricorrente nell’articolato disegno criminoso era funzionale a valutare le responsabilità a carico di M.S. e N.D., considerata la stretta consequenzialità tra il delitto di favoreggiamento e l’accertamento – quantomeno sotto il profilo della tipicità e antigiuridicità (§ 31) – del reato presupposto (§ 62). Si è trattato, tuttavia, di una mera descrizione neutrale dei fatti (§ 63), limitata allo stretto necessario (§ 64) e sprovvista di efficacia vincolante nel procedimento in corso (§ 66). Inoltre, definendo il ricorrente un soggetto ancora imputato, i tribunali interni si sono astenuti dal formulare un giudizio anticipato di colpevolezza (§ 68). (Francesca Ertola)

 

C. eur. dir. uomo, com. sez. I, sent. 19 settembre 2024, Savalanli c. Azerbaijan

Equità processuale – condanna basata su prove ottenute con modalità tali da renderne dubbia l’autenticità – omessa considerazione delle istanze sollevate dalla difesa – violazione  

Il caso riguarda l’iniquità del procedimento penale nei confronti del ricorrente, condannato per possesso illecito di stupefacenti a seguito del rinvenimento, nel corso di una perquisizione personale, di un ingente quantitativo di droga (§ 3). La perquisizione era stata eseguita in assenza di un difensore e dopo quasi un’ora dall’illegittimo e non documentato arresto, così da far emergere il ragionevole sospetto di un possibile «‘planting’ of evidence» (§ 17). Sebbene si trattasse di prove (determinanti) di dubbia attendibilità (§ 22), i giudici interni hanno omesso di esaminare le istanze prospettate dalla difesa in merito alla provenienza della sostanza rinvenuta sul ricorrente (§ 23). Da qui, la riscontrata violazione dell’art. 6 § 1 Cedu. (Francesca Ertola)

 

C. eur. dir. uomo,  sez. III, sent. 10 settembre 2024, Dianova e altri c. Russia

Equità processuale – assenza del pubblico ministero nel procedimento amministrativo-punitivo – imparzialità del giudice – violazione

Per una sintesi completa dei fatti, v. infra, sub art. 9 e 10. Richiamando una giurisprudenza costante in materia, la Corte di Strasburgo riscontra altresì la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu a causa della mancata partecipazione di un pubblico ministero nei procedimenti amministrativi – ma sostanzialmente penali – avviati nei confronti dei ricorrenti. Non essendo prevista la presenza di una pubblica accusa in udienza, il giudice è infatti costretto a esercitarne le relative funzioni, compromettendo così la sua imparzialità oggettiva. (Francesca Ertola)

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, I° sezione, 19 settembre 2024, Trapitsyna e Isaeva c. Ungheria

Revoca permesso di soggiorno per motivi di sicurezza nazionale – espulsione – assenza di adeguate garanzie procedurali – mancata valutazione delle circostanze inerenti all’espulsione – mancata valutazione del best interest – violazione

Il caso riguarda l'espulsione di una cittadina russa e di sua figlia minore, residenti in Ungheria. Le autorità hanno avviato il procedimento di espulsione per motivi di sicurezza nazionale su raccomandazione dell'Ufficio per la protezione costituzionale (CPO), che considerava la madre una minaccia. La Direzione generale della polizia degli stranieri (NDGAP) ha ordinato l'espulsione della prima ricorrente in Russia. L'NDGAP ha basato la sua decisione esclusivamente su informazioni classificate, mai rivelate alle ricorrenti, che non hanno potuto contestare le accuse. Il ricorso della madre è stato respinto dalla Corte Suprema, che ha confermato la mancanza di discrezionalità dell'NDGAP. Anche il permesso della figlia è stato revocato in conformità alla legge ungherese che prevede che il permesso di insediamento di un bambino possa essere revocato se viene revocato il permesso di immigrazione del genitore. La Corte, pur riconoscendo il diritto di ciascuno stato di controllare l’ingresso e la residenza dei cittadini stranieri nei loro territori e il potere di espellere i cittadini stranieri qualora sussistano determinate circostanze, ha sottolineato che le decisioni in tale ambito devono essere regolate da una legge, giustificate da esigenze sociali inderogabili, essere proporzionate tenuto conto dello scopo che si vuole perseguire (§53). Inoltre, gli stati devono mettere a disposizione dell'interessato l'effettiva possibilità di impugnare la misura di allontanamento dal territorio e di far esaminare le questioni pertinenti con sufficienti garanzie (§54), inclusa quella del contraddittorio (§56). La Corte ha riconosciuto che la decisione di espulsione e la revoca dei permessi di immigrazione e di insediamento delle ricorrenti costituivano una significativa interferenza con il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare (§65). La Corte ha inoltre sottolineato che le ricorrenti non hanno ricevuto alcuna motivazione sostanziale per l'espulsione, e che la mancata divulgazione di informazioni rilevanti da parte delle autorità costituisse una significativa irregolarità procedurale compromissiva dei loro diritti (§72 ss). La Corte ha anche considerato le conseguenze dell'espulsione per la seconda ricorrente: sebbene le autorità nazionali avessero cercato di garantire che madre e figlia non venissero separate, la Corte ha rilevato che il processo decisionale non aveva tenuto sufficientemente conto dell'interesse superiore della bambina, in particolare in relazione ai suoi legami consolidati in Ungheria rispetto ai potenziali rischi della vita in Russia (§82-83). In conclusione, la Corte ha ritenuto che le azioni dell'Ungheria violassero i diritti delle ricorrenti ai sensi dell'articolo 8, a causa della mancanza di adeguate garanzie procedurali e di trasparenza nel processo decisionale relativo alla sicurezza nazionale. (Candida Mistrorigo)
Riferimenti bibliografici: C. Cataneo, Il diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero destinatario di un provvedimento di espulsione a seguito della commissione di reati, in Riv. it. dir. pen. proc., 2023, p. 1234 ss.
 

ART. 8 e 9 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 17 settembre 2024, Pindo Mulla c. Spagna

Testimoni di Geova – trasfusioni di sangue – rifiuto del trattamento sanitario – sindacabilità delle decisioni del giudice in caso di emergenza – consenso informato – violazione

La Sig.ra Pindo Mulla, cittadina ecuadoriana residente in Spagna e testimone di Geova, si oppone alle trasfusioni di sangue per motivi religiosi. Nel 2017, le è stato consigliato un intervento chirurgico, e ha redatto un testamento biologico e una procura in cui dichiarava il rifiuto di trasfusioni, anche in caso di pericolo di vita. Nel giugno 2018, è stata ricoverata per una grave emorragia interna che causava anemia. Un medico le ha proposto una trasfusione, ma lei ha rifiutato firmando un modulo di consenso informato. Il giorno seguente, è stata trasferita in un ospedale di Madrid specializzato in trattamenti senza sangue. Durante il trasporto, il medico ha informato i colleghi dell'ospedale che la paziente era in condizioni critiche. Gli anestesisti hanno chiesto al giudice di turno istruzioni su come procedere, spiegando che la paziente era una testimone di Geova e che aveva rifiutato verbalmente le trasfusioni. Il giudice, senza conoscere l'identità della paziente, ha autorizzato qualsiasi intervento necessario per salvarle la vita. Quel giorno è stato eseguito un intervento chirurgico e le sono state somministrate tre trasfusioni, senza che la paziente fosse stata informata della decisione del giudice, sebbene fosse stata presa durante il suo trasferimento in ospedale, in un momento in cui si era cosciente, orientata e collaborativa. La ricorrente, non conscia dell’utilizzo di trasfusioni, non ha ribadito il suo rifiuto. È venuta a conoscenza dell'esatta natura dell'intervento chirurgico eseguito solo il giorno successivo all'operazione. Dopo aver esaurito i rimedi giurisdizionali nazionali, basandosi sugli articoli 8 e 9 Cedu, la ricorrente lamentava che le autorità nazionali non avessero tenuto conto del suo rifiuto di trattamenti medici consistenti in emotrasfusioni, nonostante, a suo avviso, fosse stato chiaramente espresso in numerosi documenti ufficiali. La Corte sottolinea che nel caso di specie non è chiamata a mettere in discussione la valutazione effettuata dai medici sullo stato di salute della paziente o le loro decisioni in merito alle cure da somministrarle, ma a valutare se il processo decisionale abbia garantito un sufficiente rispetto dell'autonomia della ricorrente (§137). La Corte ha riconosciuto che la decisione del giudice di turno era volta a garantire che fosse fatto tutto il possibile per salvare la vita della ricorrente (§134 ss.). Tuttavia, permettere al paziente di scegliere se accettare o meno un trattamento è un principio elementare e fondamentale nel campo della salute pubblica, un principio che è protetto dalla regola del consenso libero e informato (§138). Secondo la giurisprudenza della Corte, un paziente adulto e sano di mente è libero di decidere se accettare o meno un intervento chirurgico o un trattamento medico, compresa la trasfusione di sangue (§140). La Corte afferma che la decisione di rifiutare un trattamento di sostegno vitale deve essere “chiara, precisa e inequivocabile” e “rappresentare la posizione del paziente in merito alla questione nel momento rilevante” (§142). Se ci sono ragionevoli motivi per dubitare di uno di questi requisiti, gli operatori sanitari sono obbligati a prendere tutte le misure ragionevoli per accertare la volontà del paziente. Se, nonostante questi sforzi, il medico – o il tribunale nazionale adito – non è in grado di stabilire chiaramente la volontà del paziente, gli operatori sanitari hanno il dovere di proteggere la vita del paziente somministrando le cure essenziali (§143). La Corte ha sottolineato che, quando uno Stato ha deciso di introdurre un sistema di direttive mediche anticipate e i pazienti si avvalgono di tale sistema, è importante che esso funzioni efficacemente (§151 ss). Ha osservato che il giudice di turno non aveva ricevuto informazioni complete e corrette e che la sua decisione si era quindi basata su informazioni fattuali molto limitate, errate e incomplete. L'incompletezza delle informazioni inviate via fax ha avuto un effetto decisivo sulla decisione del giudice di turno. Inoltre, la questione cruciale se la paziente fosse ancora in grado di decidere da sola sarebbe stata accantonata e il potere decisionale trasferito ai medici che la curavano. Né lei né i suoi parenti sono stati informati della decisione del giudice prima dell'intervento (§159 ss). A causa di queste carenze, la signora Pindo Mulla non ha potuto esercitare la sua autodeterminazione in materia religiosa, violando così il suo diritto al rispetto della vita privata garantito dall'articolo 8 della Convenzione, letto alla luce dell'articolo 9 (§183 ss). (Candida Mistrorigo)

 

ART. 10 e 11

C. eur.dir. uomo, terza sezione,10 settembre 2024, Dianova e altri c. Russia

Libertà di espressione – ampiezza della definizione di “riunione” e di “riunione di massa” – arresto amministrativo e detenzione in violazione alla libertà personale – violazione.

I ricorrenti, Olga Dianova e altri quattro cittadini russi, sono coinvolti in due episodi distinti: uno sciopero della fame e la realizzazione di un film satirico su Putin. La signora Dianova ha organizzato uno sciopero della fame per protestare contro i maltrattamenti subiti dai detenuti in un penitenziario locale. Lei e altri soggetti si sono accampati vicino a uno stadio, erigendo uno striscione che annunciava lo sciopero della fame e bevendo solo acqua per cinque giorni. La sera dell'11 agosto 2014 è intervenuta la polizia, che la ha accusata di non aver ottemperato alle richieste della polizia di interrompere la loro partecipazione a un evento pubblico, descritto come una “manifestazione statica” non autorizzata. La polizia ha sostenuto che l'evento si era svolto dopo l'orario previsto dalla legge per le manifestazioni pubbliche e senza preavviso. Durante le udienze, la ricorrente ha sostenuto che il suo sciopero della fame non fosse una “manifestazione statica” ai sensi della legge sugli eventi pubblici e che non vi erano prove di inosservanza. Gli altri ricorrenti si sono riuniti nel luglio 2015 in un'area isolata del parco pubblico di Mosca per girare un film satirico su Putin. La stessa sera i partecipanti sono stati arrestati e trattenuti in una stazione di polizia. Successivamente sono stati accusati di aver partecipato a un raduno di massa non autorizzato ai sensi della legge sulle manifestazioni pubbliche, nonostante avessero insistito sul fatto che stavano semplicemente effettuando delle riprese. Il tribunale distrettuale li ha giudicati colpevoli di aver violato la procedura per gli eventi pubblici. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, la libertà di espressione si applica non solo alle “informazioni” o alle “idee” che sono accolte favorevolmente o considerate inoffensive, ma anche a quelle che offendono, scioccano o disturbano; tali sono le esigenze del pluralismo e dell'ampiezza di vedute, senza le quali non esiste una “società democratica”. L'articolo 10 della Convenzione protegge non solo la sostanza delle idee espresse, ma anche la forma in cui vengono trasmesse (§74). La Corte ritiene che il film oggetto del ricorso fosse un atto di espressione, rientrando quindi nell'ambito di applicazione dell'articolo 10, che protegge la satira come forma di espressione artistica e commento sociale (§76). La Corte esamina le doglianze dei ricorrenti ai sensi dell'articolo 10, interpretato alla luce dell'articolo 11 (§77). Non è contestato che vi sia stata un'interferenza con il diritto alla libertà di espressione ed essa costituisce una violazione dell'articolo 10 a meno che non sia “prescritta dalla legge”, persegua uno o più scopi legittimi di cui all'articolo 10 § 2 e sia “necessaria in una società democratica” (§78). L'espressione “prescritta dalla legge” richiede che la misura impugnata abbia una base giuridica nel diritto interno e che la legge sia accessibile e prevedibile nei suoi effetti.  La questione principale trattata dalla Corte è stata se la legge sugli eventi pubblici fosse applicabile alla realizzazione di un film satirico e se le disposizioni di legge fossero sufficientemente “prevedibili” nel caso di specie (§80). La Corte osserva che una “riunione”, come definita nella legge sulle manifestazioni pubbliche, si riferisce a un raduno di massa allo scopo di esprimersi su questioni di interesse pubblico. Applicare questo concetto a un gruppo di sei persone impegnate nella produzione di un film non riconosce la natura specifica dell'attività, che non comporta un'espressione diretta al pubblico (la cinematografia è un'attività preparatoria con comunicazione differita delle idee al pubblico attraverso il film finito). L'applicazione della regola della notifica a questa forma di espressione creerebbe una restrizione preventiva incompatibile con la libera comunicazione delle idee (§80). Inoltre, l'azione dei ricorrenti non poneva alcun problema di ordine pubblico, e non ci sono prove che il comportamento sanzionato avesse causato disordini. In questo caso, l'espressione artistica pacifica non è paragonabile a un raduno di massa potenzialmente pericoloso per l’ordine pubblico (§82). Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che l'applicazione della legge sugli eventi pubblici ai creatori di un film non fosse “prevedibile per quanto riguarda i suoi effetti”. Vi è stata quindi una violazione dell'articolo 10 della Convenzione (§84). (Candida Mistrorigo)

 

ART. 11

C. eur.dir. uomo, terza sezione,10 settembre 2024, Dianova e altri c. Russia

Libertà di riunione – sciopero della fame – Ambiguità della qualificazione giuridica delle manifestazioni pubbliche – Assenza di motivazione – violazione

Per la sintesi dei fatti e i profili relativi alla libertà di espressione: v. supra, sub. art. 10.Relativamente alla Sig.ra Dianova, la Corte ha sottolineato che la libertà di riunione prevista dall'articolo 11 è strettamente legata alla libertà di espressione garantita dall'articolo 10. Uno dei criteri distintivi rilevati dalla Corte è che, nell'esercizio del diritto alla libertà di riunione, i partecipanti cercherebbero non solo di esprimere la propria opinione, ma di farlo insieme ad altri (§61). Non è in discussione che l'intervento della polizia per porre fine allo sciopero della fame e le conseguenti sanzioni abbiano costituito un'interferenza con il diritto alla libertà di riunione pacifica. L'applicazione formale della legge ha portato alla condanna della sig.ra Dianova per partecipazione a una “manifestazione statica di gruppo” durante le ore notturne senza autorizzazione preventiva. La Corte dubita che la signora Dianova potesse ragionevolmente prevedere che le sue azioni sarebbero state considerate una violazione della legge sulle manifestazioni pubbliche e ribadisce che le norme che regolano le assemblee pubbliche sono essenziali per la sicurezza e l'ordine, ma la loro applicazione non può diventare fine a sé stessa. In assenza di atti violenti, le autorità devono tollerare gli assembramenti pacifici (§70). Non essendoci altresì prove che lo sciopero della fame abbia causato un disturbo tale da giustificarne la cessazione, né che esso fosse diventato violento (§71), si conclude che la condanna di Dianova si è basata su motivi puramente formali (§72) e che le ragioni addotte dal Governo non corrispondano a una pressante esigenza sociale e non giustifichino le misure contestate come “necessarie in una società democratica”. (Candida Mistrorigo)