Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia
La riforma Cartabia e il contrasto alla violenza contro le donne
1. A un anno di distanza dall’entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia, può essere utile tracciare un bilancio su una tematica che, pur avendo assunto un rilievo centrale nel dibattito sulle scelte di politica criminale, sembra essere stato oggetto di una limitata attenzione da parte di una delle più incisive riforme del sistema sanzionatorio negli ultimi decenni[1]. Si intende fare riferimento ai rapporti tra riforma delle risposte punitive e contrasto alla violenza contro le donne. Accanto alla finalità di investire (anche simbolicamente) sulla pena non-carceraria, attraverso la condivisibile scommessa sul lavoro di pubblica utilità e anticipando alla fase della cognizione alcune risposte punitive già previste come misure alternative (detenzione domiciliare e semilibertà), ci pare che l’obiettivo principale della riforma realizzata con il d.lgs. 150 del 2022 fosse la riduzione dei tempi della giustizia penale in linea con gli obiettivi del P.N.R.R. Un contributo al raggiungimento di questo traguardo è offerto da ogni parte della riforma. L’introduzione delle pene sostitutive, l’estensione della procedibilità a querela e l’ampliamento dei confini applicativi della non punibilità per particolare tenuità del fatto si muovono nella stessa direzione: potenziare la giustizia deflattiva, sfoltendo l’elevata quantità di procedimenti penali. La condivisibile finalità di accrescere l’efficienza, in termini di tempi e costi, di un sistema penale tragicamente in affanno ha finito per collidere con alcune scelte di valore operate con i precedenti interventi legislativi. L’approccio della riforma sembra aver introdotto qualche nuovo ostacolo al faticoso percorso legislativo inaugurato dalla Convenzione di Istanbul. Del mancato coordinamento tra le nuove pene sostitutive ed alcune modifiche legislative, altrettanto recenti, realizzate attraverso la l. 69 del 2019 è stato già detto[2]. Il d.lgs. 150 del 2022 non sembra aver tenuto conto delle disposizioni che, per taluni reati, oggi richiedono, con una chiara vocazione special-preventiva, la partecipazione ai programmi per maltrattanti come condizione per l’accesso alla sospensione condizionale (art. 165, c. 5 c.p.) o durante l’esecuzione della pena e l’accesso alle misure alternative (artt. 13-bis o.p.). Per apprezzare la questione in una visione più ampia, si intende svolgere qualche considerazione sulle altre modifiche.
2. La riforma della non punibilità per particolare tenuità del fatto merita di essere analizzata per prima, perché è l’unica ad aver affrontato, tra luci e ombre, la questione della violenza contro le donne. Come noto, la più importante modifica dell’art. 131-bis c.p. ha riguardato il criterio generale che traccia i confini applicativi della non punibilità. Quest’ultimo non è più rappresentato dal massimo edittale di cinque anni di pena detentiva, come inizialmente stabilito dal legislatore nel 2015, bensì dal minimo edittale non superiore a due anni di pena detentiva. Il nuovo criterio ha notevolmente ampliato, in astratto, gli spazi di operatività della causa di non punibilità[3]. Alla luce delle considerazioni svolte nella Relazione illustrativa della riforma, l’obiettivo dichiarato della deflazione riguardava, in particolare, alcuni reati a scopo di lucro: furti mono-aggravati, ricettazioni, ma anche alcune ipotesi di falso (in atto pubblico)[4]. Nel nuovo art. 131-bis c.p. sarebbero tuttavia rientrati – anche in virtù dell’autonomo rilievo della fattispecie tentata – quasi tutti i reati volti a prevenire le diverse forme di violenza contro le donne, come, ad esempio, lesioni personali commesse nell’ambito di relazioni affettive, violenze sessuali di minore gravità, atti persecutori e diffusione illecita di immagini e video a contenuto sessualmente esplicito. Mosso dal presumibile intento di evitare che l’effettività del contrasto alla violenza contro le donne potesse essere messo in discussione attraverso il ricorso alla causa di non punibilità per particolare tenuità, il legislatore delegante ha esplicitamente escluso i reati previsti dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne e la violenza domestica dall’ambito di applicazione dell’art. 131-bis c.p. La dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto avrebbe, infatti, rischiato di depotenziare il contributo offerto (anche) dal diritto penale al cambiamento culturale e di portare con sé un’ulteriore forma di vittimizzazione secondaria, in conseguenza della mancata espressione di un chiaro messaggio di riconoscimento dell’offesa subita e di censura per qualsiasi forma (anche lieve) di violenza contro le donne. Nel dare attuazione a questo vincolo, il legislatore delegato introduce eccezioni rispetto a una lunga lista di reati riconducibili alla Convenzione per i reati di cui agli artt. 558-bis, 582 nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 609-bis, 612-bis, 612-ter. L’eccezione non è però circoscritta alle forme di violenza che sono espressione del fenomeno della violenza contro le donne e domestica, come invece la Convenzione di Istanbul avrebbe richiesto. In tal senso, non si vede per quale ragione si escluda l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. in relazione a qualsiasi lesione personale commessa dall’autore di atti persecutori, ad esempio, in ambito condominiale (art. 576, c. 1, n. 5.1 c.p.); oppure nei confronti dell’ascendente o del discendente (art. 577, c. 1, n. 1 c.p.) o realizzata da una donna nei confronti di un uomo nell’ambito (o al termine) di una relazione di coppia (art. 577, c. 1, n. 1 e c. 2 c.p.)[5]. Si tratta di preclusioni assolute che sollevano dubbi di ragionevolezza, perché eccentriche rispetto al riferimento alla Convenzione di Istanbul, e interrogativi sul rispetto della legge delega. La scelta sovra-inclusiva, nell’essere frutto di una concezione di uguaglianza formale apparentemente inderogabile, esprime una neutralità normativa rispetto al genere che rischia di creare equivoci sul reale fondamento dell’opzione legislativa. A prescindere da quest’ampia formulazione, questa preclusione sembrerebbe segnalare, a prima vista, un approccio sensibile al tema della violenza contro le donne. Sarà, tuttavia, sufficiente allargare l’analisi, per giungere alla conclusione opposta. Per un verso, il nuovo art. 131-bis c.p. esclude, per eccesso, fatti estranei alla Convenzione di Istanbul, come quelli appena descritti. Il risultato pratico di questa preclusione senza distinzioni, in relazione al tema della violenza contro le donne, è che una lesione personale (oggi procedibile a querela) commessa da una donna nei confronti del suo partner maltrattante non potrà essere ritenuta di particolare tenuità. Una condanna per lesioni lievi, al pari della “conflittualità di coppia” o della “reciprocità delle offese e delle umiliazioni”, potrebbe costituire un argomento ulteriore per escludere, come accade nella prassi giurisprudenziale, l’integrazione del delitto di maltrattamenti[6]. Per altro verso, la causa di non punibilità può, invece, operare per delitti che possono essere espressione dello stesso fenomeno della violenza contro le donne, come il sequestro di persona e la violenza privata.
3. Il tessuto normativo appare ancora meno coerente se si considera il consistente ampliamento dei reati procedibili a querela, che riguarda esattamente gli stessi fatti: lesioni personali commesse nell’ambito delle relazioni di coppia anche cessate; diffusione illecita di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito; sequestro di persona e violenza privata. Se la finalità perseguita attraverso la preclusione all’accesso alla non punibilità per particolare tenuità del fatto è presumibilmente quella tratteggiata in precedenza, si fatica a comprendere la scelta di estendere la procedibilità a querela a tutte queste ipotesi di reato. La scelta, per sua natura, discutibile di ampliare la procedibilità a querela per questi reati (anche gravi)[7] suscita ulteriori perplessità non solo perché riguarda un fenomeno, come la violenza contro le donne nelle relazioni affettive, che fa fatica a emergere[8] e ad essere riconosciuta nei procedimenti giudiziari[9], ma anche perché questa modifica apre la strada all’applicazione della causa estintiva per condotte riparatorie di cui all’art. 162-ter c.p.[10]. Solo per alcune tipologie di violenza potrà essere esclusa la particolare tenuità, come ad esempio per le lesioni commesse in una relazione affettiva, ma non in relazione alla violenza privata o al sequestro di persona. In ogni caso, il reato potrà essere dichiarato estinto a seguito di un’offerta riparatoria ritenuta congrua dal giudice, senza che la volontà della donna (persona offesa) possa incidere sull’applicazione del meccanismo estintivo di cui all’art. 162-ter c.p. In sintesi: le ragioni della parziale preclusione all’operatività della particolare tenuità del fatto nei casi di violenza contro le donne non sembrano aver assunto rilievo in relazione all’indiretto ampliamento (attraverso l’estensione della procedibilità a querela) dell’ambito di operatività della causa estintiva di cui all’art. 162-ter c.p.: la richiesta di punizione della vittima di questi reati potrà sempre essere sempre negata. L’unica ipotesi, non facilmente giustificabile, in cui è esclusa sia la non punibilità per particolare tenuità del fatto, sia l’estinzione del reato per condotte riparatorie è rappresentata dal delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.). Come si ricorderà, a distanza di sei mesi dall’introduzione della nuova causa estintiva, il legislatore (con la l. 4 dicembre 2017, n. 172) ha escluso tale fattispecie dall’ambito di applicazione dell’art. 162-ter c.p. a seguito, tra l’altro, di una pronuncia del G.u.p. di Torino che aveva dichiarato estinto il reato a fronte di un risarcimento di 1500 euro[11]. Lo stesso esito oggi potrebbe riguardare, tra gli altri, il tanto anelato (e approvato dal Parlamento all’unanimità) delitto di diffusione illecita di immagini e video a contenuto sessualmente esplicito (art. 612-ter c.p.).
4. Insomma: le donne che faticosamente decidono di rivolgersi alla giustizia penale e si trovano spesso a sostenere, da sole, con il loro racconto, nei tempi lunghi del procedimento, il carico emotivo e l’onere probatorio nel processo, riceveranno un messaggio fuorviante. Il fatto di reato, pur astrattamente vietato sotto minaccia di una pena detentiva mediamente elevata, rischia divenire una questione privata. Come è stato autorevolmente osservato, in relazione al meccanismo estintivo di cui all’art. 162-ter c.p., «v’è un evidente “sacrificio della vittima” (che viene «sentita» senza poter bloccare il meccanismo) che, pur avendo evidentemente presentato la querela e pur non avendola rimessa, si vede negata la tutela penale, degradata a quella civile»[12]. Ogni rinuncia alla pena detentiva è senz’altro da accogliere con favore: non solo in ragione delle condizioni disumane della stragrande maggioranza degli istituti penitenziari italiani e della sostanziale assenza di speranze di perseguire la finalità rieducativa della pena, ma anche perché l’esecuzione della pena detentiva non favorisce (e semmai pregiudica) la tutela, a posteriori, degli interessi offesi. Anziché scommettere sulla pena detentiva, si sarebbe potuto potenziare, in modo più coerente, la partecipazione ai programmi per maltrattanti, per valutarne, in modo più compiuto, gli effetti special-preventivi. Non si ritiene che il legislatore delegato avrebbe ecceduto i limiti della delega, se avesse previsto la prescrizione di partecipare a tali programmi in relazione alle pene sostitutive inflitte nei casi di violenza contro le donne.
[1] Per un’ampia analisi di ogni aspetto toccato dalla riforma cfr. D. Castronuovo, M. Donini, E.M. Mancuso, G. Varraso, Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, Milano, 2023.
[2] S. Cazzola, Le nuove pene sostitutive e il contrasto alla violenza di genere, in questa Rivista, 28 novembre 2023.
[3] D. Brunelli, Le modifiche alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2023, 1, p. 54 ss.
[4] Si veda, a tal proposito, G.L. Gatta, La Cassazione e il furto (tentato) di una melanzana: tra tenuità del fatto e patologie della giustizia penale, in Dir. pen. cont., 3 aprile 2018.
[5] Sulle profonde differenza tra criminalità maschile e femminile cfr. C. Pecorella, M. Dova, Donne e uomini davanti alla giustizia penale: un’indagine empirica presso il Tribunale di Milano, in Quest. Giustizia, 4/2022, p. 98 ss.
[6] V. C. Pecorella, M. Dova, La violenza nelle relazioni affettive: uno sguardo sulle prassi giudiziarie in Lombardia, in C. Pecorella (a cura di), Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie, Giappichelli, 2021, p. 94.
[7] G. Dodaro, Le modifiche alla disciplina della querela, in Dir. pen. proc., 1/2023, p. 63 ss.
[8] C. Pecorella, P. Farina, La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi, in Dir. pen. cotn. - Riv. Trim., n. 2/2018, p. 190 ss.
[9] Come confermato dalla giurisprudenza delle Corte di Strasburgo: v. M. Falcone, La giurisprudenza della C. Edu. in materia di protezione delle donne vittime di violenza domestica. Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 2/2023, in questa Rivista, 13 aprile 2023.
[10] Si veda C. Grandi, L’estinzione del reato per condotte riparatorie. Profili di diritto sostanziale, in Legisl. pen., 13.11.2017.
[11] Reperibile al seguente indirizzo: https://www.altalex.com/documents/news/2017/10/11/stalking.
[12] Così F. Palazzo, La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente, in questa Rivista, 19 dicembre 2019, par. 6.