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13 Aprile 2023


Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 2/2023 - La giurisprudenza della C. Edu. in materia di protezione delle donne vittime di violenza domestica


Coordinamento scientifico: Claudia PecorellaElena BiaggioniLuisa BontempiElisabetta CaneviniNoemi CardinalePaola Di Nicola TravagliniMassimiliano DovaFrancesca GaristoFabio Roia

 

La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di protezione delle donne vittime di violenza domestica

di Maria Falcone

 

1. Nell’arco di tempo compreso tra gennaio e novembre 2022, la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata sull’inadeguata protezione offerta dallo Stato italiano alle donne vittime di violenza domestica in ben cinque casi. Volendo tracciare il profilo dell’intervento della Corte EDU nei confronti dell’Italia, deve anzitutto evidenziarsi che nel sistema convenzionale di tutela dei diritti, la protezione delle donne vittime di violenza domestica si inserisce nel più vasto quadro di protezione rafforzata che la Corte si propone di garantire a tutti i soggetti che si trovino in condizioni di particolare vulnerabilità, per qualità intrinseche o situazioni di contesto[1]. Nei confronti di tali soggetti, ogni Stato ha l’obbligo di predisporre misure di tutela rafforzate al fine di assicurare loro, secondo una prospettiva di riequilibrio sostanziale, una protezione maggiore in considerazione della loro più elevata esposizione a condotte pregiudizievoli per la persona e la dignità umana[2].

 

2. Le sentenze pronunciate nei confronti dell’Italia possono essere raggruppate in due filoni in ragione del loro diverso oggetto. Il primo filone riguarda le decisioni relative alle valutazioni compiute dall’autorità giudiziaria italiana in tema di capacità genitoriale di madri vittime di violenza domestica, mentre il secondo fa riferimento ai casi di inerzia o ritardo della magistratura italiana nella concessione di misure di protezione in favore di donne vittime di violenza domestica.

 

3. La Corte di Strasburgo si è pronunciata sul tema della valutazione della capacità genitoriale di madri vittime di violenza domestica in relazione ai ricorsi D.M. e N. e I.M. e altri c. Italia, condannando in entrambi i casi l’Italia per violazione dell’art. 8 della CEDU, che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Nel primo caso la Corte ha censurato la dichiarazione dello stato di adottabilità di una minore perché fondata su una superficiale valutazione della capacità genitoriale della madre[3], e si è così assicurata protezione all’interesse della minore a crescere in un ambiente sano e all’interesse della madre a mantenere in piedi il legame familiare; nel secondo caso, i giudici hanno invece ritenuto ingiustificata la sospensione della responsabilità genitoriale di una madre, che era stata giudicata genitore ostile al ristabilirsi del rapporto padre-figlio[4], considerando il c.d. diritto alla bigenitorialità del padre prevalente sul superiore interesse del minore. Per quanto qui rileva, deve osservarsi che i giudici di Strasburgo hanno rimproverato le autorità giudiziarie italiane per non aver preso in considerazione la situazione di violenza domestica cui erano state esposte le ricorrenti. Oltre a ciò, nel primo dei due casi, secondo la Corte, la valutazione della capacità genitoriale da parte del giudice italiano risultava fondata su considerazioni non pertinenti e stereotipate, come nel caso J.L. c. Italia[5], nel quale tuttavia stereotipato era soprattutto il linguaggio.  

 

4. La pronuncia D.M. e N. trova un suo precedente nella causa Zhou c. Italia[6], che riguardava una decisione relativa allo stato di adottabilità di un minore. È da notare tuttavia la rilevanza che nella pronuncia più recente assume la mancata considerazione della condizione di vulnerabilità della madre e del carattere insidioso della violenza domestica, quale fenomeno capace di spiegare la sua portata pregiudizievole ben oltre la dinamica relazionale vittima-aggressore.

 

5. Nei casi Landi, De Giorgi e M.S. c. Italia, invece, la Corte EDU si è pronunciata sull’ineffettività e sulla tardività della risposta istituzionale delle autorità italiane dinanzi a plurime richieste di aiuto avanzate da donne vittime di violenza domestica. In particolare, nel caso Landi – la cui nota distintiva sul piano fattuale si ravvisa nel fatto che gli atti di violenza esitarono nel tentato omicidio della ricorrente e nell’omicidio di suo figlio –, la Corte ha accertato una violazione dell’art. 2 della CEDU, mentre nei casi  De Giorgi e M.S., i giudici hanno ricondotto la condotta inosservante dello Stato italiano ad una violazione dell’art. 3 della CEDU.

 

6. In base ai principi sanciti dalla Grande Camera nel caso Kurt c. Austria, la Corte muove un rimprovero alla magistratura italiana, per non aver reagito tempestivamente alle denunce di violenza domestica e per non aver adottato misure di protezione adeguate e proporzionate, pur essendo a conoscenza o quantomeno dovendo conoscere il rischio reale e immediato di reiterazione delle condotte violente (e, nel caso Landi, il rischio per la vita della ricorrente e dei suoi figli). Perché possa scongiurarsi la violazione di una delle disposizioni convenzionali citate, è necessario che le autorità conducano una valutazione del rischio completa, autonoma, proattiva ed esaustiva, nonché calibrata alla luce delle peculiarità del fenomeno della violenza domestica, e che procedano, laddove emerga un rischio reale e immediato, all’adozione di misure operative preventive, adeguate e proporzionate al livello di rischio rilevato.

 

7. La Corte fornisce un’indicazione circa gli elementi indizianti dell’esistenza del rischio ripetuto di atti di violenza, menzionando «i precedenti di comportamento violento dell’autore e il mancato rispetto dei termini di un’ordinanza di protezione, l’escalation della violenza che rappresenta una minaccia continua per la salute e la sicurezza delle vittime, le richieste di aiuto ripetute dalla vittima per mezzo di appelli urgenti, nonché le denunce formali e petizioni rivolte al capo della polizia»[7]. Oltre a ciò, nelle pronunce De Giorgi e M.S., discutendosi di una violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte qualifica in termini di diligenza anche l’obbligo di condurre indagini effettive in relazione ai casi di violenza domestica, evidenziando come la mancata conduzione delle stesse equivalga a consentire l’impunità degli atti di violenza. Il riferimento alla sostanziale creazione di un contesto di tolleranza o collusione dell’autorità rispetto agli atti di violenza evoca quanto la Corte aveva già affermato nella sentenza Talpis c. Italia, nel cui solco si inseriscono le pronunce Landi, De Giorgi e M.S.

 

8. Diversamente dalla pronuncia Talpis, tuttavia, nei casi decisi più di recente la Corte non ravvisa una violazione dell’art. 14 della CEDU, escludendo che la mancata protezione delle donne vittime di violenza domestica abbia integrato un trattamento discriminatorio fondato sul sesso. Facendo applicazione dei principi enunciati nei casi Opuz c. Turchia e Volodina c. Russia, la Corte ritiene che non siano stati dedotti elementi utili a fornire un inizio di prova circa la sussistenza di una passività generalizzata nella protezione offerta dallo Stato italiano alle donne vittime di violenza domestica (pregiudizio strutturale) ovvero di una specifica intenzione discriminatoria delle autorità inquirenti coinvolte (pregiudizio individuale).

 

9. La Corte EDU riconosce i progressi compiuti dall’Italia nella lotta alla violenza domestica negli ultimi anni; le sentenze in esame, tuttavia, danno prova del fatto che la Corte di Strasburgo continua ad imputare all’Italia condotte inosservanti degli obblighi convenzionali. Ciò trova conferma anche nel fatto che lo stato di esecuzione della sentenza Talpis, pronunciata ormai sei anni fa, non è stato ancora dichiarato concluso. In particolare, nel corso dell’ultima riunione di monitoraggio, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha rilevato l’opportunità di proseguire la supervisione dell’esecuzione della sentenza Talpis, in ragione della necessità di garantire che l’Italia dia effettiva attuazione al quadro giuridico predisposto a tutela delle donne vittime di violenza domestica.  

 

10. Le principali criticità che destano la preoccupazione del Comitato dei Ministri sono peraltro le stesse ravvisate dal Comitato GREVIO nel primo rapporto sullo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia e trovano emblematico riscontro in tutte le vicende sopra esaminate. Nello specifico, tali criticità consistono in una prassi diffusa fatta di: mancata considerazione degli episodi di violenza domestica nelle decisioni civili concernenti la custodia o i diritti di visita; mancato coordinamento tra giustizia civile e penale; inadeguatezza delle procedure di valutazione del rischio, che non risultano esaustive in quanto non fondate su checklist standardizzate o best practices; nonché assenza di formazione specifica degli attori istituzionali coinvolti nei processi valutativo-decisionali[8]. In definitiva, pur a fronte di un quadro giuridico astrattamente idoneo ad assicurare una protezione effettiva delle donne vittime di violenza domestica, l’inadeguatezza rispetto agli standard convenzionali della tutela offerta loro dall’Italia si risolve in larga misura in un problema di valutazione: valutazione delle specificità del fenomeno della violenza domestica, delle sue ripercussioni nelle dinamiche familiari e del rischio di reiterazione degli episodi violenti.

 

 

[1] La nozione di vulnerabilità è una nozione aperta e flessibile, ma sono ormai consolidati quegli indirizzi giurisprudenziali che riconducono nella categoria dei soggetti vulnerabili le donne vittime di violenza domestica, ma anche i minori, i disabili, i richiedenti asilo, i soggetti affetti da HIV, i rom, i detenuti e gli altri soggetti in relazione ai quali sia ravvisabile una condizione di dipendenza derivante dal rapporto con terzi o con lo Stato. Si veda E. Diciotti, La vulnerabilità nelle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Ars interpretandi, 2, 2018, pp. 13 ss.

[2] In tal senso, è chiara l’affermazione di principio contenuta nella sentenza Corte EDU, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, ricorso n. 41237/14, (§ 99). A commento della sentenza Talpis, si vedano R. Casiraghi, La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Diritto penale contemporaneo, 3, 2017, pp. 378 ss., nonché R. Conti, Violenze in danno di soggetti vulnerabili, tra obblighi (secondari) di protezione e divieto di discriminazione di genere, in questionegiustia.it, 23 marzo 2017.

[3] Più diffusamente sul punto si richiama N.M. Cardinale, in questa Rivista.

[4] A commento della pronuncia Corte EDU, 10 novembre 2022, I.M. e altri c. Italia, ricorso n. 25426/20, si veda S. Vitti in questa Rivista.

[5] Si tratta della sentenza Corte EDU, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia, ricorso n. 5671/16, a commento della quale si richiama N.M. Cardinale, pubblicato in questa Rivista.

[6] A commento della pronuncia Zhou c. Italia si veda E. Rizzato, Corte Edu: adozione e diritto al rispetto della vita familiare, in questionegiustizia.it, 18 luglio 2014.

[7] Si vedano rispettivamente i paragrafi 88, 76 e 123 delle sentenze Landi, De Giorgi e M.S.

[8] Delle lacune nella formazione specialistica specie delle autorità giudiziarie si dà conto anche in E. Canevini, Il ragionamento giuridico stereotipato nell’assunzione e nella valutazione della prova dibattimentale, in Questione Giustizia Rivista Trimestrale, 4, 2022, pp. 74 ss. Più in generale, sulle ragioni sistemiche e culturali che fondano le criticità menzionate, si veda M. Monteleone, L’insostenibile “inadeguatezza” del contrasto giudiziario alla violenza di genere, in Questione Giustizia Rivista Trimestrale, 4, 2022, pp. 64 ss.