Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni altra forma di violenza di genere ha svolto un’indagine relativa agli anni 2016/2018 (cioè prima dell’approvazione della legge 69/2019 c.d. Codice Rosso) per accertare, sotto il profilo quantitativo, quali siano state le formule organizzative e il tasso di formazione e specializzazione degli operatori giudiziari nel contrasto alla violenza contro le donne.
I dati del rapporto sono fondati sulla risposta ricevuta ai questionari somministrati a Procure, Tribunali, Csm, Scuola Superiore della Magistratura, Consiglio Nazionale Forense e Ordini degli Psicologi.
In sintesi risulta che le Procure della Repubblica sono quelle più formate, eccetto che nel 10,1% dei casi: il 12 % si colloca ad un livello qualitativo molto alto di risposta al fenomeno, mentre la parte maggioritaria evidenzia diversi stadi di avanzamento o di criticità.
Situazione più carente è quella dei tribunali, con particolare riguardo a quelli civili che:
- solo nell’8,5% risulta “attento alla materia e coerente nell’azione”;
- nel 95% dei casi non è stato in grado di quantificare i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardanti i figli;
- solo nel 9 % dei tribunali si acquisiscono gli atti del procedimento penale quando emergono violenze.
Inoltre, nei Tribunali civili risulta diffusa la nomina di consulenti privi di specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica ed è irrisorio il numero degli ordini di protezione rispetto all’estensione della violenza (40 nel 2016, 53 nel 2017 e 68 nel 2018).
Questo fa concludere per l’invisibilità del fenomeno presso l’Autorità giudiziaria civile.
Con specifico riferimento ai tribunali di sorveglianza è emerso che solo l’11% acquisisce sempre le informazioni dalle persone offese ai fini della concessione dei benefici penitenziari (permessi premio e semilibertà), dal che consegue che quasi nel 90% dei casi la mancata stabile e certa interlocuzione con la vittima può metterne a rischio la sicurezza, a fronte di reati connotati da un alto tasso di recidiva.
Il capitolo quattro del Rapporto, dedicato alla formazione degli operatori, segnala che con riferimento all’Autorità giudiziaria “l’offerta formativa appare, nel complesso, piuttosto carente” visto che la Scuola Superiore della Magistratura nel triennio 2016/2018 ha organizzato 6 corsi in materia di violenza di genere e domestica (di cui nessuno rivolto solo al settore penale), per il 5% di magistrati/e, costituito in gran parte da donne (il 67%) rispetto agli uomini (il 33%) e da magistrati/e delle Procure rispetto ai giudici. Più significativo è stato l’impegno formativo a livello locale in cui sono state organizzate 25 attività con un coinvolgimento del 13% della magistratura.
Con riferimento all’avvocatura è emerso che nel triennio sono stati organizzati “più di 100 eventi in materia”, con la partecipazione di oltre 1000 avvocati su un totale di 243.000 di cui oltre l’80% donne, in maggioranza civiliste.
Infine, gli psicologi, soggetti divenuti nel tempo sempre più significativi come consulenti nei procedimenti riguardanti la violenza di genere e domestica, specie in sede civile, hanno mostrato gravissime carenze nella formazione, visto che nel 2016 sono stati organizzati 8 eventi formativi sulla materia, mentre 24 per anno nel 2017 e nel 2018.
In conclusione, sulla base di questi inequivoci numeri, la Commissione rileva che, aldilà di singole ed isolate realtà, la specializzazione e la formazione degli operatori giudiziari, complessivamente intesi, nei reati di violenza contro le donne è risultata gravemente lacunosa cosicché il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul può dirsi solo avviato.