Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
Pubblichiamo il seguente contributo ritenendolo un apporto prezioso per chi si occupa di violenza di genere e sempre più si trova ad operare in un procedimento che influenza ed è influenzato dagli accadimenti del parallelo procedimento civile o minorile. Infatti, emerge in tutta evidenza l’importanza dell’accertamento della responsabilità penale, e soprattutto dei tempi di tale accertamento, per le decisioni in sede civile e minorile.
La valutazione delle competenze genitoriali da parte dei CTU in situazioni di violenza domestica: un’indagine empirica di Mariachiara Feresin, Marianna Santonocito e Patrizia Romito.
Scopo di questo studio qualitativo è di indagare le conoscenze, le opinioni e il modus operandi dei CTU chiamati a valutare le capacità genitoriali nei casi di affidamento dei figli in situazioni di violenza domestica[1]; a tal fine sono state condotte interviste semi-strutturate con 15 CTU. Il campione intervistato è composto da 15 professionisti (13 psicologi e 2 psichiatri; 8 donne e 7 uomini), con esperienza come CTU da 2 a 22 anni (media 13,5 anni). I professionisti erano tutti italiani, di un'età compresa tra 50 e 60 anni per le donne e tra 40 e 50 anni per gli uomini; 9 sono stati individuati attraverso gli elenchi o albi presenti nei Tribunali nel Nord Italia; 6 tramite il passaparola di esperti già intervistati. I dati sono stati raccolti nel corso del 2018. Lo studio è stato condotto secondo le linee guida per la ricerca in psicologia pubblicate dall'Associazione Italiana di Psicologia (2015) ed è stato approvato dal Comitato Etico dell’Università di Trieste.
I risultati. Il processo di formazione dei CTU intervistati è frammentato e diversificato. I requisiti per svolgere il ruolo di CTU sono generici e diversi da Tribunale a Tribunale. Alcuni CTU intervistati hanno frequentato corsi di specializzazione in psicologia giuridica con durate diverse ma senza un percorso accademico specifico; altri hanno frequentato master in criminologia e psicologia giuridica; altri ancora hanno sviluppato le loro competenze, come afferma uno di loro, "on the road", con esperienze acquisite negli anni. Non è richiesta una formazione specifica sulla protezione dei minori e la violenza domestica per diventare un CTU o per effettuare la valutazione delle competenze dei genitori.
CT10: “Non ho fatto corsi di psicologia giuridica, io ho fatto on the road … la formazione l’ho fatta sul campo, direttamente insomma, e questo mi ha permesso di entrare in tutte le dinamiche”. .
CT3: “Ho fatto solo un master in psicologia giuridica”.
CT8: “Mentre stavo preparando l’esame di Stato ho fatto un corso di un anno di durata, calcola da Gennaio a Novembre, e ho preso il diplomino proprio di Psicologia giuridica”.
In caso di separazioni conflittuali, i giudici possono nominare un CTU per valutare le capacità genitoriali e la capacità della coppia di cooperare per assicurare il miglior interesse del bambino. Questi aspetti vengono però spesso trascurati: dalle interviste emerge come i CTU tendano a non valutare la capacità concreta dei genitori di cooperare per crescere i figli. Più spazio è dedicato invece all'importanza simbolica della bigenitorialità, che va tutelata sempre e comunque, anche in situazioni di violenza domestica. In particolare, dai racconti dei CTU, viene evidenziata l’importanza della figura del padre per lo sviluppo sano del bambino, importanza che risiede più in ciò che il padre simbolicamente rappresenta che in ciò che costui effettivamente fa[2].
CT11: “Penso sia fondamentale (…) qualsiasi persona ha un valore legato alla madre e uno al padre, se viene a mancare una delle due componenti ci sono problemi (…) se il padre è violento sempre e comunque, cioè nel senso che comunque questo padre può rappresentare una fase ideale o idealizzante che va mantenuta nel bambino e bisogna stare attenti di non rompere la fase idealizzata (…) il contatto con il padre violento significa che io non vado a sradicare parti di me (…) non è negativo il padre ma può avere degli elementi che vengono metabolizzati e considerati, bisogna controllare e gestire la situazione ovviamente ma chi va a togliere totalmente un padre violento fa una lobotomia”.
L'esposizione dei bambini alla violenza domestica porta a gravi conseguenze, tra cui problemi emotivi, comportamentali, fisici, sociali e scolastici[3]. Tuttavia, 12 dei 15 CTU intervistati sostengono con convinzione che la crescita sana dei bambini debba includere due genitori, anche se uno di loro è violento.
CTU9: “Penso che una crescita adeguata del bambino possa avvenire solo se ha la possibilità di rapportarsi insieme al padre e anche alla madre”.
CTU6: “Penso che un bambino abbia il diritto e il bisogno di entrambe le figure genitoriali; togliere una figura di riferimento ad un bambino può portare a danni irreversibili”.
Queste credenze denotano una scarsa conoscenza delle dinamiche e delle conseguenze della violenza domestica. Solo 3 dei 15 CTU intervistati riconoscono che la bigenitorialità, in un contesto violento, diventa un diritto dei genitori più che dei bambini. Riconoscono inoltre che queste situazioni causano sofferenza nei bambini che alla fine sperimentano senso di colpa, vergogna e sfiducia negli altri.
CTU13: “I bambini sono così veramente emotivamente inibiti cioè la paura di dire qualsiasi cosa, io da che parte devo stare, se sto da una parte propendo per uno o per l’altro e non è adeguato e sono veramente bambini che soffrono moltissimo quindi se posso darti il mio punto di vista rispetto alla bigenitorialità e rispetto a questo io penso che sono due concetti costruiti, pensati e proposti come se fossero costrutti a favore e a tutela dei bambini dove invece i bambini non esistono, scompaiono completamente dalla visuale perché questi sono diritti dei genitori”.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che la violenza nelle relazioni di intimità e la violenza sessuale sono caratterizzate da una forte connotazione di genere: anche se queste violenze possono colpire chiunque, la maggioranza di coloro che le subiscono sono donne e la maggioranza di coloro che le perpetrano sono uomini[4]. I dati dei processi che si sono svolti nel Tribunale di Milano nel 2016 hanno mostrato che il 94% delle vittime di maltrattamenti contro familiari e conviventi erano donne; il 92% delle vittime di violenza sessuale erano donne; e il 77% delle vittime di stalking erano donne[5]. Le nostre interviste tuttavia rilevano la presenza di pregiudizi e false credenze: alcuni intervistati sostengono che le donne sono altrettanto o più violente degli uomini; inoltre, se una donna viene maltrattata o uccisa, ha una parte di responsabilità. Alcuni degli intervistati sembrano anche ignorare il lavoro analitico che ha portato alla concettualizzazione dei costrutti di “violenza di genere”, "violenza domestica" e “femminicidio”, e considerano sbagliato parlare di "violenza maschile contro le donne" perché “anche gli uomini sono maltrattati”.
CT7: “È vero che le donne hanno una grande capacità di pungolare i fianchi fino a farti impazzire, se facessimo una ricerca tra gli uomini di questo tipo, dio se ne salvi, perché guai farla ma in realtà le assicuro che verrebbero fuori belle notizie, di uomini che non vogliono ad esempio neanche sentire più parlare di donne perché hanno paura, panico solo a quello che possono subire (…) se mettiamo invece come violenza anche la capacità di farti sbarellare, insomma di farti perdere la bussola, di riordinarti il senso e il piacere della vita beh il femminile non scherza”.
CT10: “Io credo che esista anche una violenza femminile nei confronti dell’uomo (…) gli uomini violenti esistono assolutamente però le donne devono avere le capacità di identificare e di chiedere aiuto (…) ci sono quelle situazioni in cui ad un certo punto qualcuno si scompensa e perde la testa, queste sono le situazioni in cui uno dei due soggetti in questo caso mi riferisco all’uomo, ad un certo punto messo in una condizione particolare di sofferenza psichica perde la testa e fa delle cose efferate”.
La Sindrome d’Alienazione Parentale (SAP) e l’Alienazione Parentale (AP) sono concetti controversi, criticati da esperti in tutto il mondo. Anche in Italia, queste pseudo-teorie sono frequentemente citate nelle aule dei tribunali[6]. Secondo alcuni degli intervistati, quando una donna decide di separarsi dal partner e denuncia la violenza subita, lo fa per vendetta; e se i bambini non vogliono vedere il padre, è a causa della manipolazione materna. Così, le madri vengono colpevolizzate e la voce dei bambini viene ignorata.
CT9: “Una situazione tipica è quella della madre che ottiene l’affidamento esclusivo del figlio perché ha portato il bambino a provare un rifiuto verso la figura paterna (…) dice qualsiasi cosa per convincere il bambino che quello è un padre che non merita di avere un rapporto con lui (…) un padre innocente è costretto a non vedere il figlio perché la madre l’ha portato a credere queste cose solo per il fatto che lei non ha superato la separazione”.
CT7: “(SAP) è la tendenza da parte di un genitore di creare una forma di lealtà con il figlio quindi di portarlo a sé e fare in modo che aderisca all’idea che l’altro genitore ha qualcosa di malvagio, di brutto, di cattivo”.
Il focus sulle “situazioni di alto conflitto” e “alienazione parentale” oscura, di fatto, anche la possibilità di un abuso sessuale paterno.
CT6: “(AP) È un fenomeno che è presente, ha una certa frequenza e spesso lo si trova al termine di una separazione altamente conflittuale che sfocia con … mi capita di vederla in due ambiti, in ambito penale quando solitamente il papà viene accusato di violenza sessuale quindi siamo all’apice di un percorso di alienazione genitoriale e quindi scatta da parte della madre l’induzione sul minore di una denuncia di violenze a danno del padre oppure mi capita di vederla nelle consulenze per la valutazione della genitorialità”.
Le false accuse durante il periodo di separazione sono uno dei temi emersi più di frequente dalle interviste. Secondo questa credenza, le madri denunciano gli ex-partner per abusi sessuali sui figli sostanzialmente per vendetta. Di conseguenza, queste accuse di abuso sessuale devono essere interpretate come false. Nonostante i dati empirici smentiscano questo mito[7], alcuni intervistati vi aderiscono.
CT14: “Il problema delle false denunce è un problema drammatico (…) questo problema delle false denunce che è frequentissimo, purtroppo nelle separazioni conflittuali vengono usate come arma”.
Il fatto che una denuncia di violenza venga respinta in sede penale o che l'imputato venga assolto porta i professionisti a ritenere l’accusa falsa:
CT9: “Ho avuto esperienze di mamme che nelle cause di separazione spendono anche questa carta per verificare le capacità genitoriali del marito, guarda che comunque è aggressivo, mi ha mandato all’ospedale (…) in questo senso sì, ho visto situazioni dove il marito veniva accusato un po' di tutto quasi sempre ingiustamente (…)”.
Per un intervistato, la violenza subita da una donna è credibile solo quando l'aggressore ha ricevuto una condanna penale.
CT14: “Io definisco un genitore violento se ha una condanna penale altrimenti non lo posso definire tale (…) io per essere certo della presenza di violenza voglio la condanna penale, se non viene emessa una sentenza per me la violenza non esiste”.
Affermazioni come queste sono incompatibili con la realtà, e questo diventa chiaro se analizziamo i dati sulla durata dei procedimenti nei tribunali italiani. Un’indagine condotta dall’Istituto nazionale di statistica per l’anno 2016 ha rilevato che per i reati di violenza sessuale, il tempo medio tra la data di commissione del reato e la sentenza di primo grado varia dai 23 ai 29 mesi ed è di circa 60 mesi per le sentenze di secondo grado. Per il reato di maltrattamento/abuso/violenza in famiglia, il tempo per arrivare alla sentenza definitiva è in media di 37 mesi. Infine, per il reato di stalking, sono stati necessari dai 2 ai 3 anni per arrivare alla condanna[8].
Anche le voci dei bambini non vengono ascoltate e o sono considerate inaffidabili.
CTU14: “Non puoi assumere il bambino come testimone di un fatto storico (…) si da troppo peso a quello che dice il bambino perché come dicevo non vuol dire che se un bambino dice che non vuole vedere il padre lo dice sicuramente perché il padre gli fa del male”.
Solo due intervistati hanno avuto un approccio diverso rispetto ai racconti dei bambini e hanno evidenziato gli effetti del trauma dell'abuso sessuale sulla memoria.
CTU3: "Il trauma dell’abuso sessuale significa collocare il bambino nel momento in cui è stato abusato (…) è un evento devastante (…) si è sviluppata una psicologia a favore dell’imputato dell’abuso sessuale che chiede un tipo di ricordo che sia un tipo di ricordo valutabile, un tipo di ricordo perfetto che un bambino non potrà mai e poi mai raccontare”.
Uno dei primi passi da compiere, nell’effettuare la valutazione, dovrebbe essere quello di verificare l’eventuale presenza di violenza nel contesto familiare, seguendo le indicazioni dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul: “1. Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”. Dal combinato disposto dell’art. 31 e dell’art. 15 (dedicato alla formazione professionale) della Convenzione emerge inoltre che i professionisti hanno la responsabilità di informarsi sulle dinamiche della violenza domestica, di lavorare con le madri per creare e attuare piani per migliorare la loro vita e quella dei loro figli, e di considerare gli autori responsabili dei loro atti violenti. Tuttavia, a quattro anni dalla ratifica della Convenzione (le interviste sono state svolte nel corso del 2018) questo potente strumento è ancora poco conosciuto.
CTU6: “Allora cos'è la Convenzione di Istanbul? Mi ricordi l’anno? Perché personalmente ne so molto poco, non l’ho studiata molto quindi ammetto la mia ignoranza in materia. Devo dirvi che devo ricominciare a studiare”.
CTU7: “Non conosco questa convenzione; non l'ho mai studiata. So per nome che esiste, ma non ne so nulla”.
CTU3: “Non so cosa sia. Non lo so”.
CTU2: “Non so nemmeno di cosa stia parlando”.
Osservazioni conclusive. Questo studio ha il limite di aver utilizzato un piccolo campione e quindi bisogna essere prudenti nel generalizzare i risultati. Tuttavia, questo è il primo studio in Italia ad esplorare le conoscenze, le credenze e il modus operandi dei Consulenti Tecnici d’Ufficio nei casi di affidamento in presenza di violenza domestica. I risultati di questa ricerca, in accordo con altri studi internazionali[9], hanno mostrato che molti dei professionisti intervistati presentano forti pregiudizi nei confronti delle donne, spesso colpevolizzate e ulteriormente vittimizzate.
Un altro elemento che emerge dalle interviste riguarda la caratterizzazione delle madri come "alienanti”, soprattutto nei casi in cui denuncino l’ex partner di abusi sessuali sui figli. Anche in questo caso vanno ricordati i dati di ricerche che evidenziano come, in presenza di violenza del partner sulla madre, il rischio di abusi sessuali paterni su figlie/i aumenti fino a 5 volte[10]. L'adesione da parte dei CTU a modelli controversi come l’Alienazione Parentale, una scarsa conoscenza della violenza domestica e delle leggi pertinenti (come, per esempio, la Convenzione di Istanbul) porta i CTU a non riconoscere, negare o occultare la violenza nelle loro relazioni, relazioni che poi verranno fornite ai giudici.
In Spagna, recentemente, il Senato ha approvato il testo di una legge organica per proteggere i bambini e gli adolescenti dalla violenza. Questa legge include un esplicito divieto di usare la SAP nei tribunali. La legge impone alle autorità pubbliche di prendere le misure necessarie per “prevenire” quelli che possono essere considerati “approcci teorici o criteri senza supporto scientifico che presumono l'interferenza o la manipolazione degli adulti, come la cosiddetta sindrome di alienazione parentale”.[11] In Italia, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’affidamento esclusivo di un bambino ad un genitore non può basarsi solo sulla diagnosi di teorie di alienazione parentale e che la condotta materna imputabile alla SAP non costituisce un fatto non pregiudizievole per il bambino[12].
La necessità di una formazione specialistica che coinvolga i servizi per le vittime di violenza (in Italia i Centri Antiviolenza) è sottolineata sia dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità[13] che dalla Convenzione d’Istanbul; anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, nel suo Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria ha fortemente sottolineato la necessità di formazione (p. 32). Si tratta di un passo necessario per dare delle risposte appropriate alle situazioni di affido dei bambini in casi di violenza domestica.
[1] Studi internazionali mostrano la complessità di questo a valutazione: i giudici spesso optano per l’affido condiviso anche in presenza di violenza domestica nei confronti della madre (Bancroft, L., Silverman, J, The batterer as parent: addressing the impact of domestic violence on family dynamics, II ed., 2012, Sage; Jeffries, S., In the best interests of the abuser: Coercive control, child custody proceedings and the “expert” assessments that guide judicial determinations, in Laws, 2016, 5, 1–14); a volte i bambini vengono sottratti alle loro madri e affidati a padri violenti (Meier J.S., A historical perspective on parental alienation syndrome and parental alienation, in Journal of Child Custody, 2009, 6(3–4), 232–257; Silberg, J., Dallam, S., Abusers gaining custody in family courts: A case series of over turned decisions, Journal of child custody, 2019, 16(2), 140-169). Nei procedimenti di affidamento dei bambini, spesso le donne sono valutate e giudicate da professionisti che non tengono conto della storia di violenza e cercano invece di massimizzare l'accesso dei padri ai bambini (Meier, J.S., Dickson, S., Mapping gender: shedding empirical light on family courts’ treatment of cases involving abuse and alienation, in Law & inequality, 2017, 35(2), 311–334).
[2] Questo approccio è in linea con alcune teorie psicoanalitiche che sostengono il “principio del padre sufficientemente buono” (Jones K., The role of father in psychoanalytic theory: historical and contemporary trends, in Smith College studies in social work, 2005, 75(1), 7–28; Recalcati M., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna. RaffaelloCortina Editore, Milano, 2011), secondo cui la presenza della figura paterna, anche se violenta, è considerata essenziale per uno sviluppo sano e armonico del bambino.
[3] Cfr. ad esempio, McTavish et al., Children’s exposure to intimate partner violence: An overview, in International Review of Psychiatry, 2016, 28, 504–518.
[5] Roia F., Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche. FrancoAngeli, Milano, 2017.
[6] Questo costrutto è stato sviluppato nel 1985 da Richard Gardner ed è stato concettualizzato come una sindrome che si verifica quando un bambino rifiuta il contatto con il genitore non affidatario (nella maggior parte dei casi il padre): cfr. Gardner R.A., Recent trends in divorce and custody litigation, in Academy Forum, 1985, 29(2), 3–7.1985. Molti studiosi e professionisti hanno criticato questo concetto, che però è tuttora frequentemente usato nelle aule dei tribunali, in particolare nei casi in cui le donne decidono di separarsi dai loro partner violenti, denunciano la violenza e cercano di proteggere i loro figli: v. Meier et al., Child custody outcomes in cases involving parental alienation and abuse allegations, in GWU Law School Public Law Research Paper, No. 2019-56; Feresin M., Parental alienation (syndrome) in child custody cases: survivors’ experiences and the logic of psychosocial and legal services in Italy, in Journal of Social Welfare and Family Law: doi:10.1080/09649069.2019.1701924; Casas Vila G., Parental alienation syndrome in Spain: opposed by the government but accepted in the courts, in Journal of Social Welfare and Family Law, 2020, 42, 1; Lapierre et al., The legitimization and institutionalization of ‘parental alienation’ in the Province of Quebec, in Journal of Social Welfare and Family Law, 2020, 42, 1.
[7] Cfr. ad esempio, Trocmé N., Bala N., False Allegations of Abuse and Neglect when Parents Separate, in Child Abuse and Neglect, 2005, 29(12), 1333-45; Meier J.S. et al., Child custody outcomes in cases involving parental alienation and abuse allegations, in GWU Law School Public Law Research Paper, No. 2019-56.
[8] ISTAT (2018) disponibile in: https://www4.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-percorso-giudiziario/condanne
[9] Cfr. Dragiewicz M., Gender bias in the courts: Implications for battered mothers and their children, in Family and intimate partner violence quarterly, 2012, 5(1): 13-35; Rivera E.A. et al., Secondary victimization of abused mothers by family court mediators, in Feminist Criminology, 2012, 7, 234–252.
[10] Finkelhor D. et al., The Victimization of Children and Youth: A Comprehensive, National Survey, in Child Maltreatment, 2005, 10 (1), pp. 5-25; OMS (2010), Preventing intimate partner, cit.
[11] Ley Orgánica 8/2021, de 4 de junio, de protección integral a la infancia y la adolescencia frente a la violencia. Disponibile in: https://www.boe.es/eli/es/lo/2021/06/04/8/con
[12] Cfr. Cass. 16 maggio 2019 n.13274 e Cass. 17 maggio 2021 n.13217. In altri casi, tuttavia, la Cassazione ha basato le sue decisioni sul costrutto della SAP: si vedano ad esempio Cass. 8 aprile 2016 n.6919 e Cass. 19 maggio 2020 n. 9143.
[13] Cfr. De Girolamo, G., Romito, P. (a cura di), Come rispondere alla violenza del partner e alla violenza sessuale contro le donne. Orientamenti e linee-guida cliniche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Fioriti Editore, 2014.