Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
Con il duplice intento di celebrare la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne e di festeggiare il primo anno di vita dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, pubblichiamo in allegato la Relazione su «La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018» redatta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere.
L’indagine svolta dalla Commissione si è concentrata sulle morti violente di donne realizzate da parte di un uomo per ragioni di genere, ossia quelle legate al «rifiuto della vittima del modello o del ruolo sociale impostole da un uomo per il solo fatto di essere una donna o [alla] condizione di totale soggezione a cui era stata sempre costretta» [p. 9 della Relazione].
In base ai dati raccolti attraverso la lettura delle sentenze e dei fascicoli processuali, le vittime di femminicidio sono state 197 (di cui 83 nel 2017 e 114 nel 2018) rispetto al totale di 273 omicidi volontari di donne. Più della metà delle vittime di femminicidio (113 su 197, ossia il 57,4%) sono state uccise dal proprio partner, mentre il 12,7% dall’ex-partner [p. 15]. Solo il 15% di queste donne aveva denunciato precedenti violenze o altri reati subiti dall’autore dell’omicidio. La stragrande maggioranza delle donne che denuncia tali violenze ha figli (86%) ed è spinta a chiedere aiuto alle istituzioni perché teme per la propria vita o per quelle dei/delle bambini/e.
Per quanto invece riguarda le caratteristiche degli autori, è interessante notare che un terzo di questi ultimi aveva precedenti penali e più di un quarto era dipendente da alcol, droghe, psicofarmaci o altra sostanza.
In relazione agli esiti del procedimento penale, vi sono tre aspetti che meritano di essere messi in rilievo. Nel 37% dei casi è stata disposta l’archiviazione, principalmente in ragione della morte del reo (73% delle archiviazioni): si tratta di un dato che è strettamente collegato con l’alto tasso di suicidi realizzati dagli autori di questi omicidi (34,9%). Nella stragrande maggioranza dei procedimenti (81,2%), l’imputato ha scelto il rito abbreviato; una scelta che si lega all’elevata percentuale di autori di reato che hanno riconosciuto le proprie responsabilità (64%). Si rileva, infine, che nelle sentenze di condanna (ossia l’81,5% del totale) la pena più frequentemente inflitta è inferiore a 20 anni, a fronte del riconoscimento, in un terzo dei casi, di circostanze attenuanti [p. 33 e ss.].
Nella terza e quarta parte della Relazione, viene analizzata la risposta della polizia e dell’autorità giudiziaria ai femminicidi. A tal riguardo vengono messe in rilievo alcune criticità ricorrenti in relazione alle indagini svolte sulle denunce presentate prima dei femminicidi. Vi è, innanzitutto, «una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime» dovuta alla «mancanza di strumenti, innanzitutto culturali, per leggere il complesso fenomeno della violenza di genere e per disinnescare gli stereotipi che ancora vedono i legami familiari fondati sulla naturale sottomissione delle donne a precisi obblighi e ruoli di genere» [p. 56]. Vi è poi una seconda criticità, che si collega alla precedente: vi è un’inadeguata conoscenza dei fattori di rischio del femminicidio da parte dei vari operatori coinvolti. In relazione a queste criticità si sottolinea l’importanza della formazione degli operatori sulla violenza di genere. La Commissione mette altresì in rilievo che «dall’analisi dei 29 fascicoli in cui la donna aveva denunciato prima di essere uccisa, si rileva una non infrequente sottovalutazione da parte degli operatori della remissione di querela, della ritrattazione e dei ridimensionamenti delle vittime» [p. 58].
Vi sono poi le criticità relative alle indagini sui femminicidi. A venire in rilievo è innanzitutto un’insufficiente ricerca del movente di genere. A tal riguardo, si rileva, ad esempio, la scarsa attenzione riservata alla ricerca di eventuali violenze precedenti e all’accertamento della personalità della vittima e del suo contesto economico, culturale, professionale e di salute [p. 60 ss.].
Accanto alle criticità, vengono individuate le buone prassi «con riguardo all’inquadramento delle indagini che ricostruiscono correttamente il ciclo della violenza» e alle specifiche (e non routinarie) modalità di svolgimento delle indagini [p. 61].
La relazione rileva ulteriori criticità in relazione all’eccessiva sintesi dei provvedimenti di archiviazione che finiscono per sottovalutare la gravità del fenomeno e l’inquadramento del femminicidio come atto impulsivo e non come acme di una quotidiana precedente violenza [p. 83]. Negli ultimi paragrafi della quarta parte della Relazione ci si sofferma opportunamente su un tema di grande importanza e attualità: il linguaggio utilizzato nei provvedimenti giudiziari e la presenza di stereotipi e pregiudizi.
La quinta e ultima parte della Relazione amplia l’orizzonte dell’indagine, concentrandosi sul contesto in cui si consumano i femminicidi. A tal riguardo vi è un ultimo aspetto che merita di essere sottolineato: a fronte dell’alta percentuale di donne uccise che ha vissuto i precedenti maltrattamenti nel silenzio, nella solitudine e nell’isolamento, i casi statisticamente meno frequenti (35%), in cui le vittime di femminicidio avevano confidato le violenze subite, non hanno trovato adeguato sostegno in parenti, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, medici, operatori dei servizi sociali, psicologi, sacerdoti o professionisti. Non solo queste persone non denunciano autonomamente i fatti di cui sono testimoni, ma neppure riescono a percepire adeguatamente i segnali evidenti che avrebbero forse consentito di evitare il femminicidio.
(a cura di Massimiliano Dova)