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17 Aprile 2024


La ‘pena naturale’ al vaglio della Corte costituzionale

Corte cost. sent. 6 marzo 2024 (dep. 25 marzo 2024), n. 48, pres. Barbera, rel. Petitti



1. Introduzione. La sentenza 48/2024 della Corte costituzionale affronta per la prima volta sul piano giurisprudenziale la questione della c.d. pena naturale. L’espressione sta ad indicare, nell’ambito della responsabilità per delitto colposo, la situazione che si prospetta quando il colpevole abbia subito conseguenze della propria condotta «talmente gravi – per usare la locuzione del § 60 StGB – che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo».

È evidente come si tratti di una fattispecie esimente dai contorni inevitabilmente sfumati; per cui, pur riconoscendo che situazioni di questo tipo possono in effetti prospettarsi (tipico il caso del padre che, colpito da una tragica cesura di memoria, non consegna il figlioletto al nido, e ne provoca la morte abbandonandolo addormentato nel parcheggio del luogo di lavoro), risulta assai difficile delinearne persuasivamente i connotati normativi. Basta modificare, anche di poco, i termini dell’accadimento per rendersi conto che la soluzione tende a farsi molto dubbia e problematica. Così, se il padre dell’esempio avesse provocato la morte del figlioletto trasportandolo senza il prescritto sedile di sicurezza e guidando a velocità spericolata, a parità di sofferenza subita dal reo per l’evento cagionato, si esiterebbe alquanto a parificare le due vicende. Nella seconda si profilerebbe l’assunzione volontaria di un rischio illecito, una condotta di guida intrinsecamente imprudente a prescindere dal rapporto con la vittima e, in definitiva, un’istanza punitiva dipendente da ragioni di prevenzione speciale, proprio perché l’agente non ha esitato a tenere comportamenti intrinsecamente imprudenti nonostante la funzione di ‘richiamo’ che avrebbe dovuto essere esercitata dal fatto di trasportare il proprio figlioletto.

Salvi i limiti di rilevanza da riconoscere eventualmente alla ‘pena naturale’, non sembra tuttavia dubbio che possono ben darsi situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione. Si tratta di casi in cui la commissione del delitto non rappresenta soltanto l’inizio della sua espiazione (come ben può accadere anche rispetto a delitti dolosi: la vicenda dello studente Raskol’nikov in Delitto e castigo ne costituisce un esempio letterario di intensa concretezza), ma anche l’esaurimento della stessa funzione della pena suscettibile di essere applicata. Quel che può realizzarsi durante un percorso trattamentale a scansioni progressive, avviene in una sorta di corto circuito tragicamente contestuale: il padre che cancella dalla mente la presenza del figlio da condurre al nido e ne provoca la morte, quale ulteriore ammaestramento rieducativo potrebbe mai ricevere, superiore allo strazio ed al rimorso per il fatto compiuto? In una tale prospettiva entra evidentemente in gioco il terzo comma dell’art. 27 Cost.; in forma più indiretta forse anche l’art. 3 e l’art. 13 Cost., entrambi evocati dall’ordinanza fiorentina.

 

2. La norma censurata. Non si può negare quindi che il problema meriti di essere affrontato e discusso, né la Corte lo esclude; ma bisogna riconoscere come il Tribunale di Firenze non abbia contribuito efficacemente a promuoverne la soluzione positiva.

Innanzitutto, è certo corretto il rilievo formulato dalla sentenza, secondo cui la disposizione censurata, e cioè l’art. 529 c.p.p. relativo alla pronuncia della sentenza di non doversi procedere (che dovrebbe intervenire anche in seguito all’accertamento di una ‘pena naturale’) non potrebbe costituire l’oggetto del giudizio di costituzionalità.

La ragione sembra evidente: per riconoscere alla ‘pena naturale’ una funzione surrogatoria rispetto alla pena legalmente prevista, non si può prescindere da una sentenza di condanna. Se difettasse uno dei presupposti della responsabilità, il giudice non avrebbe alcuna ragione di eluderne la rilevanza; mentre, per converso, la sussistenza di una sofferenza per il fatto commesso, per assumere i connotati di «pena», implicherebbe ovviamente il riconoscimento di una responsabilità. Del resto, nell’ordinamento tedesco il § 60 StGB introduce un’«astensione da pena», non certo dalla condanna; correlativamente l’art. 40 del Progetto Pagliaro del 1992, che per primo (e finora unico) prospettò l’introduzione di una norma analoga a quella tedesca, formulò la direttiva di delega nei termini del «prevedere che il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato colposo, possa astenersi dall’infliggere la pena, …». È quindi ovvio che la disposizione su cui eventualmente appuntare la censura di costituzionalità dovrebbe eventualmente essere quella dell’art. 533, comma 1 c.p.p., nella parte in cui, dopo aver disposto che il giudice pronunci «sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio», prosegue stabilendo che «con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza». Si tratterebbe perciò di incidere congruamente sul nesso di indefettibilità assoluta tra condanna e pena.

Sull’utilizzo della pronuncia di condanna quale ‘alternativa’, in determinati casi e a certe condizioni, all’applicazione della pena, il dibattito è aperto fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Il supporto concettuale della proposta da più parti avanzata era riferito al principio di individualizzazione della pena, suscettibile di spingersi sino al punto di valutare l’opportunità stessa di infliggerla, in rapporto alla situazione personale del reo[1]. Il ricorso ad un tal forma di ‘surrogato penale’, cui il codice Zanardelli fece ricorrere in modo timido e circospetto con la ‘riprensione giudiziale’, fu, per così dire, ‘depotenziata’ dall’affacciarsi all’orizzonte di ben più consistenti strumenti alternativi alla pena detentiva (od alla sua effettiva esecuzione), quali, soprattutto, misure di carattere sospensivo variamente atteggiate. Ma non sembra dubbio che le peculiarità, in qualche modo eccezionali, di una situazione riconducibile ad una ‘pena naturale’ trascendono le prospettive teleologiche di una misura meramente sospensiva.

 

3. Le distinzioni necessarie in rapporto alle varie forme di reato colposo. L’oggetto dell’eccezione riferibile all’art. 533, comma 1° c.p.p. non può peraltro essere indifferenzialmente identificato in qualsiasi ipotesi di reato colposo. Se si muove dal presupposto (in sé e per sé ragionevole) che di ‘pena naturale’ possa parlarsi, bisogna convenire come, per attribuirle rilevanza giuridica esimente, sia indispensabile un contenuto ed un carattere compiutamente surrogatorio rispetto ad entrambe le funzioni che reggono l’applicazione della pena in sede giudiziale: la funzione retributiva, dominata da un’esigenza di proporzionalità rispetto alla gravità del reato e alla colpevolezza del reo, e la funzione di prevenzione speciale, sia negativa che positiva, retta da una valutazione prospettica della capacità a delinquere. In questi termini, il reato contravvenzionale non potrebbe quindi essere inserito nell’orizzonte della ‘pena naturale’, non solo perché esso può essere, indifferentemente, doloso o colposo, e distinguerne la matrice psichica può risultare assai difficile, ma soprattutto perché dalla sua commissione non possono derivare conseguenze tali da provocare al reo alcun tipo di sofferenza. Questa potrà intervenire solo nell’ipotesi la condotta contravvenzionale costituisca, al contempo, anche la condotta di un delitto colposo d’evento; rispetto al quale, per l’appunto, potrà prospettarsi l’intervento ‘sanzionatorio’ di una ‘pena naturale’.

Nell’ambito della responsabilità per delitto colposo, occorre ulteriormente distinguere – come suggerisce la stessa sentenza della Corte costituzionale – tra le ipotesi di colpa cosciente e di colpa impropria, da un lato, da quella di colpa incosciente, dall’altro. Nella colpa cosciente interviene l’assunzione consapevole di un rischio di cui il reo si rappresenta le possibili conseguenze lesive; nella colpa impropria, l’agente eccede, ad es., colposamente dai limiti di una scriminante esercitata nei confronti di una persona la cui lesione sarà all’origine della ‘pena naturale’. In entrambi i casi, la circostanza che coinvolto nella condotta colposa sia un soggetto legato da vincoli particolarmente significativi con l’autore di essa finisce col rendere più acuta l’istanza di prevenzione speciale. Per quanto possa ben darsi che dall’infortunio mortale per il figlio trasportato a bordo di un bolide spinto a folle velocità, il padre esca atrocemente provato dalla sofferenza, al punto da soddisfare un’esigenza di retribuzione proporzionata alla gravità del fatto ed alla colpevolezza del reo, non per questo potrebbe venir meno un’istanza di prevenzione speciale. Un soggetto che non ha esitato a sottoporre consapevolmente il proprio figlio ad un tale rischio, come potrebbe, a parità di condizioni, atteggiarsi nei confronti di un estraneo occasionalmente trasportato o incrociato lungo il percorso? Su quali benefici effetti dell’eventuale rimorso dovrebbe ‘scommettere’ l’ordinamento?

Nell’ambito della colpa incosciente, sia generica che specifica, occorre tener presente l’eventuale sussistenza, nei confronti dell’autore del reato, di una posizione di garanzia su cui si innesti l’obbligo cautelare non osservato. Se si tratta di una posizione di garanzia non riferita in via personale ed esclusiva alla vittima del reato (come in presenza di rapporti di famiglia), ma concernenti un’intera categoria di soggetti (come nel caso – ricorrente nella vicenda da cui prende le mosse l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale – dei lavoratori di una determinata impresa) sembra ancora una volta evidente come la circostanza che l’infortunio occorso ad un determinato lavoratore legato da speciali vincoli personali con il datore di lavoro abbia provocato a costui una sofferenza qualificabile come ‘pena naturale’ non possa chiudere la partita sanzionatoria. La mancata adozione delle misure di sicurezza eziologicamente rilevanti per l’evento lesivo coinvolge, in effetti, l’intero gruppo dei lavoratori addetti, e induce quindi a ritenere persistente un’istanza punitiva quanto meno connessa ad esigenze di prevenzione speciale; resa ancora una volta più intensa proprio dalla circostanza che nemmeno la presenza, nella compagine dei lavoratori esposti al rischio senza adeguata protezione, di una persona particolarmente cara al datore di lavoro, ha costituito stimolo sufficiente all’attuazione di un puntuale regime di sicurezza.

 

4. L’accertamento della sofferenza suscettibile di violenza. Da ultimo, ma non per ultimo, si pone il problema dell’accertamento e della rilevanza della sofferenza subita dal reo, e suscettibile di essere riconosciuta come ‘pena naturale’. È di tutta evidenza come non sia possibile postulare una qualsiasi sofferenza, pur se intensa, che l’autore di un reato colposo abbia subito per il fatto da lui stesso commesso. Infatti, qualsiasi persona normalmente dotata di empatia subisce, per l’evento colposamente cagionato, un trauma che in molti può trasformarsi in acuta e persistente sofferenza. Quando tali evenienze si profilano in termini di particolare evidenza e intensità il giudice dovrà senza dubbio apprezzarne la consistenza nella graduazione della pena; ma per prospettare una situazione esimente idonea a surrogare funzionalmente l’applicazione della pena legalmente stabilita servirà certamente un contesto più qualificato. Si tratta quindi di individuare normativamente un elemento obiettivo su cui poter erigere una valutazione simmetricamente opposta rispetto a quella concernente la responsabilità.

Secondo l’ordinanza di rimessione, tale elemento dovrebbe essere individuato nei rapporti familiari definiti dall’art. 307, comma 4° c.p., e cioè nella cerchia dei prossimi congiunti. In realtà tale riferimento non può offrire una ragionevole base presuntiva, perché – come osserva la sentenza della Corte – esso prospetta uno spettro eccessivamente ampio, e perciò intrinsecamente equivoco. Tra genero e suocera possono correre i rapporti più affettuosi che mente umana riesca ad immaginare; ma può essere vero anche il contrario. Persino tra fratelli o tra genitori e figli il vincolo parentale non si esprime sempre in termini corrispondenti alla prossimità di sangue. Per contro, tra persone formalmente estranee possono intercorrere legami più stretti, coinvolgenti e tenaci di qualsiasi parentela. Sembra quindi evidente che il riconoscimento di una ‘pena naturale’ presupporrebbe l’accertamento in fatto della natura e della portata del rapporto tra autore e vittima, in modo da poter attribuire alla sofferenza che la commissione del fatto abbia inferto al suo autore un livello sul piano retributivo equivalente e, sul piano special-preventivo, equipollente a quello della pena legalmente stabilita.

Quest’ultimo rilievo pone tuttavia una seria ipoteca circa la possibilità di attribuire alla ‘sartoria’ della Corte costituzionale la confezione dell’abito normativo necessario per rivestire la ‘pena naturale’. Se la questione stessa è condizionata da una previa valutazione del giudice circa la sussistenza, tra l’autore del fatto e la vittima, di un rapporto tale da determinare l’equivalenza e l’equipollenza poc’anzi richiamata, in quali termini la Corte costituzionale potrebbe ritenere o contestarne la rilevanza? Il relativo giudizio finirebbe col dipendere esclusivamente dalla valutazione compiuta in sede di merito, sulla base di un parametro di cui si chiede in realtà, pur se per ottime ragioni, l’introduzione. Per questo genere di vestiti forse è indispensabile la ‘sartoria’ legislativa: una prospettiva tutt’altro che rosea.

 

 

[1] sul punto sia consentito rinviare a T. Padovani, L’utopia punitiva, Milano 1981, p. 92 s.