Cass., Sez. IV, 11 gennaio 2023 (ud. 4 ottobre 2022), n. 570, Pres. Ciampi, Rel. Dawan
1. La Corte di Cassazione, nella pronuncia che può leggersi in allegato, è intervenuta in materia di responsabilità dell’ente collettivo in un caso di omicidio colposo commesso con violazione della disciplina antinfortunistica, soffermandosi in particolare sul fondamentale tema della colpa di organizzazione, quale requisito dell’illecito previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001. La Corte ha accolto il ricorso presentato dall’ente, annullando con rinvio la decisione con cui la Corte di Appello di Milano aveva condannato la società ricorrente alla sanzione amministrativa di euro 30.000, ravvisando nel provvedimento impugnato una carenza di motivazione circa gli specifici profili di colpa di organizzazione addebitabili all’ente e l’incidenza causale di tali difetti organizzativi rispetto alla verificazione del reato presupposto.
1.1. La vicenda trae origine da un grave incidente sul lavoro verificatosi presso il cantiere temporaneo per la realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano (TEEM): un operaio, mentre si trovava su un ponteggio in fase di smontaggio, veniva colpito da un asse di contenimento della gettata di cemento e perdeva l’equilibrio. Essendo il ponteggio privo di sponde laterali, l’operaio precipitava da un’altezza di circa dieci metri, riportando lesioni gravissime che ne determinavano la morte. Nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria svolte nell’immediatezza dell’evento si evidenziava che l’infortunato non indossava l’imbragatura e si riscontrava la mancanza di dispositivi di sicurezza. Ulteriori carenze emergevano da quanto riferito da un teste, secondo il quale non era debitamente documentata l’attività di formazione del personale; il Piano di Montaggio Uso e Smontaggio (“PIMUS”) adottato, pur apparentemente completo e idoneo, non risultava essere in concreto rispettato; infine, in cantiere non vi era alcun preposto addetto alla verifica della correttezza delle attività di smontaggio.
1.2. Del reato di cui all’art. 589, commi 1 e 2, c.p. veniva chiamato a rispondere l’amministratore unico della società ricorrente, alla quale era stata appaltata la realizzazione del lotto in questione. La Corte di Appello di Milano pronunciava sentenza di non doversi procedere, essendo il reato estinto per intervenuta morte del reo, mentre confermava la condanna nei confronti della società per l’illecito di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231 del 2001. In particolare, si affermava la sussistenza del criterio di imputazione oggettiva dell’illecito, rappresentato dal vantaggio che l’ente avrebbe tratto, in termini di risparmio di spesa, dall’impiego presso il cantiere di lavoratori – tra cui la vittima dell’incidente – formalmente dipendenti di altra società, ma in realtà sottoposti al potere direttivo della società ricorrente.
2. Proprio dall’esame dei criteri oggettivi di imputazione dell’illecito, di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001, muove la Cassazione nel considerato in diritto[1]. Sul punto, la Corte aderisce alla linea interpretativa “dualistica”, secondo cui i requisiti di “interesse” e “vantaggio” sarebbero tra loro alternativi e connotati da autonomia concettuale. In particolare, l’interesse, da valutare secondo un apprezzamento ex ante, esprimerebbe una proiezione finalistica del reato, mentre il vantaggio, accertabile ex post, consisterebbe nell’obiettivo conseguimento di un’utilità in capo all’ente[2]. Occorre tenere a mente, in quest’ambito, l’insegnamento delle Sezioni Unite che, chiamate a pronunciarsi sul caso ThyssenKrupp, hanno chiarito la piena compatibilità dei criteri in questione con le fattispecie colpose[3]. È pur vero che, in occasione di eventi lesivi analoghi a quello verificatosi nel caso in esame sembrerebbe, in generale, potersi escludere un interesse o vantaggio in capo all’ente: in materia di reati colposi di evento, osserva quindi la Corte, nella valutazione di tali criteri si dovrà avere riguardo alla condotta, e non al reato nel suo insieme[4]. Pare dunque coerente, in linea di principio, la valutazione compiuta dai giudici di merito nel caso di specie avuto riguardo alla sussistenza del vantaggio per la società, individuato nel risparmio di spesa derivante dall’inosservanza di una serie di regole prevenzionistiche e di diligenza (passaggio argomentativo che, infatti, è andato esente da censure in sede di legittimità)[5].
3. A partire dalle considerazioni svolte in merito ai criteri oggettivi di imputazione, la Corte affronta la delicata e alquanto dibattuta questione della struttura dell’illecito dell’ente. Il Supremo Collegio aderisce all’impostazione, di recente affermata in altre decisioni di legittimità[6], secondo cui «la struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale intercorrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica»[7]. Avendo per tale via dimostrato la conformità dello schema di responsabilità dell’ente con il principio di responsabilità per fatto proprio, la Corte richiama poi la categoria della colpa di organizzazione[8], al fine di escludere che il paradigma punitivo de societate costituisca un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Ciò che il Collegio vuole dimostrare, per il tramite di un impianto argomentativo già ben noto alla giurisprudenza di legittimità[9], è che la responsabilità da reato dell’ente rispetta entrambi i “livelli” del principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione[10].
3.1. La Corte prende quindi in esame, in maniera approfondita, la categoria della colpa di organizzazione. Citando un importante precedente, si afferma che la responsabilità “si estende dall’individuo all’ente collettivo”, a patto che vengano individuati «precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo»[11]. Osserva la Cassazione che alla colpa di organizzazione sarebbe riservata, nell’ambito del paradigma di responsabilità da reato dell’ente, la stessa funzione che la colpa riveste nel diritto penale individuale. In conclusione, secondo la Suprema Corte, la colpa di organizzazione, il reato presupposto e il relativo nesso causale sono elementi costitutivi dell’illecito[12].
Condivisibilmente, la Cassazione ricostruisce quindi il paradigma di responsabilità dell’ente avendo come riferimento l’illecito penale colposo. Una simile soluzione non può essere raggiunta se non attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 6 d.lgs. n. 231 del 2001. Tale disposizione, costruita dal legislatore secondo uno schema evidentemente ispirato alla teoria dell’immedesimazione organica, è stata fortemente criticata fin dalla sua introduzione, soprattutto laddove prevede che l’ente risponda, in relazione al fatto dell’apicale, a meno che non riesca a dimostrare l’“interruzione” del nesso di immedesimazione dando la prova (a tratti diabolica) di una serie di circostanze che concorrono a delineare una sorta di “esimente”. Come si è autorevolmente osservato, i casi sono due: ove si ritenesse che la controversa disposizione individui una responsabilità dell’ente fondata esclusivamente sul fatto dell’apicale, risulterebbe di certo violato il divieto di responsabilità oggettiva (di cui all’art. 27, comma 1, Cost.); ove invece si ritenesse che la norma contempli in effetti elementi riconducibili alla colpevolezza dell’ente, rispetto ai quali sia però invertito l’onere della prova, si incorrerebbe in una plateale violazione della presunzione di non colpevolezza (ex art. 27, comma 2, Cost.)[13]. Così si spiega l’evoluzione giurisprudenziale, di cui la sentenza in commento costituisce una ulteriore tappa, che ha progressivamente operato una rilettura, costituzionalmente orientata, della struttura dell’illecito dell’ente, raccogliendo anche i frutti di un intenso e proficuo dibattito dottrinale.
Punto di riferimento imprescindibile è, in materia, il già citato arresto delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in cui la Corte ha chiarito che «[n]essuna inversione dell’onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al D.Lgs. n. 231, art. 5, e la carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria». Come è stato rilevato[14], il principio di diritto, di apprezzabile ispirazione garantista, affermato dalle Sezioni Unite, non è parso sufficientemente incisivo rispetto all’esigenza di delineare in maniera rigorosa la fisionomia e gli specifici contenuti dell’addebito per colpa mosso all’ente, anche e soprattutto nell’ottica di orientare il vaglio giurisdizionale sulla colpevolezza organizzativa, che costituisce uno degli aspetti più problematici dell’intero “sistema 231”[15].
3.2. La decisione in commento non si sottrae all’onere di chiarire quali aspetti debbano essere presi in considerazione ai fini dell’accertamento della responsabilità del soggetto collettivo per colpa di organizzazione. Viene infatti censurato il capo di imputazione, nel quale l’accusa si limita a rilevare il conseguimento di un vantaggio in capo all’ente, senza indicare le specifiche carenze organizzative che dovrebbero fondare la colpevolezza della societas. Similmente, il provvedimento impugnato viene ritenuto carente dal punto di vista della puntuale individuazione dei profili di colpa di organizzazione, arrivando a sovrapporre e confondere i profili di responsabilità individuale dell’amministratore/datore di lavoro con quelli di responsabilità da reato dell’ente.
A tal proposito, osserva la Corte che il mancato compimento di una adeguata valutazione sui fornitori (pur prevista dal modello organizzativo) e la predisposizione non a norma del ponteggio nonostante l’adozione di un PIMUS apparentemente idoneo configurano profili colposi addebitabili all’amministratore, in quanto datore di lavoro tenuto al rispetto della disciplina prevenzionistica. Come è di tutta evidenza, l’ascrizione di responsabilità all’ente presuppone la specificazione di quali carenze organizzative riconducibili alla societas abbiano assunto rilevanza rispetto alla realizzazione del reato presupposto[16]. In tale prospettiva, non può ritenersi sufficiente la statuizione del giudice di merito, secondo cui il modello organizzativo adottato dall’ente-imputato sarebbe stato connotato da “genericità ed inadeguatezza”.
Riprendendo il principio affermato dalle Sezioni Unite nel caso ThyssenKrupp, la Corte afferma che «l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo ‘negligente’ dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo». Si tratta di un passaggio chiave della motivazione, in cui si chiarisce che l’addebito di responsabilità all’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione di un reato presupposto. L’illecito, pur inscindibilmente connesso alla realizzazione di un reato da parte di un autore individuale nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta dunque connotato da autonomia, proprio in quanto fondato su un deficit organizzativo colpevole che ha reso possibile la realizzazione di tale reato.
3.3. Giunti a tale conclusione, occorre stabilire quale rapporto intercorra esattamente tra il difetto organizzativo dell’ente e la realizzazione del fatto di reato. Sul punto, la sentenza in commento mostra di aderire alla linea interpretativa di recente adottata da alcune decisioni di legittimità, prima fra tutte quella in cui la Cassazione si è pronunciata sul celebre caso Impregilo, a conclusione di una vera e propria “saga giudiziaria”[17]. Osserva la Cassazione, infatti, che il giudice di merito, oltre a non aver individuato gli specifici profili di colpa di organizzazione, non ha di conseguenza neppure accertato «se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto».
Tale passaggio chiama in causa il tema della specifica fisionomia dell’illecito colposo ascrivibile alla societas, che merita di essere sinteticamente approfondito, partendo dalla già richiamata sentenza sul caso Impregilo, che rappresenta un vero e proprio leading case. In tempi recenti si sta affermando nella giurisprudenza di legittimità un orientamento, condiviso da autorevole dottrina, che pare propendere per una ricostruzione della struttura dell’illecito dell’ente, modellata sul tipo colposo ben noto alla dogmatica del diritto penale delle persone fisiche[18].
Ciò comporta che l’accertamento della responsabilità dell’ente debba passare attraverso la verifica della sussistenza di specifici nessi, di ordine naturalistico e normativo, che intercorrono tra la carenza organizzativa e il fatto-reato. Nell’ambito della menzionata lettura, il reato presupposto assume il ruolo di evento dannoso, mentre l’auto-organizzazione preventiva (eventualmente carente) costituisce la condotta dell’ente[19]. Per auto-organizzazione, è bene chiarirlo, si intende essenzialmente il complesso delle regole elaborate dall’ente volte alla prevenzione del rischio reato, che trovano la loro sede naturale nei Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo i cui contenuti sono delineati, su un piano generale, dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001. L’accertamento della responsabilità dell’ente non può che essere particolarmente rigoroso: non è (più) consentito al giudice di merito un vaglio sull’adeguatezza del modello “in generale”, né si può punire l’ente in ragione di una “cultura d’impresa deviante”, secondo un approccio olistico[20]. Sono del pari bandite argomentazioni fondate sull’argomento post hoc, propter hoc, secondo cui la commissione del reato varrebbe a dimostrare l’inidoneità dell’assetto organizzativo[21]. Con ciò si spiega la portata del risultato garantista – convintamente condiviso anche dalla sentenza in esame – cui consente di pervenire l’indirizzo interpretativo in questione.
Nella prospettiva appena delineata occorre quindi accertare, da un lato, che l’evento-reato occorso sia la concretizzazione del rischio che la regola cautelare violata mirava a evitare o, secondo alcuni, a minimizzare e, dall’altro lato, che, se la regola fosse stata rispettata, l’evento non si sarebbe verificato[22]. Ci si trova dunque, secondo il convincente inquadramento offerto da autorevole dottrina, in presenza di un illecito colposo di evento, integrato da una condotta inosservante di una regola cautelare specifica (frutto di autonormazione da parte del destinatario dell’obbligo), connotato da un doppio nesso causale (“l’uno naturalistico che lega la condotta violatrice della cautela all’evento; l’altro normativo, che collega la violazione cautelare al rischio tipico di cui l’evento-reato è la concretizzazione”)[23].
3.4. Di tali principi fa buon governo la decisione in commento. Puntuale è il riferimento operato dalla Cassazione all’accertamento della connessione causale tra specifici deficit di cautela individuabili nell’assetto organizzativo dell’ente e realizzazione del reato presupposto. Ci si può domandare quale sia lo standard probatorio alla base di tale verifica, il cui esito negativo impone il proscioglimento dell’ente. La sentenza Impregilo 2, sul punto, arriva ad affermare che, «nel caso in cui non sia possibile escludere con certezza il ruolo causale dei fattori di rischio considerati dalla norma cautelare, la responsabilità colposa non potrà essere affermata»[24]. Come osservato in dottrina, i presidi cautelari adottabili con i modelli organizzativi sono in genere orientati a una ragionevole riduzione del rischio, senza che siano disponibili leggi scientifiche di copertura in materia di «‘condizionamento’ protocollare dei comportamenti altrui»: non sembra dunque possibile, in tale contesto, spingersi oltre alla minimizzazione del rischio-reato[25]. Quasi mai, dunque, sarà possibile affermare che un’adeguata organizzazione preventiva avrebbe, senza dubbio, impedito la realizzazione del reato. D’altronde, si è ribattuto, nihil sub sole novum: in moltissime aree del diritto penale individuale il giudice si trova a dover compiere con il massimo rigore possibile accertamenti sull’evitabilità di un evento senza poter contare su una valutazione in termini di reale certezza[26].
Vi è un ulteriore aspetto della motivazione della sentenza in esame che merita di essere messo in evidenza. Coerentemente con la scelta di campo operata in favore dell’illecito penale colposo, la Corte afferma che i giudici di merito avrebbero dovuto (e quindi dovranno, nell’ambito del giudizio di rinvio) valutare il «concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa». È questa una lettura sostanziale alla stregua della quale il giudice non può fermarsi al dato formale della previsione di una determinata regola cautelare, ma deve compiere una approfondita analisi del reale assetto organizzativo adottato dalla societas al fine della prevenzione del rischio-reato concretizzatosi nel caso concreto. Un simile approccio è adottato, sempre in materia di sicurezza sul lavoro, da altre recenti sentenze di legittimità in cui, in mancanza di un modello organizzativo, si afferma la necessità di accertare la colpa di organizzazione dell’ente prescindendo da automatismi fondati su meccanismi presuntivi[27].
In definitiva, la decisione in commento pare raccogliere l’indirizzo garantista privilegiato da tempo da autorevole dottrina e ora accolto anche in sede giurisprudenziale, cui si perviene attraverso un’ermeneutica che esclude dai possibili significati dell’enunciato quelli contrastanti con i principi costituzionali che informano la materia penale[28]. Ci si trova, dunque, dinanzi all’auspicato mutamento di approccio che dovrebbe contribuire in maniera significativa alla soluzione del problema del difetto di validazione giudiziale del modello. L’ente che si organizza in modo serio in un’ottica di prevenzione dei reati può oggi fare ragionevole affidamento su un esito liberatorio in giudizio, pur a fronte di un reato presupposto commesso nel suo interesse o a suo vantaggio. Ciò in virtù della soluzione adottata dalla corrente interpretativa a cui la sentenza in esame è riconducibile, che si segnala, come sottolineato, per una decisa valorizzazione dei principi costituzionali che informano la materia penale con riguardo al peculiare illecito dipendente da reato ascrivibile agli enti collettivi. Una simile prospettiva dovrebbe rivitalizzare la portata preventiva del ‘sistema 231’, incentivando l’adozione ed efficace attuazione da parte degli enti dei modelli di compliance, nel segno di una leale collaborazione finalizzata all’obiettivo della legalità[29].
[1] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 570, p. 6.
[2] Tale soluzione, oggi accolta da dottrina e giurisprudenza prevalenti, si contrappone alla ricostruzione “unitaria”, secondo cui il criterio dell’interesse sarebbe quello “principale”, mentre la previsione del vantaggio avrebbe il ruolo di conferire una connotazione oggettiva all’interesse nell’ambito di un’endiadi. La soluzione dualistica è stata accolta nel noto caso ThyssenKrupp, Cass. pen. Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343. In senso conforme al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite ThyssenKrupp nella giurisprudenza più recente v., per tutte, Cass. pen., Sez. IV, 20 ottobre 2022, n. 39615. Per un’analisi critica delle diverse impostazioni adottate da dottrina e giurisprudenza sul punto, v. R. Bartoli, Alla ricerca di una coerenza perduta … o forse mai esistita. Riflessioni preliminari (a posteriori) sul “sistema 231”, in R. Borsari (a cura di), Responsabilità da reato degli enti. Un consuntivo critico, Padova, 2016, p. 13 ss. e in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org., p. 14, il quale ritiene «decisamente interessante» una concezione oggettivo-funzionale dei criteri di imputazione in parola; v. anche, in proposito, F. Viganò, Responsabilità da reato degli enti. I problemi sul tappeto a dieci anni dal d.lgs. n. 231/2001, in Treccani, Il libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2012, p. 209 ss.; G. De Simone, sub. Art. 5 – profili penalistici, in D. Castronuovo, G. De Simone, E. Ginevra, A. Lionzo, D. Negri, G. Varraso (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Milano, 2019, p. 95 ss.; R. Bartoli, Il criterio di imputazione oggettiva, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. I, Diritto sostanziale, Torino, 2020, p. 186, 191.
[3] V. Cass. pen., Sez. Un., 18 ottobre 2014, n. 38343, cit., par. 63, in cui si afferma che «Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente». La questione è stata oggetto di dibattito in dottrina. V., per tutti, G. Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 2013, p. 10 ss.; A. Gargani, Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della sicurezza del lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, p. 1941 ss.
[4] Cfr., ancora una volta, Cass. pen., Sez. Un., 18 ottobre 2014, n. 38343, cit., ibidem.
[5] Oltre alla già richiamata circostanza dell’impiego, presso il cantiere, di lavoratori solo formalmente dipendenti di altra società, si fa riferimento alla mancata messa a disposizione dei lavoratori di adeguati mezzi di protezione individuale, all’omessa formazione specifica dei lavoratori circa il montaggio e smontaggio dei ponteggi e all’assenza di un preposto nominato e retribuito dalla società. Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 570, cit., p. 2 s.
[6] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 6 ottobre 2021, n. 32899; Cass. pen., Sez. IV, 10 maggio 2022, n. 18413.
[7] Così Cass. pen., Sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 570, cit., p. 6., riprendendo le considerazioni svolte dalla Suprema Corte nei due arresti citati supra. Si rinvia, sul punto, a C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, p. 332 s., nonché a O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Milano, 2010, p. 71.
[8] Sul tema v., per tutti, C. E. Paliero, C. Piergallini, La colpa di organizzazione, in Resp. amm. soc. enti, 3/2006, p. 167 ss.; C.E. Paliero, La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e individuale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, p. 175 ss.
[9] Il riferimento è, in particolare, a Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2010, n. 27735, citata sul punto nel provvedimento nella pronuncia in commento, e a Cass. pen., Sez. Un., 18 ottobre 2014, n. 38343, cit., par. 62, in cui il tema del rispetto dell’art. 27 Cost. è affrontato in maniera ancor più specifica.
[10] Per un approfondimento sul tema della compatibilità dell’art. 6 d.lgs. con i due “livelli” del principio di colpevolezza previsto dall’art. 27 Cost. v. G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro, Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. 4, Milano, 2008, p. 38 ss.; v. anche C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 349 ss.; G. De Simone, La colpevolezza dei soggetti metaindividuali: una questione tuttora aperta, in Cass. pen., 2/2017, p. 914 ss.; V. Mongillo, La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Torino, 2018, p. 425 ss.; M. Pelissero, Principi generali, sub par. 8, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. I, cit., p. 161 ss.; A.M. Maugeri, La funzione rieducativa della sanzione nel sistema della responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. 231/2001, Torino, 2022, p. 47 ss.
[11] Così, ancora, Cass. pen., Sez. VI, Sent., 16 luglio 2010, n. 27735, cit.
[12] Secondo la Corte, tali presupposti completano il quadro degli elementi costitutivi dell’illecito dell’ente, aggiungendosi alla relazione organica e teleologica che, ai sensi dell’art. 5, deve intercorrere tra autore individuale e soggetto collettivo.
[13] In questo senso P. Ferrua, Il diritto probatorio, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. II: Diritto processuale, Torino, 2020, p. 105 s.; per una soluzione dei problemi relativi alla c.d. “inversione” dell’onere della prova v. F.R. Dinacci, La dimensione probatoria e del diritto al silenzio nella disciplina della responsabilità da reato degli enti. Verso letture “osservanti” dei principi, in Arch. pen., 1/2022, p. 12 s.
[14] C.E. Paliero, La colpa di organizzazione, cit., p. 210.
[15] Sul problema del difetto di validazione del modello v. A. Gullo, I modelli organizzativi, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. I, cit., p. 266 ss.; V. Manes, A.F. Tripodi, L’idoneità del modello organizzativo, in F. Centonze, M. Mantovani (a cura di), La responsabilità “penale” degli enti. Dieci proposte di riforma, Bologna, 2016, p. 137 ss.; R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti e paradigmi di validazione dei modelli organizzativi. Esperienze comparate e scenari di riforma, Torino, 2022, p. 138 ss.
[16] Cfr., sul punto, A. Gullo, I modelli organizzativi, cit., p. 268, il quale individua, quale elemento di criticità delle decisioni di merito in materia, proprio il mancato «sforzo di identificazione puntuale della carenza organizzativa» e della «specifica cautela mancante».
[17] Il riferimento è a Cass., Sez. VI, 15 giugno 2022, n. 23401, peraltro non richiamata dalla sentenza in esame. V., in proposito, F. Centonze, Il crimine dell’«attore decisivo», i limiti della compliance e la prova «certa» della colpa di organizzazione – riflessioni a margine della sentenza “Impregilo”, in Cass. Pen., 12/2022, p. 4383 ss.; E. Fusco, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria: la colpa di organizzazione trova (forse) il suo tipo, in questa Rivista, 9/2022, p. 115 ss.; C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”, in questa Rivista, 2022.
[18] In merito alla ricostruzione “analogica”, v. per tutti, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria, cit., p. 127 ss.
[19] Così C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione, cit., p. 4. Una simile impostazione renderebbe possibile, come sottolineato da F. Centonze, Il crimine dell’attore decisivo, cit., p. 4384, superare la teoria dell’immedesimazione organica, cui pure la sentenza in commento fa riferimento in qualche passaggio argomentativo.
[20] In questo senso F. Centonze, Il crimine dell’attore decisivo, cit., p. 4394 s.; C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione, cit., p. 3, il quale osserva che il giudizio sul modello «non deve possedere una portata “totalizzante”, ma limitarsi a valutare l’impatto della violazione delle cautele con il rischio di reiterazione del reato della stessa specie».
[21] A. Gullo, I modelli organizzativi, cit., p. 268 ss., sottolinea la necessità che la puntuale valutazione sull’idoneità preventiva del modello sia svolta ex ante.
[22] Cfr. E. Fusco, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria, cit., p. 127 s.; v. anche V. Mongillo, Il giudizio di idoneità del Modello di Organizzazione ex d.lgs. 231/2001: incertezza dei parametri di riferimento e prospettive di soluzione, in Resp. amm. soc. enti, 3/2011, p. 69 ss.; per una più approfondita ricostruzione sistematica del rimprovero per colpa di organizzazione v. C.E. Paliero, La colpa di organizzazione, cit., p. 210 ss.
[23] Così, ancora, E. Fusco, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria, cit., p. 129.
[24] Così Cass. pen., Sez. VI, 15 giugno 2022, n. 23401, par. 7.2.
[25] In questi termini C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione, cit., p. 5 s.; sul punto cfr. anche R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti, cit., p. 135 s., per la quale la pretesa che la valutazione sull’efficacia preventiva del “comportamento alternativo lecito” venga svolta in termini di assoluta certezza equivarrebbe a «‘condannare’ il ‘decreto 231’ alla irrilevanza applicativa».
[26] Così F. Centonze, Il crimine dell’attore decisivo, cit., p. 4398 s., il quale fa riferimento, quanto meno, a tutti i casi in cui oggetto di verifica controfattuale è il comportamento individuale. Secondo l’Autore, il riferimento alla certezza comporta la necessità, da parte del giudice, di ancorare la valutazione sull’evitabilità dell’evento-reato a dati oggettivi, fornendo adeguata e convincente motivazione; sempre in tema di standard probatori v. F. Consulich, Il principio di autonomia della responsabilità dell’ente. Prospettive di riforma dell’art. 8, in Resp. amm. soc. enti, 4/2018, 217 ss., il quale ritiene che il principio di autonomia della responsabilità dell’ente potrebbe consentire di superare situazioni di impasse che tradizionalmente caratterizzano, sul versante della prova, il diritto penale individuale, pur senza abbandonare la fondamentale regola BARD (beyond any reasonable doubt).
[27] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 10 maggio 2022, n. 18413, in cui si afferma che la mancanza del modello non implica un automatico addebito di responsabilità, poiché a tal fine, alla stregua del principio di colpevolezza, occorre altresì ravvisare la sussistenza della colpa di organizzazione; Cass. pen., Sez. IV, 28 novembre 2022, n. 45131, in cui la Corte afferma la sussistenza della colpa di organizzazione dell’ente compiendo una sorta di giudizio controfattuale, giungendo alla conclusione che se fosse stato adottato un modello organizzativo si sarebbe evitata la realizzazione del reato. Insufficiente, a tale scopo, è stata ritenuta la predisposizione da parte dell’ente di un apparato di norme prevenzionistiche adottate in conformità al d.lgs. n. 81 del 2008, senza tuttavia predisporre un modello organizzativo ai sensi dell’art. 30 del Testo Unico.
[28] E. Fusco, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria, cit., p. 125 ss.
[29] Sulla crisi della funzione preventiva del “sistema 231” e sulle possibili prospettive di riforma v. P. Severino, La responsabilità dell’ente ex d.lgs. n. 231 del 2011: profili sanzionatori e logiche premiali, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione, vol. II, Milano, 2018, p. 1100 ss.; E. Scaroina, Prospettive di razionalizzazione della disciplina dell’oblazione nel sistema della responsabilità da reato tra premialità e non punibilità, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2020, 2, p. 201 ss.; R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti, cit., specie p. 301 ss.