Trib. Milano, sez. X penale, 25 maggio 2023, n. 3314
1. Con la decisione in commento, il Tribunale di Milano ha definito, in prima istanza, la questione relativa alla responsabilità da reato di una nota società dell’industria farmaceutica in relazione a fatti di corruzione “propria”. Il collegio ha ritenuto sussistente la colpa di organizzazione dell’ente, individuata nell’inidoneità del suo assetto organizzativo, per come concretamente attuato, a prevenire reati della specie di quelli verificatisi, e lo ha condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria di 200.000 euro, con conseguente confisca del profitto del reato.
Si segnala fin da subito che i profili di maggiore interesse della sentenza riguardano le modalità di accertamento processuale della colpevolezza del soggetto collettivo e la fisionomia di tale elemento soggettivo nelle ipotesi in cui il reato presupposto sia commesso da persone fisiche non apicali. Si tratta, infatti, di una delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 7 d.lgs. n. 231 del 2001, in quanto nella quasi totalità dei casi si procede nei confronti dell’ente in occasione di fatti realizzati da apicali.
2. La vicenda ha ad oggetto i rapporti, considerati illeciti, intercorrenti tra due “dipendenti” della società – la responsabile delle vendite di prodotti ortopedici e un’agente di commercio – e un noto specialista in ortopedia, particolarmente esperto in chirurgia “computer assistita” e, all’epoca, direttore della divisione di ortopedia e traumatologia di un ospedale pubblico di Milano.
Nel processo “madre”, il Tribunale aveva condannato le due dipendenti dell’ente e lo specialista per corruzione “propria”. In cambio di elargizioni di denaro a vario titolo (contratti di consulenza, finanziamento della partecipazione a eventi scientifici e a programmi televisivi, dazione di compensi periodici, anche nei confronti del figlio) e di altre utilità, quali la messa a disposizione in sostanziale esclusiva di un “sistema di navigazione assistita”, il primario avrebbe favorito l’acquisto di protesi prodotte dalla società, per un valore di oltre 500.000 euro. Ciò anche dopo l’entrata in vigore dell’Accordo Quadro, a norma del quale la scelta dei prodotti ortopedici da utilizzare presso la struttura milanese doveva avvenire tra quelli forniti da una serie di soggetti aggiudicatari, tra i quali non figurava la società di cui si tratta.
Nel procedimento de societate, invece, è stato contestato all’ente di aver adottato un modello inidoneo a prevenire il reato presupposto di corruzione e, comunque, di averne dato inefficace attuazione. In particolare, non sarebbe stato tempestivamente rilevato e impedito l’accordo occulto oggetto di imputazione nelle sue concrete manifestazioni. Nel capo di imputazione è altresì specificato che le condotte ascritte dalle persone fisiche imputate per il reato presupposto sarebbero state realizzate in violazione del modello organizzativo adottato dalla società, con puntuale indicazione dei protocolli disattesi.
L’accertamento processuale si è concentrato, anche attraverso un consistente apporto dei consulenti tecnici, sull’organizzazione preventiva messa in campo dall’ente e, quindi, sull’idoneità e sull’efficace attuazione delle disposizioni contenute nel modello, con specifico riferimento all’evitabilità dei fatti di reato occorsi.
3. Sul versante oggettivo, il collegio ha riconosciuto in maniera piuttosto agevole la ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito.
Le risultanze dibattimentali hanno restituito un quadro sostanzialmente sovrapponibile, a giudizio del Tribunale, a quello delineato nel processo per il reato presupposto. Non sono dunque emersi ulteriori elementi in grado di far dubitare della sussistenza del fatto di corruzione in relazione al quale l’ente è stato chiamato a rispondere.
Il Tribunale ha ritenuto ampiamente raggiunta la prova anche sulla circostanza che le due dipendenti abbiano agito nell’interesse e a vantaggio dell’ente. Tale ultimo requisito è stato individuato, pur riconoscendone l’obiettiva esiguità per un “colosso” come la società in questione, nella vendita, grazie all’accordo con il primario, di protesi ortopediche prodotte dalla società alla struttura ospedaliera, anche dopo l’entrata in vigore del già citato Accordo Quadro[1]. Il collegio ha peraltro sottolineato come, nel caso di specie, di gran lunga più rilevante sia da ritenersi l’interesse dell’ente ad ingenerare l’evidenza di una stretta correlazione tra i propri prodotti e la chirurgia “computer assistita”, tecnica nella quale lo specialista era leader indiscusso. Da tale associazione sarebbe scaturito un positivo ritorno d’immagine in grado, in futuro, di generare un notevole vantaggio economico[2].
4. Il tema centrale affrontato nella sentenza è, come si è accennato, quello dell’idoneità dell’assetto organizzativo della società a prevenire i contestati fatti di corruzione. Si tratta dell’accertamento della colpa di organizzazione dell’ente quale elemento soggettivo dell’illecito, questione sulla quale, come noto, si sta consolidando nella giurisprudenza di Cassazione un orientamento volto a garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali[3].
A tal proposito, almeno due aspetti paiono degni di nota: non solo il collegio ha condotto un approfondito esame delle misure organizzative predisposte e attuate dalla società, “testandone” l’idoneità preventiva – come peraltro prescritto dal Giudice di legittimità – in relazione al fatto di reato occorso secondo il paradigma colposo, ma ha altresì dato applicazione – evenienza rarissima in giurisprudenza – al criterio di imputazione di cui all’art. 7, affrontando così per la prima volta alcune questioni interpretative di particolare rilievo. Infatti, come evidenziato anche nella sentenza in commento, la giurisprudenza in materia «si è formata totalmente sull’art. 6», non risultando dunque precedenti su buona parte dei temi trattati dal Tribunale[4].
4.1. Il primo comma dell’art. 7 d.lgs. n. 231 prevede la responsabilità dell’ente nei casi in cui il reato sia reso possibile «dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza». Il comma 2 esclude poi tale difetto di direzione o vigilanza in caso di adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Gli ultimi due commi specificano infine alcuni requisiti per l’idoneità e per l’efficace attuazione del modello.
Si tratta di un criterio ascrittivo ritenuto, fin dal principio, ben meno problematico di quello di cui all’art. 6, dal punto di vista della compatibilità con il principio di colpevolezza e con la presunzione di innocenza. È infatti opinione diffusa e condivisa dal Tribunale che – a differenza di quanto avviene con riferimento al criterio previsto per i fatti commessi dagli apicali – la colpa di organizzazione si configuri, già a partire da un’interpretazione letterale, come elemento costitutivo dell’illecito, la cui prova grava sull’accusa[5]. La ragione di una simile differenza strutturale risiede, probabilmente, nella circostanza per cui, in relazione ai dipendenti, non opera il principio di immedesimazione organica, che dovrebbe invece legittimare, nell’ottica del legislatore, l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 6 del decreto in relazione ai reati commessi dagli apicali[6]. A dimostrazione di ciò, si noti che, in caso di reato commesso dal sottoposto, non è neppure richiesta all’ente la prova (diabolica[7]) della fraudolenta elusione del modello da parte dell’autore individuale.
La formulazione del criterio in questione pone, tuttavia, qualche problema interpretativo, affrontato nella decisione in commento. Il tema è, anzitutto, quello del combinato disposto dei commi 1 e 2 della disposizione, che configurano un peculiare meccanismo efficacemente definito “a doppio scatto”[8]. Infatti, il primo comma sembra delineare un paradigma di culpa in vigilando, «in ogni caso» esclusa quando sia stato adottato ed efficacemente attuato un modello idoneo[9].
Ci si domanda, a tal proposito, se il primo comma intenda evocare un difetto di vigilanza imputabile alle persone fisiche che vi sono tenute. La risposta del Tribunale è negativa: «la culpa in vigilando, che integra l'elemento di connessione tra reato ed ente rispetto ai reati commessi dai non apicali, non passa, necessariamente, attraverso la condotta “colposa” di una persona fisica-controllore, ma è (e resta comunque) incardinata nella strutturale colpa di organizzazione, che è una forma di “colpevolezza impersonale”, propria della societas e direttamente riferita all'organizzazione collettiva, anche se innervata – come si è riscontrato anche in questo caso e come si ribadirà in appresso – di condotte inadeguate di individui sovraordinati ai sottoposti cui è ascritto il reato»[10].
4.2. Gli obblighi di direzione e vigilanza debbono quindi essere adempiuti dall’ente attraverso una adeguata organizzazione preventiva: tanto basta ad escluderne la colpevolezza. A questo punto, peraltro, ci si può porre un’ulteriore domanda, ovvero se la mancanza del modello comporti di per sé la responsabilità del soggetto collettivo. Da un lato vi è chi ritiene che l’adozione del MOGC costituisca «modalità tipica ed esclusiva» di adempimento del dovere di corretta organizzazione che grava sulla societas, sussistendo tra il primo e il secondo comma della disposizione un rapporto «specularmente inverso»[11]. Dall’altro, vi è l’interpretazione, sostenuta dalla difesa e non censurata dal Tribunale, secondo la quale neanche l’accertata inidoneità del modello, o la sua mancanza, varrebbero a dimostrare ipso iure la colpevolezza dell’ente.
L’ultima opzione sembra quella più in linea con lo schema della colpa di organizzazione nella sua più moderna configurazione[12]. In primis, occorre notare che il paradigma colposo presuppone che, anche una volta individuata una carenza organizzativa, si accerti che il presidio violato mirasse proprio a evitare o minimizzare il rischio-reato realizzatosi (“corrispondenza del rischio”) e che, se l’organizzazione fosse stata adeguata, l’evento lesivo non si sarebbe verificato (efficacia del “comportamento alternativo lecito”)[13]. Pur in presenza di un modello inidoneo, o in mancanza di questo, potrebbe quindi emergere l’insussistenza dei nessi appena menzionati.
Inoltre, si è fatto notare che il modello di organizzazione formalmente adottato a norma del d.lgs. n. 231 del 2001 non è l’unico presidio di controllo in grado di gestire il rischio-reato: nelle realtà aziendali, spesso, il modello 231 è solo una delle forme di compliance attuata[14]. Come si è efficacemente osservato, del resto, «che la diligenza organizzativa doverosa possa essere comprovata anche attraverso misure alternative parimenti efficaci attinge a un canone logico-normativo» di portata generale[15]. Ciò non toglie, naturalmente, che il modello, o comunque la formalizzazione delle cautele, abbiano una propria valenza preventiva e possano, soprattutto in realtà complesse, risultare talvolta imprescindibili ai fini di una corretta gestione del rischio[16].
Si tratta di un approccio che sta trovando spazio nella recente giurisprudenza di legittimità, che rigetta automatismi punitivi anche quando la società non abbia adottato il modello[17]. Come detto, il Tribunale non disattende l’impostazione difensiva. In particolare, si ammette che l’osservanza degli obblighi di cui ai primi due commi possa prescindere dall’adozione del modello, del resto non obbligatorio[18], ma si chiarisce che l’attenta istruttoria dibattimentale non ha evidenziato protocolli ulteriori rispetto a quelli consolidati nel MOG della società[19].
4.3. Una volta chiariti i connotati generali del paradigma ascrittivo di cui all’art. 7, occorre stabilire quali siano i requisiti di una corretta organizzazione e se, come sembrano indicare gli ultimi due commi della disposizione, essi siano ulteriori o diversi rispetto a quelli più analiticamente descritti nell’art. 6. Il Tribunale, accogliendo un indirizzo maggioritario e ben consolidato nella prassi, esclude che le imprese debbano dotarsi di due distinti modelli organizzativi, uno rivolto agli apicali e uno ai sottoposti[20].
Il dubbio potrebbe sorgere in ragione della differente formulazione delle previsioni che, rispettivamente negli articoli 6 e 7, si riferiscono al modello. Infatti, l’art 6 delinea in maniera piuttosto dettagliata i requisiti generali dei «modelli di organizzazione e gestione», mentre l’art. 7 tratteggia più sinteticamente le caratteristiche del «modello di organizzazione, gestione e controllo». Come osservato dal Tribunale, non sorprende che l’enfasi sia posta sul “controllo”, posto che la prevenzione della commissione di reati da parte dei “sottoposti” passa per un corretto adempimento degli «obblighi di direzione o vigilanza». In particolare, il comma 3 prescrive l’adozione di «misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio», mentre, a norma del comma 4, il modello è efficacemente attuato a condizione che sia oggetto di verifica periodica e modificato quando vengono rilevate «significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività» e contempli un sistema disciplinare idoneo.
Si potrebbe sostenere che, all’interno di un modello unitario, l’ente ben possa predisporre presidi di prevenzione che soddisfino (anche) le indicazioni appena menzionate[21]. Su questa linea sembra attestarsi l’impostazione della difesa, secondo la quale le previsioni di cui all’art. 7 costituirebbero il parametro per valutare l’adeguatezza e l’efficace attuazione del modello (adottato ex art. 6) nell’ipotesi di commissione di un reato presupposto da parte di un soggetto non apicale.
Il Tribunale, peraltro, si spinge oltre l’affermazione dell’unitarietà del modello, giungendo ad affermare che l’art. 7 non prevede parametri differenti rispetto a quelli di cui all’art. 6, neppure con riferimento alla sua idoneità ed efficace attuazione. L’art. 7, c. 3, avrebbe una portata normativa sostanzialmente equivalente a quella della disposizione di cui all’art. 6, c. 2, lett. b); il comma 4, poi, non aggiungerebbe nulla a quanto desumibile a partire dalle previsioni di cui all’art. 6, c. 1, lett. b) e c. 2, lettere d) ed e) [22].
Le argomentazioni spese del collegio paiono espressione di un orientamento interpretativo che tende, ormai da tempo, a una progressiva “unificazione” del criterio di ascrizione della responsabilità all’ente[23]. In effetti, una volta “corretto”, ad opera del Giudice di legittimità, lo schema di cui all’art. 6 in chiave costituzionalmente orientata, non sembra che sia impossibile ipotizzare un unico paradigma ascrittivo fondato sulla colpa di organizzazione. In una simile prospettiva, sarebbe giocoforza affermare l’unitarietà del modello organizzativo, da predisporre sulla base di una lettura “combinata” degli articoli 6 e 7[24].
5. Sembra utile, ora, ripercorrere brevemente alcuni passaggi dello specifico accertamento condotto dal collegio sulla base delle richiamate premesse teoriche. Il Tribunale si propone, in particolare, di vagliare le risultanze dibattimentali alla luce di un giudizio di “prognosi postuma”, prendendo in esame le singole carenze organizzative emerse e valutando la sussistenza di una connessione causale con il reato occorso, rifuggendo quindi da un giudizio “totalizzante”, avente ad oggetto il modello in generale. La dimostrazione delle “anomalie” in grado di fondare la colpa di organizzazione, poi, deve essere fornita dall’accusa, sulla quale grava l’onere della prova (o, per la precisione, il rischio della mancata prova)[25]. Risulta chiaro, in questi passaggi, l’intento di richiamare i principi di diritto affermati nelle più recenti pronunce di legittimità[26].
Innanzi tutto, ritiene il collegio che, in diversi momenti, soggetti investiti di obblighi di direzione e vigilanza abbiano avuto esplicita manifestazione di “anomalie” relative alla fornitura di protesi alla struttura ospedaliera milanese. Ciononostante, non sono stati attivati «flussi informativi idonei affinché il modello operasse nel senso di “scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio” secondo quanto richiesto dall’art. 7, co. 3»[27].
Con specifico riferimento alle dazioni di utilità al primario, poi, il Tribunale evidenzia la carente attuazione del modello. In particolare, si rilevano plurime violazioni, da parte delle funzioni e degli organi preposti, dei protocolli e delle procedure volti a regolare i rapporti di consulenza. Inoltre, perché sia soddisfatto il già richiamato criterio di cui all’art. 7, c. 3, i controlli previsti dal modello avrebbero dovuto attivarsi con efficacia “bloccante”. Vengono, quindi, ritenuti insufficienti i controlli a campione attuati dalla società, rivelatisi inidonei a rilevare l’anomalia caratterizzante l’insieme dei rapporti contrattuali con lo specialista[28]. All’omesso controllo si aggiunge la circostanza, evidenziata dal collegio, che due figure non apicali, inquadrate nell’area marketing, abbiano potuto influenzare il potere di spesa attribuito ad altre direzioni e funzioni.
Un’ulteriore censura riguarda la «sistematica disapplicazione» del sistema disciplinare. Anche in questo caso, si rileva una trasgressione dell’art. 7, nella parte in cui individua, quale presupposto per l’efficace attuazione del modello, un sistema disciplinare idoneo a sanzionarne le violazioni. In particolare, da un lato vengono ritenute inidonee, e contrastanti con le previsioni del modello, le sanzioni comminate alla dipendente dell’area marketing e, dall’altro, si sottolinea la mancata applicazione di sanzioni ai soggetti che hanno violato i propri doveri di direzione e vigilanza[29].
In definitiva, sembra che il Tribunale abbia voluto compiere lo sforzo di calarsi nella concreta dimensione organizzativa dell’ente, procedendo a valutare la sussistenza di colpevoli carenze causalmente connesse alla realizzazione dei fatti di reato contestati alle dipendenti. Quanto meno sul piano del metodo, dunque, pare che la decisione in commento si distanzi dal censurabile approccio fondato sul post hoc, propter hoc, diffuso soprattutto nella giurisprudenza di merito[30].
6. Un ultimo aspetto degno di nota riguarda il trattamento sanzionatorio. A questo riguardo, il collegio ha compiuto, con esito positivo, un vaglio circa l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001. Tale disposizione, che, come noto, configura la più rilevante ipotesi premiale nell’ambito del sistema “231” [31], esclude l’applicazione delle sanzioni interdittive in capo all’ente che abbia posto in essere, prima dell’apertura del dibattimento, una serie di “condotte riparatorie” puntualmente descritte.
In particolare, come riconosciuto dal Tribunale, la società ha risarcito le parti civili costituite nel procedimento contro le persone fisiche e ha messo a disposizione il profitto del reato per la confisca. Quel che più rileva, peraltro, è la positiva valutazione del collegio in merito all’integrazione del requisito di cui alla lettera b), che concerne l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato attraverso l’adozione e attuazione di un modello idoneo.
Infatti, la società ha curato il continuo aggiornamento del modello attraverso interventi quali la mappatura dei nuovi rischi derivanti dai mutamenti nell’organizzazione, l’implementazione di nuovi protocolli, la modifica di quelli esistenti, l’adeguamento alle innovazioni normative (con particolare riferimento alla disciplina sul “whistleblowing” e all’aggiornamento del “catalogo” dei reati presupposto)[32]. Il collegio rileva, poi, che l’Organismo di Vigilanza ha svolto una significativa attività di impulso rispetto all’aggiornamento del modello, oltre ad aver adempimento diligentemente ai propri obblighi di controllo. Infine, la società ha realizzato una continua formazione aziendale sulle misure organizzative adottate.
Sulla base di queste considerazioni, il Tribunale reputa sussistenti i presupposti per l’applicazione dell’art. 17, escludendo così l’applicazione delle sanzioni interdittive, peraltro neppure richiesta dall’accusa. Tra le circostanze attenuanti di cui all’art. 12, poi, il Tribunale ritiene applicabile solo quella di cui al c. 2, lett. a), concernente il risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Non è stata ritenuta applicabile, invece, la lettera b) dello stesso comma, che prevede l’attenuazione della sanzione quando l’ente abbia «adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi». Ad avviso del collegio, tale formulazione non sarebbe del tutto sovrapponibile a quella di cui all’art. 17, c. 1, lett. b), poiché “rendere operativo” un modello costituirebbe un quid pluirs rispetto alla sua semplice “attuazione”.
[1] Cfr. la decisione in commento, p. 168 e p. 178.
[2] Per queste considerazioni cfr., ancora, la sentenza in esame, p. 168.
[3] Si rinvia, sul tema, ai commenti alla recente sentenza sul caso Impregilo, Cass., Sez. VI, 15 giugno 2022, n. 23401: C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”, in questa Rivista, 2022; E. Fusco, C.E. Paliero, L’“happy end” di una saga giudiziaria: la colpa di organizzazione trova (forse) il suo tipo, in questa Rivista, 9/2022, p. 115 ss.; F. Centonze, Il crimine dell’«attore decisivo», i limiti della compliance e la prova «certa» della colpa di organizzazione – riflessioni a margine della sentenza “Impregilo”, in Cass. Pen., 12/2022, p. 4383 ss.; G. De Simone, Si chiude finalmente, e nel migliore dei modi, l’annosa vicenda Impregilo, in Giur. It., 12/2022, p. 2758 ss.; S. Renzetti, Epilogo della “saga Impregilo”: verso la realizzazione di un “sistema integrato” di responsabilità da reato degli enti, in Giur. comm., 1/2023, p. II, p. 98 ss.
[4] Tra i pochi precedenti, si menziona nella sentenza Cass., sez. VI, 25 settembre 2018, n. 54640. Nella decisione, la Corte esclude che violi il principio di correlazione tra imputazione e sentenza la condanna dell’ente emessa attribuendo al soggetto agente la qualità di “sottoposto” anziché di apicale, come indicato nell’originaria imputazione. Particolarmente critico, al riguardo, M. Ceresa Gastaldo, Procedura penale delle società, Torino, 2021, 197.
[5] V., per tutti, C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, p. 334; G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, Pisa, 2012, p. 394. P. Ferrua, Il diritto probatorio, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. II: Diritto processuale, Torino, 2020, p. 107, ritiene invece che la prova dell’adozione ed attuazione del modello gravi sull’ente, trattandosi di un “fatto impeditivo”.
[6] Sul punto v. C. De Maglie, L’etica e il mercato, cit., loc. ult. cit.
[7] Per tutti, P. Ferrua, Diritti umani e tutela degli enti nel processo, in Dir. pen. proc., 6/2016, p. 706.
[8] Così G. De Simone, Persone giuridiche, cit., loc. ult. cit.
[9] Cfr., sul tema, G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro, Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. 4, Milano, 2008, p. 189 ss. Pur non essendo possibile soffermarsi, in questa sede, sull’articolato dibattito dogmatico, si segnala che autorevole dottrina inquadra la fattispecie come un’ipotesi di agevolazione colposa: v. C.E. Paliero, Art. 7, Soggetti sottoposti all’altrui direzione e modelli di organizzazione dell’ente, in M. Levis, A. Perini (a cura di), Il 231 nella dottrina e nella giurisprudenza, Bologna, 2021, p. 267 s.; G. Forti, Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. n. 231/2001, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2012, 1263 s.
[10] Così si esprime il Tribunale a p. 204; in questo senso, per tutti, M. Scoletta, La disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi, in G. Canzio, L. Lupária (a cura di), Diritto e procedura penale delle società, Milano, 2022, 1037 s.
[11] Così G. De Vero, La responsabilità penale, cit., p. 192 s.
[12] È il caso di osservare che, volendo adottare un’impostazione coerente con il paradigma della colpa di organizzazione, si dovrebbe ritenere superflua la dimostrazione di una condotta colposa in capo a un apicale, una volta accertata la disorganizzazione dell’ente collettivo. In questo senso R. Bartoli, Alla ricerca di una coerenza perduta… o forse mai esistita, in R. Bartoli, Alla ricerca di una coerenza perduta … o forse mai esistita. Riflessioni preliminari (a posteriori) sul “sistema 231”, in R. Borsari (a cura di), Responsabilità da reato degli enti. Un consuntivo critico, Padova, 2016, p. 13 ss. e in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org., p. 15 s., il quale ritiene che una simile limitazione, seppure in bonam partem, non superi un vaglio di ragionevolezza.
[13] È lo schema delineato, da ultimo, dalla già richiamata decisione sul caso Impregilo, Cass., Sez. VI, 15 giugno 2022, n. 23401, la quale, pur incentrata sull’art. 6, sembra aver dettato dei principi validi per l’accertamento della colpevolezza organizzativa in genere. Sul tema cfr., per tutti, C.E. Paliero, La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e individuale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, p. 210 ss.
[14] Così O. Di Giovine, Il criterio di imputazione soggettiva, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. I, Torino, 2020, p. 215.
[15] In questi termini V. Mongillo, La colpa di organizzazione: enigma ed essenza della responsabilità “da reato” dell’ente collettivo, in Cass. Pen., n. 3/2023, p. 724, il quale osserva che, in tal caso, l’ente auto-organizzatosi non avrebbe dato corso a un rischio giuridicamente non consentito.
[16] In questo senso, ancora, V. Mongillo, La colpa di organizzazione, cit., p. 725.
[17] Cfr. Cass., Sez. IV, 06/09/2021, n. 32899; Cass., Sez. IV, 10 maggio 2022, n. 18413; Cass., Sez. IV, 28 novembre 2022, n. 45131.
[18] Il Tribunale afferma che il modello organizzativo non costituisce un obbligo per i destinatari della disciplina “231” ma, piuttosto, «un onere (un’opportunità, in un certo senso)» (p. 203). In senso conforme, per tutti, O. Di Giovine, Il criterio di imputazione soggettiva, cit., p. 214 s.; contra D. Pulitanò, La responsabilità "da reato" degli enti: i criteri d'imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2002, p. 431, il quale osserva come l’adozione del modello costituisca un dovere degli apicali, e dell’ente che “impersonano”, in caso di reati commessi dai sottoposti, come si può evincere dalla lettera dell’art. 7.
[19] V. la decisione in esame, p. 204.
[20] Cfr., sul punto, A. Gullo, I modelli organizzativi, in G. Lattanzi, P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. I, cit., p. 250 ss.; C.E. Paliero, Art. 7, Soggetti sottoposti all’altrui direzione e modelli di organizzazione dell’ente, in M. Levis, A. Perini (a cura di), Il 231 nella dottrina e nella giurisprudenza, Bologna, 2021, p. 278 s.; R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti e paradigmi di validazione dei modelli organizzativi. Esperienze comparate e scenari di riforma, Torino, 2022, p. 111 s.
[21] In questo senso, C.E. Paliero, Art. 7, Soggetti sottoposti all’altrui direzione, cit., p. 278 s., il quale afferma che gli enti possono predisporre «un unico programma di prevenzione che soddisfi simultaneamente i requisiti normativi previsti dagli art. 6 e 7 considerati en bloc»; con una sfumatura diversa O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Milano, 2010, p. 120 s., la quale ritiene che «ferma restando l’identità di genus, il modello, nel caso dei sottoposti, avrà un contenuto diverso e ulteriore rispetto a quello indirizzato agli apici», nulla impedendo che i due modelli possano essere riuniti in un unico documento.
[22] In questo senso la decisione in commento, p. 205 e, più approfonditamente, p. 211 ss.
[23] Cfr., sul punto, R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti, cit., p. 110 s.; la definitiva unificazione del criterio di imputazione, attraverso la piena valorizzazione della colpa di organizzazione anche a livello legislativo, è una soluzione auspicata in ottica de iure condendo: cfr., sul punto, V. Mongillo, La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Torino, 2018, p. 432; O. Di Giovine, S. Dovere, C. Piergallini, La responsabilità dell’ente nel d.lgs. n. 231 del 2001: paradigmi imputativi e prospettive di riforma, in F. Centonze, S. Manacorda, Verso una riforma della responsabilità da reato degli enti. Dato empirico e dimensione applicativa, Bologna, 2023, p. 371 s.
[24] V. A. Gullo, I modelli organizzativi, cit., 251.
[25] In questo senso si esprime il Tribunale, p. 206 s.
[26] Da ultimo, per alcuni riferimenti, sia consentito il rinvio a L. Parodi, Illecito dell’ente e colpa di organizzazione. Una recente conferma della traiettoria garantista tracciata dalla giurisprudenza di legittimità, in questa Rivista, 2 marzo 2023.
[27] V. la sentenza, p. 208.
[28] Cfr., ancora, la sentenza in commento, p. 131 ss. e 210.
[29] Così si legge nel provvedimento, p. 143 e ss. e p. 211.
[30] Sul tema, v. A. Gullo, I modelli organizzativi, cit., p. 268 ss., V. Manes, A.F. Tripodi, L’idoneità del modello organizzativo, in F. Centonze, M. Mantovani (a cura di), La responsabilità “penale” degli enti. Dieci proposte di riforma, Bologna, 2016, p. 137 ss.; R. Sabia, Responsabilità da reato degli enti, cit., p. 138 ss.
[31] Sul tema v., per tutti, P. Severino, La responsabilità dell’ente ex d.lgs. n. 231 del 2011: profili sanzionatori e logiche premiali, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione, vol. II, Milano, 2018, p. 1116 ss.; F. Mazzacuva, L’ente premiato. Il diritto punitivo nell'era delle negoziazioni: l’esperienza angloamericana e le prospettive di riforma, Torino, 2020, 278 ss.
[32] Cfr. il provvedimento in esame, p. 215 ss.