D.d.l. 1660/C recante “disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario
*Contributo pubblicato nel fascicolo 5/2024.
1. Il 16 novembre 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un Disegno di legge – su iniziativa del Ministero dell’Interno, del Ministero della Giustizia e del Ministero della Difesa – «recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario». Come si evince già dalla denominazione del d.d.l. – e dai toni del comunicato stampa che ne ha immediatamente reso nota l’approvazione[1] – le modifiche intervengono in ambiti, piuttosto eterogenei, il cui denominatore comune può essere letto nella volontà di far fronte a una generalizzata esigenza di maggiore sicurezza a fronte di fenomeni considerarsi di importante allarme sociale.
Rinviando ad altre sedi per un commento sull’intero testo della proposta[2], ci si concentrerà qui sugli artt. 18 e 19 del d.d.l.[3] che introducono due nuove fattispecie incriminatrici – la prima all’interno del codice penale e la seconda all’interno del TU Immigrazione – volte a mantenere la sicurezza degli istituti penitenziari e delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, punendo gli episodi di “rivolta”.
È doveroso premettere come tale proposta di legge sia stata presentata alla Camera il 22 gennaio e sia attualmente oggetto di discussione nelle Commissioni competenti e dunque suscettibile di interventi modificativi anche sostanziali; tuttavia, pare opportuno sin da ora sottolineare alcuni profili critici del testo di legge così come è stato presentato, formulando qualche prima considerazione sulle possibili conseguenze del nuovo intervento normativo.
2. Il nuovo art. 415 bis c.p. L’art. 18 del d.d.l.[4] si propone di introdurre nell’ordinamento una nuova norma, l’art. 415 bis c.p., rubricata “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che, per maggior chiarezza, riporteremo per intero:
«Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni.
Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da tre a dieci anni.
Se dalla rivolta deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è della reclusione da dieci a venti anni.
Le pene di cui al quarto comma si applicano anche se la lesione personale o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa».
2.1 Una prima analisi del dato normativo. Innanzitutto, è possibile inquadrare la fattispecie come reato proprio, poiché le condotte penalmente rilevanti vengono circoscritte a quelle poste in essere da chi si trova all’interno di un istituto penitenziario, condizione soggettiva necessaria ai fini della configurabilità del reato di rivolta. Si tratta altresì di una fattispecie necessariamente plurisoggettiva in quanto la norma richiede, perché sia integrato il reato, che le condotte tipiche siano poste in essere da tre o più persone riunite.
Quanto al bene giuridico tutelato, la norma è collocata all’interno del Titolo V del Libro II del codice penale, tra i delitti contro l’ordine pubblico. Con riferimento ai reati contenuti in detto titolo, dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate al fine di identificare con precisione il contenuto del bene giuridico tutelato, che per molti Autori rimane ancora dai confini indefiniti. Rinviando ad altre sedi una più approfondita analisi del tema[5], ci si limiterà qui a sottolineare come, secondo larga parte della dottrina, al concetto di ordine pubblico in senso “ideale” (o normativo) – suscettibile di essere leso dalla semplice manifestazione del dissenso politico-ideologico – debba preferirsi il concetto di ordine pubblico in senso “materiale” (o empirico), capace di selezionare come penalmente rilevanti solo quelle condotte che si risolvano in una concreta minaccia per la vita collettiva[6]. Ed è sulla scorta di queste considerazioni che, come si avrà modo di specificare, andrebbe interpretata anche la nuova fattispecie incriminatrice.
Quanto alla condotta incriminata – su cui ci soffermeremo più diffusamente nel corso dei prossimi paragrafi – la norma punisce l’evento della rivolta in carcere, sanzionando alternativamente la promozione, organizzazione e direzione della rivolta (con la reclusione da due a otto anni) o la semplice partecipazione alla stessa (con la reclusione da uno a cinque anni). Si tratta altresì di un reato a forma vincolata, in quanto la norma prevede espressamente le condotte tipiche ai fini dell’integrazione dello stesso: in particolare si tratta di atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero tentativi di evasione.
Con riferimento ad alcune delle condotte tipiche previste per l’integrazione del reato in esame, lo stesso può considerarsi plurioffensivo, comportando le stesse una lesione di beni giuridici diversi e ulteriori rispetto all’ordine pubblico: si pensi ad esempio alla condotta di tentata evasione, la quale lede l’interesse al rispetto delle decisioni dell’Autorità giudiziaria; o la violenza o la minaccia, condotte che risultano lesive dell’incolumità fisica e della libertà morale della persona (oltre a una possibile lesione del buon andamento della PA nel caso – assai probabile – in cui le condotte siano poste in essere ai danni di pubblici ufficiali[7]).
Sono inoltre previste una serie di ipotesi aggravate che contemplano i casi di utilizzo delle armi e di lesione personale o morte di taluno derivante dalla rivolta (anche se la lesione o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza della stessa).
Da ultimo, giova sottolineare un aspetto non secondario: infatti, l’art. 25 del d.d.l., mediante modifica dell’art. 4 bis, comma 1 ter, ord penit., ricomprende il reato di cui all’ art. 415 bis c.p. all’interno del novero dei reati c.d. “ostativi”, rendendo più difficile l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione in carcere.
2.2. Le condotte tipiche della nuova fattispecie incriminatrice. Come anticipato, si dedicherà particolare attenzione all’analisi delle condotte tipiche previste dalla norma; innanzitutto, si ritiene interessante notare come la formulazione dell’art. 415 bis c.p. ricalchi perfettamente le ipotesi tipiche previste dall’art. 41 ord. penit. (l. 26 luglio 1975, n. 354)[8] che legittima l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti. Come è noto, si tratta di una norma che individua i casi eccezionali in cui, rendendosi indispensabile per fronteggiare un pericolo serio e attuale per l’ordine e la sicurezza degli istituti, il personale di polizia penitenziaria può ricorrere all’uso della forza fisica nei confronti dei detenuti: ciò risulta possibile “per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”. Dunque, pur tenendo conto della distinta finalità delle due norme, tale circostanza ci permetterà di richiamare le riflessioni dottrinali e la casistica giurisprudenziale che si è sviluppata intorno all’art. 41 ord. penit. al fine di meglio inquadrare la nuova fattispecie incriminatrice. Si premette che, ad avviso di chi scrive, la circostanza che le condotte tipiche del nuovo art. 415 bis c.p. siano già enucleate, con identica formulazione, dall’art. 41 ord. penit. non pone al riparo la nuova norma da eventuali osservazioni critiche, per due ordini di motivi: in primo luogo, si tratta in questo caso di una norma che modifica il perimetro delle azioni penalmente rilevanti – finalità non perseguita dall’art. 41 ord. penit. – e in secondo luogo poiché già con riferimento a quest’ultima fattispecie erano stati sollevati alcuni dubbi critici in ordine alla scarsa precisione delle condotte descritte, come si avrà modo di esplicitare meglio in sede di conclusioni.
Vi è poi un’ulteriore precisazione da fare, in quanto le condotte tipiche identificate dalla norma possono essere distinte in due tipologie: da un lato vi sono condotte (violenza, minaccia e tentativi di evasione) già riconducibili ad altre norme incriminatrici; dall’altro lato invece si osserva l’incriminazione della condotta di “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti” – sempre qualora la stessa costituisca un contributo all’episodio di rivolta – che fino ad oggi risultava esclusa dal perimetro dell’azione penale, sulla quale appare interessante svolgere qualche riflessione ulteriore.
Innanzitutto, è doveroso sottolineare come la formulazione della fattispecie risulti particolarmente ampia, tralasciando di specificare con maggiore precisione le condotte a essa riconducibili, in quanto è facile immaginare come in un contesto di rivolta carceraria numerose azioni o mere omissioni potrebbero essere ricondotte a una “resistenza, anche passiva, all’esecuzione di ordini impartiti”, dovendo altresì notare come manchi il riferimento a ordini che siano quantomeno legittimamente impartiti.
Proprio con riferimento alle ipotesi di resistenza passiva è possibile procedere, al fine di meglio inquadrare quali condotte sarebbero riconducibili a tale definizione, con un’analisi della giurisprudenza in ordine al delitto di cui all’art. 337 c.p., che punisce la resistenza a un pubblico ufficiale[9]. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere escluso dal novero di comportamenti punibili ai sensi dell’art. 337 c.p. ogni condotta riconducibile a una mera disobbedienza o resistenza passiva, ritenendo penalmente rilevante solo un comportamento attivo, che integri una violenza o una minaccia[10]. Vengono dunque unanimemente ritenuti penalmente irrilevanti atteggiamenti di mancata collaborazione o di assoluta inerzia, fino a ricomprendere nel concetto di resistenza passiva anche una reazione “spontanea e istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale” che non si traduca nell’uso della forza al fine di impedirne l’azione.[11]
Per quanto attiene al contesto intramurario può richiamarsi a titolo di esempio una recente pronuncia della Corte d’Appello di Cagliari[12]. Nel caso di specie il collegio giudicante non ha ritenuto integrato il reato di cui all’art. 337 c.p. in capo a due detenuti i quali, per evitare che un agente di polizia penitenziaria allocasse un nuovo detenuto nella loro cella, si posizionavano fisicamente davanti alla porta della stessa. Infatti, pur avendo manifestato il loro dissenso in modo “energico e inequivocabile”, la sola condotta descritta, che non si è protratta per più di un minuto, non configurava, secondo i giudici, un’azione intimidatoria o violenta: per questo motivo la Corte ha ritenuto che, pur sussistendo i presupposti per una sanzione disciplinare, il contegno dei detenuti fosse rimasto nel perimetro della resistenza passiva (e dunque della mancata esecuzione di un ordine impartito), giungendo ad escluderne la punibilità.
Infatti, come ricorda anche la citata pronuncia, il fatto che la resistenza passiva risulti attualmente penalmente irrilevante non significa che l’inosservanza degli ordini impartiti rimanga esente da qualsivoglia conseguenza: l’art. 77 reg. es. ord. pen. (d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230) – cui l’art. 38 ord. penit. rinvia per la tipizzazione delle infrazioni disciplinari – prevede tra le condotte cui può conseguire una sanzione disciplinare di cui all’art. 39 ord. penit. anche l’«inosservanza di ordini o prescrizioni o ingiustificato ritardo nell’esecuzione di essi».[13] Dunque, appare opportuno domandarsi se a fronte della presenza di uno strumento nell’ordinamento volto a far fronte a tali condotte – cioè quello del procedimento disciplinare – sia necessario far rientrare questa fattispecie nel campo di azione del diritto penale, con conseguenze anche importanti in punto di trattamento sanzionatorio.
3. Il reato di rivolta nei luoghi di accoglienza e trattenimento dei migranti. Si giunge ora all’esame della fattispecie gemella dell’art. 415 bis c.p. che l’art. 19 del d.d.l. intende introdurre nell’ordinamento, cioè il reato di rivolta commesso in strutture “di trattenimento e accoglienza per migranti”[14]. Infatti, mediante una modifica dell’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (norma del TU Immigrazione che disciplina l’esecuzione del provvedimento di espulsione dello straniero irregolare) si intendono punire le stesse condotte di cui all’art. 415 bis c.p. nel caso in cui la rivolta avvenga in una serie di strutture – elencate mediante una serie di rinvii normativi, a perfetta esemplificazione della frammentarietà e disorganicità delle norme in tema di immigrazione nel nostro ordinamento – genericamente riconducibili all’accoglienza e al trattenimento delle persone migranti. Essendo le due nuove norme incriminatrici del tutto sovrapponibili[15], per un’analisi della fattispecie si rinvia a quella appena svolta con riferimento all’art. 415 bis c.p., mentre ci si soffermerà ora su alcuni profili di criticità specifici della norma prevista per le strutture di accoglienza e trattenimento delle persone migranti, che si sommano alle criticità comuni alle due fattispecie di cui si parlerà in sede di considerazioni conclusive.
Il primo profilo di criticità riscontrabile in tale nuova fattispecie incriminatrice riguarda proprio l’individuazione dei luoghi in cui la norma dovrebbe operare, rivolgendosi alle persone migranti pressoché in ogni fase della loro permanenza in Italia. Infatti, l’elenco delle strutture citate dalla norma rimanda ai Centri di Permanenza per il Rimpatrio, c.d. CPR (disciplinati dallo stesso art. 14 TU Immigrazione), ai punti di crisi per l’identificazione, c.d. hotspot (di cui all’art. 10 ter TU Immigrazione), ai centri di governativi di prima accoglienza (di cui all’art. 9 del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142), ai Centri di accoglienza straordinaria, c.d. CAS (di cui all’art. 11 del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142) e infine alle strutture afferenti al Sistema di accoglienza e integrazione, c.d. SAI (di cui all’art. 1 sexies del d.l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla l. 28 febbraio 1990, n. 39). Non è questa la sede per approfondire la complessa materia dell’accoglienza delle persone migranti nel nostro paese,[16] tuttavia appare evidente come la norma elenchi tutte le strutture che i migranti si trovano ad “attraversare” (talvolta in condizioni di detenzione de facto[17]) durante il loro percorso migratorio in Italia: dal momento dell’identificazione nei punti di crisi appena dopo l’arrivo sul territorio nazionale, passando per la permanenza nelle diverse strutture che accolgono i migranti a vario titolo (richiedenti asilo prima, titolari di una forma di protezione poi), per finire con la fase del trattenimento pre-espulsivo presso i CPR. Dunque, ci troviamo di fronte a un intervento indirizzato alla generalità della popolazione migrante: non solo al soggetto già destinatario di un provvedimento di espulsione, ma anche a chi ha regolarizzato la propria posizione sul territorio nazionale ed è destinatario di misure di accoglienza da parte dello Stato.
Tale rilievo permette di constatare come, anche in questo caso, così come già evidenziato in relazione all’art. 415 bis c.p., l’intenzione del legislatore sembra quella di punire più che una condotta un “tipo” di autore, in questo caso il migrante[18] (irregolare, richiedente asilo, minore straniero non accompagnato o rifugiato), con una pericolosa tendenza all’accostamento, già a partire dalla proposta di legge, della figura della persona migrante a quella del detenuto[19]. Infatti, sebbene questa scelta di criminalizzazione non rientri in quella direttrice della crimmigration legata alla “criminalizzazione diretta in senso stretto del migrante” – cioè di quei reati propri dello straniero, posti a tutela dell’interesse dello Stato al controllo di flussi migratori[20] – è indubbio come contribuisca a una stigmatizzazione del soggetto migrante, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica.
Da ultimo è utile rilevare come, analogamente a quanto accade per gli istituti penitenziari, si tratti spesso di strutture caratterizzate da gravi carenze in termini di garanzie e rispetto dei diritti delle persone ospitano – ciò vale in primo luogo per i CPR ma spesso le stesse violazioni dei diritti umani fondamentali vengono riscontrate all’interno dei c.d. CAS o dei c.d. hotspot.[21] Anche in questo caso dunque la scelta non è stata quella di intervenire a monte, attraverso un ripensamento del sistema di accoglienza e trattenimento della persona migrante in Italia, ma con una norma che punisce severamente chi manifesta una situazione di disagio anche in forma pacifica[22].
4. La fattispecie di rivolta in carcere in una prospettiva comparatistica. Dopo aver analizzato alcuni profili riguardanti l’ordinamento interno a confronto con la fattispecie di resistenza passiva, risulta interessante rivolgere lo sguardo oltre i confini nazionali e indagare, seppur brevemente, come altri ordinamenti si rapportano al fenomeno della rivolta all’interno degli istituti penitenziari, ai fini di una valutazione più completa circa l’opportunità della nuova scelta di criminalizzazione del legislatore. Da una prima analisi di alcuni sistemi tra quelli dei Paesi occidentali emerge come vi siano altri ordinamenti che incriminano le condotte di ammutinamento o sommossa all’interno degli istituti penitenziari; tuttavia, come ci si accinge a illustrare, in nessuno dei casi studiati l’estensione della fattispecie risulta equiparabile a quella che si propone di introdurre nel nostro ordinamento.
4.1. Il reato federale di sommossa e ammutinamento in carcere negli Stati Uniti. Una prima fattispecie che prevede il reato di ammutinamento e sommossa commesso in istituto penitenziario federale sussiste nel sistema statunitense[23]: la norma punisce le condotte di istigazione, organizzazione, cospirazione e partecipazione alla sommossa o ammutinamento, con la pena della reclusione fino a dieci anni. Data la vaghezza del dato normativo, al fine di comprendere quali fattispecie vengano ricondotte al reato in esame è possibile rifarsi alla pronuncia United States v. Bey del 1982[24]. Il caso traeva origine da un episodio di disordine verificatosi in un istituto penitenziario ad Atlanta in Georgia: la Corte in questo caso si interroga sul significato da attribuire alla norma, non essendoci una interpretazione univoca della fattispecie di ammutinamento. Infatti, in una precedente pronuncia veniva ricondotto alla fattispecie in esame «ogni caso in cui i detenuti oppongono resistenza al direttore o ai suoi subordinati nell’esercizio libero e legittimo della loro autorità legale».[25] Tuttavia, la Corte nel caso di cui si tratta giudica non applicabile tale interpretazione in quanto – oltre a far riferimento a ulteriore precedente avente ad oggetto fattispecie diversa, l’ammutinamento dell’intero equipaggio su una nave – la ritiene eccessivamente estesa. La Corte precisa, dunque, come non si possa sussumere nella fattispecie di sommossa e ammutinamento «qualsiasi infrazione minore della disciplina carceraria», poiché in tal caso ogni minima violazione disciplinare integrerebbe un reato federale. In conclusione, pur confermando la condanna per ammutinamento dei due imputati, la Corte precisa come tale decisione dipenda dalle circostanze del fatto – che hanno implicato un uso della violenza da parte dei detenuti nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria – mentre il reato non sarebbe risultato integrato se gli imputati si fossero limitati al rifiuto di eseguire l’ordine impartito (cioè quello di consegnare gli attrezzi per la pulizia) né se si fossero semplicemente rifiutati di lasciare la cella.
Tale interpretazione trova conferma in altra pronuncia successiva, United States v. Overstreet del 1997,[26] in cui la Corte ritiene che l’ammutinamento richieda «qualcosa di più della semplice resistenza alle autorità o della mera violazione di una regola», demandando al sistema disciplinare la punizione di condotte meno gravi, quali la mancata esecuzione di ordini che non sfoci in un comportamento aggressivo e distruttivo.
4.2. La fattispecie di ammutinamento in carcere nel Regno Unito alla luce delle linee guida del Crown Prosecution Service. Analoga previsione che punisce l’ammutinamento in contesti carcerari esiste anche nel Regno Unito[27]: il Chapter 25, section 1 del Prison Security Act ritiene integrato il reato di ammutinamento ogniqualvolta due o più detenuti «mettano in atto una condotta volta a promuovere uno scopo comune di rovesciare la legittima autorità del carcere».
Con riferimento a tale previsione, il comma 6 specifica che il reato si considera integrato anche mediante condotta omissiva e inoltre il comma 4 stabilisce che anche chi, durante un ammutinamento in carcere, abbia deliberatamente scelto di non eseguire un ordine legittimo dell’autorità, senza giustificato motivo, sarà considerato come partecipante all’ammutinamento. Ad una prima lettura la fattispecie sembra ricomprendere anche le condotte di inosservanza degli ordini impartiti e dunque di resistenza passiva; tuttavia, il Crown Prosecution Service (CPS) ha dettato alcune importanti linee guida in materia,[28] che permettono di comprendere quali casistiche possano essere ricondotte alla fattispecie di ammutinamento in carcere. Viene innanzitutto premesso che l’azione penale per il reato di ammutinamento è da considerarsi giustificata solo in casi di “disordini gravi” e in ogni caso è da considerarsi fattispecie residuale poiché risulta preferibile l’imputazione per altri titoli di reati contro l’ordine pubblico, contro la persona o contro il patrimonio, anche se i fatti sono avvenuti in carcere. Si specifica inoltre come rimanga a disposizione di chi gestisce gli istituti penitenziari lo strumento del procedimento disciplinare che può essere instaurato per condotte meno gravi quali la “disobbedienza a un ordine legittimo” o il comportamento che consiste nel “negare a un agente penitenziario l’accesso a una parte della struttura”: in questi casi il CPS sostiene che la possibilità di procedere con una sanzione disciplinare renderebbe superfluo un procedimento giudiziario.
In secondo luogo, con riferimento al comma 4 si specifica come la finalità della norma si quella di disincentivare il sostegno, da parte di altri detenuti, a chi sta organizzando e dirigendo l’ammutinamento, rendendo – con la mancata esecuzione dell’ordine di evacuare la cella, ad esempio – più difficile l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria che mirano a ripristinare una situazione di ordine. Tuttavia è da notare come tale reato, sempre secondo le linee guida del CPS, possa essere contestato solo nel caso in cui un ammutinamento sia già in corso e “non per punire la semplice contestazione dell’autorità legittima in altri contesti”: dunque tale norma non può essere usata per punire – oltretutto con pena piuttosto severa – la mera disobbedienza in contesti diversi da quelli di una rivolta già in atto, non potendosi sostenere che la mancata esecuzione di ordini legittimi, in assenza di comportamenti più gravi, possa da sola integrare la fattispecie di ammutinamento o rivolta.
4.3. Il reato di ammutinamento in carcere nel codice penale tedesco. Da ultimo si può notare come anche il sistema tedesco conosca una fattispecie simile di ammutinamento in carcere che punisce, con la pena della reclusione da tre mesi a cinque anni, i detenuti che, in gruppo, adottino atteggiamenti coercitivi o aggressivi nei confronti del personale dell’istituto penitenziario, evadano o favoriscano l’evasione di altro detenuto.[29] Sono previste inoltre fattispecie aggravate nel caso in cui vi sia stato l’utilizzo di armi oppure se taluno si sia trovato in pericolo di vita o di una lesione grave in conseguenza delle condotte di ammutinamento. In questo caso già il dato normativo, che tipizza le condotte penalmente rilevanti, rende evidente come il reato possa risultare integrato solo da comportamenti attivi, che devono essere qualificati come violenti o coercitivi, non rilevando in nessun caso la mera disobbedienza a ordini impartiti.
In conclusione, dalla pur breve analisi della situazione in altri ordinamenti è possibile affermare come nessuna delle fattispecie richiamate – per espressa previsione normativa o alla luce dell’interpretazione che ne viene fornita – possa dirsi equiparabile al testo del nuovo art. 415 bis c.p. che si propone di introdurre. Infatti, sebbene negli ordinamenti analizzati esistano fattispecie ad hoc per far fronte al fenomeno della rivolta in carcere, in nessun caso le stesse si spingono a ricomprendere condotte di mera disobbedienza o resistenza passiva (comportamenti su cui potrà intervenire nel caso una sanzione disciplinare), limitandosi a punire i fatti più gravi che sfociano in comportamenti violenti, i quali ovviamente – giova sottolinearlo di nuovo – trovano già rilevanza penale nel nostro ordinamento.
5. Alcune riflessioni critiche e possibili profili di illegittimità costituzionale. Come già ricordato, il disegno di legge si trova attualmente in discussione in sede di Commissione parlamentare, dunque l’iter per l’approvazione è tutt’altro che concluso e pertanto il testo è suscettibile di essere modificato anche in maniera rilevante. Tuttavia, si ritiene utile formulare qualche breve considerazione conclusiva sul testo ad ora presentato, evidenziandone le principali criticità e i prospettabili profili di illegittimità costituzionale.
In primo luogo è da sottolineare come l’art. 415 bis c.p. e la fattispecie gemella inserita nel TU Immigrazione rischino di rivelarsi di scarsa utilità pratica, in quanto, ad eccezione di una fattispecie su cui ci soffermeremo, non innovano né in punto di fattispecie penalmente rilevanti né in punto di trattamento sanzionatorio: infatti le condotte di violenza, minaccia e tentativi di evasione sono riconducibili, a seconda dei casi, a fattispecie di evasione nella forma del tentativo, danneggiamento, lesioni personali, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale, fino ad arrivare al reato di devastazione e saccheggio che è punito con la reclusione fino a quindici anni[30]. L’unica condotta tipica che ad oggi risulta esclusa dall’area del penalmente rilevante, e che invece integrerebbe un fatto di reato alla luce delle nuove norme incriminatrici, è dunque quella della “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”. Proprio l’incriminazione di tale condotta – la cui formulazione particolarmente ampia permette di includere qualsiasi inosservanza di un ordine dell’autorità fino a ricomprendere le forme più comuni di protesta pacifica che i detenuti sono soliti attuare come strumento di esercizio della propria libertà di manifestazione del pensiero, quali la battitura delle sbarre o lo sciopero della fame – rischia di presentare, ad avviso di chi scrive, alcuni profili di illegittimità costituzionale.
In primo luogo, può ravvisarsi nella formulazione delle nuove fattispecie incriminatrici un difetto di precisione del dato normativo. Infatti, come già sottolineato in precedenza, il legislatore omette di specificare in maniera chiara quali siano le condotte riconducibili alla definizione di “resistenza passiva”, non richiedendo neppure che si tratti dell’inosservanza di un ordine legittimamente impartito, con il rischio che in un contesto di rivolta carceraria un numero consistente di condotte, anche omissive, possa essere ricompreso all’interno dei contorni, scarsamente definiti, di tale norma incriminatrice.
Infatti, come è già stato notato dalla dottrina sia in riferimento all’identica formulazione dell’art. 41 ord. penit. sia in relazione all’inosservanza degli ordini impartiti che integra una infrazione disciplinare[31], la formulazione difetta di una specificità a nostro avviso necessaria in ordine alla delimitazione delle condotte a essa riconducibili, rendendosi senza dubbio doverosa una riflessione ulteriore dal momento che ci si confronta ora con una proposta di criminalizzazione di tale condotta.
Dunque, anche in considerazione dello specifico contesto all’interno del quale le norme sarebbero destinate a operare, le fattispecie incriminatrici, per come formulate attualmente, aprono ad alcuni dubbi in punto di compatibilità con il principio di precisione, rischiando di risolversi in una violazione del principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2 Cost.
In secondo luogo, sempre con specifico riferimento alle condotte di resistenza passiva, appare possibile sollevare qualche dubbio in tema di rispetto del principio di offensività. Infatti, se il bene giuridico tutelato dalla norma può essere individuato nell’ordine pubblico – nella sua accezione “materiale” come richiede la dottrina maggioritaria – la condotta della mera disobbedienza a un ordine impartito risulta difficilmente in grado di arrecare una lesione, anche nella forma del pericolo, a detto bene giuridico. Infatti, in assenza di specificazioni ulteriori con riferimento alle circostanze e al tipo di ordine che eventualmente non viene eseguito, la norma risulta carente di una valutazione in termini di pericolo della condotta, non potendosi rinvenire in concreto (ma probabilmente nemmeno in astratto) quel minimo di offensività richiesto per l’incriminazione penale.
Già con riferimento all’art. 41 ord. penit., che pure non rappresenta una norma incriminatrice, è stato osservato in dottrina come la formulazione «resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti» rischiasse di aprire la strada a un uso discrezionale della forza fisica, anche a fronte di condotte non particolarmente offensive.[32]
Infatti, come già illustrato, in un contesto come quello di una rivolta carceraria, il novero di condotte astrattamente riconducibili a tale formulazione risulterebbe particolarmente vasto, fino a ricomprendere forme di disobbedienza o inosservanza degli ordini di scarsa gravità e, in assenza di condotte attive lesive di altri beni giuridici, di tendenziale inoffensività. Dunque, il disvalore del reato sembra risiedere più nell’autore (il detenuto “rivoltoso”) che in una condotta intrinsecamente offensiva, caratteristica che si fatica a individuare in una azione o omissione che non risulta né minacciosa né violenta, ma limitata alla resistenza passiva.[33]
Da ultimo, pur ammettendo che le nuove norme incriminatrici siano compatibili con il principio di offensività anche con riferimento alla fattispecie di resistenza passiva, residuano alcuni dubbi, ad avviso di chi scrive, sulla compatibilità con il principio di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.
Infatti, per quanto attiene alle condotte di resistenza passiva è necessario procedere a un bilanciamento di interessi tra l’ordine pubblico, bene giuridico asseritamente tutelato dalla norma (non risultando, la condotta, lesiva di ulteriori beni giuridici al contrario di minaccia, violenza e tentativi di evasione), e la libertà di manifestazione del pensiero, in quanto, come detto, alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza passiva costituiscono spesso l’unico strumento per i detenuti per esercitare la propria, seppur limitata, libertà di espressione. La dottrina penalistica sembra concorde nel ritenere che tale diritto – considerato fondamentale dal nostro impianto costituzionale – non possa incontrare limiti nella tutela dell’ordine pubblico se non nella sua accezione strettamente materiale: dunque il diritto penale potrebbe legittimamente punire solo quelle modalità di manifestazione del pensiero che implichino una diretta e immediata compromissione della sicurezza o incolumità pubblica.[34]
Nella fattispecie in questione tale bilanciamento di interessi non appare congruo, in quanto si assisterebbe alla compressione di un diritto fondamentale, già necessariamente limitato dallo status detentivo, a fronte di condotte connotate da scarsa offensività e asseritamente lesive di un bene giuridico dai contorni poco definiti.
Proprio in tema di garanzia del rispetto della libertà di manifestazione del pensiero, appare utile un breve cenno a un’ulteriore possibile conseguenza di questa scelta di criminalizzazione: il c.d. chilling effect.[35] Con il termine chilling effect ci si riferisce alla possibilità che un intervento legislativo svolga indirettamente una funzione di deterrenza rispetto all’esercizio di condotte riconducibili a un diritto costituzionale.[36] In particolare, nel momento in cui alcune specifiche condotte sono punite dal legislatore, è possibile che ciò comporti l’effetto di disincentivare ulteriori e diverse condotte, in qualche confinanti con quelle penalmente rilevanti, che al contrario sono non solo non disvolute dall’ordinamento e dunque lecite, ma addirittura riconducibili all’esercizio di un diritto fondamentale e dunque tutelate a livello costituzionale. Non di rado il chilling effect può derivare da una incertezza del dato normativo poiché una scarsa precisione nella descrizione delle condotte penalmente rilevanti potrebbe comportare una estensione, nella percezione dei consociati, a condotte che pure il legislatore non aveva intenzione di rendere oggetto di sanzione penale, arrivando dunque a una “iperdeterrenza”.
Indubbiamente il diritto fondamentale sul quale il chilling effect rischia di arrivare alla massima estensione è la libertà di espressione ed è proprio in questi termini che la questione può assumere una rilevanza con riferimento alla norma in commento. Infatti, le condotte riconducibili alla resistenza passiva e all’inosservanza di ordini impartiti costituiscono importanti strumenti, all’interno del contesto carcerario, per manifestare il proprio pensiero. La dottrina del chilling effect potrebbe costituire un’importante guida per il legislatore nelle scelte di criminalizzazione, in quanto lo stesso dovrebbe tenere in considerazione i costi collaterali di tali scelte e valutare il potenziale effetto di “raggelamento” dell’esercizio di un diritto fondamentale (nel caso di specie la libera manifestazione del pensiero).[37] Dunque, sarebbe doverosa una riflessione sulla proporzionalità dell’intervento rispetto agli scopi perseguiti e all’intero contesto di riferimento, in quanto una legge che disincentiva l’esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero – anche se non dal punto di vista strettamente teorico-normativo, ma sul piano della prassi – rischierebbe di porsi in contrasto con la tutela del diritto costituzionalmente garantito alla libertà di espressione tutelato dall’art. 21 Cost. e dall’art. 10 CEDU (su cui la Corte EDU fonda le proprie decisioni in materia di chilling effect, che allo stato rappresentano gli esempi poi significativi di applicazione di tale principio nel nostro ordinamento).
Infatti, pur se si comprende la necessità, in un contesto carcerario, del mantenimento dell’ordine e della sicurezza, tale interesse a nostro avviso non pare sufficiente per giustificare una limitazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero con modalità del tutto pacifiche. L’incriminazione di condotte meramente omissive, che tuttavia per i detenuti costituiscono spesso l’unica forma di comunicazione a cui hanno accesso, rischia di compromettere illegittimamente la libertà di espressione di soggetti che già ne godono in forma necessariamente limitata. E a tale circostanza si aggiunge, come anticipato, il rischio di un completo congelamento dell’esercizio del diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero, a causa di una scarsa precisione del dato normativo che da un lato potrebbe portare a ricomprendere al suo interno un novero imprecisato di condotte e dall’altro a paralizzare l’esercizio del diritto fondamentale anche oltre i confini, seppur poco definiti, della norma, fino a disincentivare condotte che pur se lecite vengono erroneamente percepite come vietate.
[1] Cfr. Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 59, 16 novembre 2023. Da qui si evincono le aree di intervento su cui si concentra la proposta: “Prevenzione e contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati, controlli di polizia”; “Sicurezza urbana”; “Tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate, del corpo nazionale dei vigili del fuoco e degli organismi del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica”; “Tutela delle vittime di usura”; “Ordinamento penitenziario”.
[2] Per un commento al testo del d.d.l. cfr. L. Rossi, A proposito del nuovo disegno di legge in materia di sicurezza, in questa Rivista, 7 marzo 2024; F. Forzati, Il nuovo Ddl sicurezza fra (poche) luci e (molte) ombre: primi spunti di riflessione, in Arch. pen., 3/2023, pp. 1 ss. Inoltre, si rinvia sin da ora all’audizione del professore Marco Pelissero alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati in relazione al disegno di legge che può leggersi in M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in questa Rivista, 27 maggio 2024, ricca di spunti anche sui profili oggetto del presente commento.
[3] Entrambi gli articoli si collocano nella sezione dedicata alla tutela delle forze dell’ordine.
[4] Si precisa che l’art. 18 del d.d.l. prevede in realtà un duplice intervento: oltre a introdurre il nuovo art. 415 bis c.p., su cui ci soffermeremo, inserisce una circostanza aggravante per il reato di cui all’art. 415 c.p. (Istigazione a disobbedire alle leggi) “se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”.
[5] Cfr., per tutti, C. Fiore, Ordine pubblico (dir. pen), in Enc. Dir., XXX, Giuffrè, 1980, pp. 1084 ss.; S. Moccia (a cura di), Delitti contro l'ordine pubblico, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 9 ss.
[6] Cfr. E. Mezzetti, I reati contro l'ordine pubblico, in A. Fiorella (a cura di), Questioni fondamentali della parte speciale di diritto penale, III ed., Giappichelli, 2019, pp. 434 ss.
[7] Questa ultima interpretazione sembra trovare riscontro nelle intenzioni del legislatore, il quale classifica l’intervento in commento quale misura volta alla tutela delle forze dell’ordine.
[8] La circostanza viene sottolineata anche nella relazione introduttiva del disegno di legge alla Camera, cfr. A.C. 1660, p. 17.
[9] Anche l’art. 337 c.p. è oggetto di proposta di modifica da parte dell’art. 14 del d.d.l., sempre nell’ottica di una maggiore tutela degli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza.
[10] Per tutti, con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, G. Pasella-G. Mentasti, sub Art. 337 c.p., in E. Dolcini, G. L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, V ed., Ipsoa, 2021, pp. 1245 ss.
[11] Cfr. ex plurimis Cass., sez. V, 27 settembre 2013 (dep. 21 febbraio 2014) n. 8379; nello stesso senso Cass., sez. VI, 12 maggio 2015 (dep. 17 luglio 2015) n. 31300.
[12] Cfr. Corte app. Cagliari, sez. I, 09 maggio 2023 (dep. 24 maggio 2023), n. 500.
[13] Art. 77, comma 1, n. 16, d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230. Giova poi ricordare come la norma richiami anche, tra le infrazioni disciplinari, la promozione e partecipazione a disordini e sommosse (nn. 18 e 19), oltre che ovviamente l’evasione e ogni fatto “previsto dalla legge come reato” (nn. 20 e 21).
[14] Anche in questo caso riportiamo il testo per completezza. Art. 14, comma 7.1, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286: “Chiunque, durante il trattenimento in uno dei centri di cui al presente articolo o durante la permanenza in una delle strutture di cui all’articolo 10-ter o in uno dei centri di cui agli articoli 9 e 11 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero in una delle strutture di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da uno a sei anni. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a otto anni. Se nella rivolta taluno rimane ucciso o riporta lesioni personali gravi o gravissime, la pena è della reclusione da dieci a venti anni. Le pene di cui al quarto periodo si applicano anche se la lesione personale o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa”.
[15] Per completezza si sottolinea la lieve differenza in punto di trattamento sanzionatorio: è prevista la pena della reclusione da uno a sei anni per chi promuove, organizza o dirige la rivolta o e da uno a quattro anni per chi partecipa. Inoltre, come è già stato fatto notare, nel reato che verrebbe inserito all’art. 14 TU Immigrazione è prevista una fattispecie aggravata unitaria per le ipotesi di lesione o morte conseguente alla rivolta, con previsione della pena della reclusione da dieci a venti anni, con un’irragionevole equiparazione tra l’evento delle lesioni e l’evento morte e altrettanto irragionevole differenziazione rispetto alla analoga fattispecie aggravata del reato di rivolta in istituto penitenziario, cfr. sul punto L. Rossi, A proposito del nuovo disegno di legge in materia di sicurezza, cit.
[16] Per una panoramica generale sulla situazione del sistema di accoglienza in Italia e per un commento a una recente modifica si veda, tra gli altri, M. Giovannetti, Il prisma dell’accoglienza: la disciplina del sistema alla luce della legge n. 50/2023, in Quest. giust., 3/2023, pp. 141 ss.
[17] Non ci si sofferma in questa sede sui numerosi profili di illegittimità del trattenimento amministrativo in CPR, per cui si rimanda, per tutti, a L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Giappichelli, 2018, pp. 222 ss.; G. Campesi, La detenzione amministrativa degli stranieri, Carocci editore, 2013; A. Della Bella, Trattenimento, in questa Rivista., 12 giugno 2023.
[18] Infatti, pur trattandosi astrattamente di un reato comune, nei fatti solo lo straniero si troverà nella posizione di poter esserne l’autore, in quanto il requisito è che il reato si consumi durante il “trattenimento” o la “permanenza” in uno dei luoghi destinati esclusivamente alle persone migranti. Per completezza si riporta che, pur se la norma non ne fa menzione, la relazione tecnica del disegno di legge fornita alla Camera precisa come gli autori del reato possano essere, oltre agli stranieri, anche i cittadini di altro Stato membro dell’Ue “nei casi di trattenimento previsti dall’art. 20 ter, del d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30” (cf. A.C. 1660, p. 42).
[19] Cfr. sul punto, in termini generali, le riflessioni di A. Cavaliere, Le vite dei migranti e il diritto punitivo, in Sist. pen., 4/2022, pp. 43 ss.
[20] Si veda, per tutti, G. Mentasti, La “crimmigration” nel sistema italiano: tra scelte di incriminazione e ricorso al trattenimento amministrativo, Tesi di dottorato, in AIR, 2021 pp. 51 ss.; C. Ruggiero, Le linee di tendenza della crimmigration nel sistema penale italiano dal “decreto Minniti” al “decreto sicurezza-bis”, in Arch. Pen., Quesiti, 2/2020, pp. 10 ss.
[21] Cfr., per un commento sulla situazione dei c.d. punti di crisi nel sistema di accoglienza, tra gli altri, L. Masera, Il “caso Lampedusa”: una violazione sistemica del diritto alla libertà personale, in Diritti umani e diritti internazionali, 1/2014, pp. 83 ss.; L. Masera, I centri di detenzione amministrativa cambiano nome ed aumentano di numero, e gli hotspot rimangono privi di base legale: le sconfortanti novità del Decreto Minniti, in Dir. pen. cont., 3/2017, pp. 278 ss.; F. Cancellaro, Dagli hotspot ai “porti chiusi”: quali rimedi per la libertà “sequestrata” alla frontiera?, in questa Rivista., 28 settembre 2020; G. Felici, M. Gancitano, La detenzione dei migranti negli hotspots italiani: novità normative e persistenti violazioni della libertà personale, in questa Rivista, 1/2022, pp. 45 ss.
[22] Si ritiene interessante ricordare il caso, pur se non recentissimo, del Tribunale di Crotone che aveva ritenuto sussistenti i presupposti della legittima difesa, anche a fronte di una rivolta violenta posta in essere in un C.I.E. (oggi CPR), evidenziando la necessità di un intervento strutturale nei confronti di un sistema di accoglienza e trattenimento dei migranti carente delle condizioni minime di tutela, cfr. sul punto L. Masera, Rivolte degli stranieri detenuti nei C.I.E.: una forma di legittima difesa contro la violazione dei diritti fondamentali degli internati? Nota a Trib. Crotone, sent. 12 dicembre 2012, Giud. D’Ambrosio, in Dir. pen. cont., 7 gennaio 2013.
[23] 18 U.S.C. § 1792: “Whoever instigates, connives, willfully attempts to cause, assists, or conspires to cause any mutiny or riot, at any Federal penal, detention, or correctional facility, shall be imprisoned not more than ten years or fined under this title, or both.”
[24] United States v. Bey, 667 F.2d 7, 10 (5th Cir. 1982): nel caso di specie due detenuti si erano inizialmente rifiutati, a seguito di richiesta degli agenti di polizia penitenziaria, di consegnare gli strumenti per pulire il pavimento che stavano utilizzando nella loro cella; successivamente gli agenti si erano allontanati per dare il tempo ai detenuti di collaborare e consegnare gli attrezzi. Tuttavia, i detenuti persistevano nel rifiuto e iniziavano una colluttazione con altri agenti di polizia penitenziaria intervenuti nella cella, utilizzando il manico del bastone per pulire (che avevano precedentemente rotto) per colpire un agente e privarlo del manganello e poi colpendo un secondo agente mentre introduceva il gas lacrimogeno nella cella.
[25] United States v. Bryson, 423 F.2d 724 (4th Cir. 1970),
[26] United States v. Overstreet, 106 F.3d 1354 (7th Cir. 1997), premesso il principio di diritto enunciato, la Corte conferma anche in questo caso la condanna degli imputati per ammutinamento in ragione della gravità delle condotte (in particolare essersi armati e aver distrutto alcuni ambienti dell’istituto, tra cui vetri delle finestre e un televisore, minacciando con le armi procuratesi anche gli agenti di polizia penitenziaria).
[27] Prison Security Act 1992, chapter 25, section 1 (Offence of prison mutiny):
“(1) Any prisoner who takes part in a prison mutiny shall be guilty of an offence and liable, on conviction on indictment, to imprisonment for a term not exceeding ten years or to a fine or to both.
(2) For the purposes of this section there is a prison mutiny where two or more prisoners, while on the premises of any prison, engage in conduct which is intended to further a common purpose of overthrowing lawful authority in that prison.
(3) For the purposes of this section the intentions and common purpose of prisoners may be inferred from the form and circumstances of their conduct and it shall be immaterial that conduct falling within subsection (2) above takes a different form in the case of different prisoners.
(4) Where there is a prison mutiny, a prisoner who has or is given a reasonable opportunity of submitting to lawful authority and fails, without reasonable excuse, to do so shall be regarded for the purposes of this section as taking part in the mutiny.
[…] ”
Si precisa che la norma è applicabile solo nei territori di Inghilterra e Galles.
[28] Crown Prosecution Service, Prison-related Offences, aggiornato al 17 agosto 2023.
[29] German Criminal Code, Section 121 (Mutiny by prisoners):
“Prisoners who gang up and with joint forces
1. coerce (section 240) or attack an official of an institution, another public official or a person charged with their supervision, care or investigation;
2. escape under use of force; or
3. by use of force aid one of their number or another prisoner to escape, shall be liable to imprisonment from three months to five years. […]”
[30] La Corte di cassazione ha infatti confermato come il reato di devastazione e saccheggio di cui all’art. 419 c.p. possa essere contestato anche per fatti commessi all’interno di istituti penitenziari, cfr. ad esempio, Cass., sez. II, 6 ottobre 2022 (dep. 17 febbraio 2023), n. 6961.
[31] Cfr. M. G. Coppetta, Commento all’art. 38, in V. Grevi, F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, cit., p. 518; E. Loi, N. Mazzacuva, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, cit., p. 96. In giurisprudenza si veda Cass., sez. I, 12 ottobre 2017 (dep. 13 marzo 2018) n. 11308, che parla addirittura di “norma disciplinare in bianco”, in quanto “eleva a presupposto della sanzione disciplinare qualunque inosservanza di ordini o prescrizioni (o l’ingiustificato ritardo)”.
[32] Cfr. M. G. Coppetta, Commento all’art. 41, in V. Grevi, F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, VI ed., Cedam, 2019, p. 530.
[33] Sul punto si rinvia alle considerazioni conclusive per qualche riflessione ulteriore. Cfr. nello stesso senso F. Forzati, Il nuovo Ddl sicurezza, cit., pp. 20 ss.
[34] Cfr. C. Fiore, Ordine pubblico (dir. pen), cit., p. 1095.
[35] Per una ricostruzione della teoria del chilling effect si veda per tutti, nel panorama italiano, A. Galluccio, Chilling Effect, in C. Piergallini, G. Mannozzi, C. Sotis, C. Perini, M. Scoletta, F. Consulich (a cura di), Studi in onore di Carlo Enrico Paliero. 3: Parole dal lessico di uno studioso, Giuffrè, 2022, pp. 1261 ss.; N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, Giappichelli, 2020, pp. 263 ss.
[36] Cfr. N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, cit., p. 253.
[37] Cfr. A. Galluccio, Chilling Effect, cit., p. 1270; F. Viganò, La proporzionalità della pena, Giappichelli, 2021, p. 278.