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07 Febbraio 2024


Dolo eventuale e delitto tentato: nota a margine di una sentenza del Tribunale di Brescia in un caso al confine tra lesioni personali e tentato omicidio

Trib. Brescia, sez. GIP GUP, 11 maggio 2023, giud. dott.ssa Angela Corvi



*Contributo pubblicato nel fascicolo 2/2024.

 

1. Segnaliamo una sentenza del Tribunale di Brescia che – attenendosi all’indirizzo interpretativo maggioritario sul tema – esclude la configurabilità del tentativo di reato per difetto dell’elemento soggettivo, quando la condotta sia commessa con dolo eventuale e non con dolo intenzionale o, almeno, diretto.

Il provvedimento in oggetto, nell’ambito di un giudizio abbreviato con capo di imputazione di tentato omicidio aggravato da futili motivi, stante l’esito positivo della verifica degli elementi oggettivi propri del tentativo ai sensi dell’art. 56 c.p., giunge a qualificare i fatti come ascrivibili alla fattispecie di lesioni personali gravi, per insussistenza del necessario dolo di omicidio che – secondo l’interpretazione prevalente in giurisprudenza di legittimità –  nel tentativo non può avere natura meramente eventuale.

 

2. Assume, in questa sede, peculiare rilevanza l’analisi della vicenda alla base della decisione, sulla quale pare opportuno porre l’attenzione in via preliminare. I fatti possono riassumersi come segue.

La notte del 7 novembre 2021, a seguito di un incidente stradale tra più veicoli, nasce uno scontro verbale acceso tra gli individui alla guida dei veicoli coinvolti, e in particolare tra la persona offesa e un gruppo ragazzi scesi da un’altra auto. Nel corso del diverbio, l’imputato – fino ad allora non presente sulla scena e non implicato nella contesa verbale – si precipita contro la vittima e improvvisamente la aggredisce, colpendola con quattro pugni al capo. A causa dei colpi subiti, come testualmente riportato nella sentenza, l’offeso “rovina con violenza sul cofano dell’auto, battendo violentemente la tempia destra (lo si evince dal rumore secco, davvero impressionante, distintamente udibile), e poi scivola a terra[1]. Giova precisare che la ricostruzione della dinamica dei fatti è agevolata da un filmato realizzato dalla fidanzata dell’aggredito, che ha ripreso tutta l’azione criminosa mentre attendeva in auto.

In seguito all’aggressione, la parte lesa – secondo la diagnosi del Pronto Soccorso, citata nella perizia medico legale richiamata in sentenza – riporta un grave trauma cranico e versa in stato di coma: tali lesioni cranio-encefaliche di natura emorragica rendono, quindi, necessario “un intervento chirurgico salvavita in urgenza[2]. Nella perizia si evidenzia, altresì, che la persona offesa, in conseguenza degli interventi neurochirurgici subiti, riporta un deficit neuro-cognitivo e motorio, da cui discende una permanente inabilità lavorativa del 100%.

Secondo il parere del perito medico legale, la condotta violenta realizzata dall’imputato deve ritenersi causa unica ed esclusiva dei traumi subiti dalla persona offesa. Riportatosi al momento dei fatti e ricostruita la dinamica criminosa tenendo conto della natura delle lesioni, della forza impiegata, della zona corporale attinta e del numero di colpi inferti, il perito qualifica l’azione come potenzialmente idonea a cagionare la morte della persona offesa. Inoltre, ed è questo uno dei punti più significativi della valutazione peritale, su cui si tornerà più avanti, la violenza e pericolosità degli atti è considerata tale da aver consentito all’agente di rappresentarsi “se non come certa, quantomeno come probabile” la realizzazione dell’evento morte.

 

3. Venendo ora alla motivazione, in una prima parte si dà spazio alla disamina dei profili oggettivi della fattispecie di omicidio tentato: sono considerati integrati – con granitica certezza – entrambi gli estremi di univocità e idoneità degli atti. Quanto al primo aspetto, si evidenzia come l’azione lesiva in sé, per il suo sviluppo – un susseguirsi rapido di violentissimi pugni al cranio – sia senza dubbio il principio di un atto esecutivo dell’omicidio, dunque univocamente diretto alla realizzazione dell’evento morte sia “secondo la tradizionale impostazione ‘cinematografica’ (l’atto in sé, per quello che è, dimostra quale sarà lo sbocco della vicenda), sia in chiave di prossimità logico-cronologica rispetto alla consumazione”, ossia nell’attivazione del processo che terminerà nella realizzazione dell’evento[3].

Analogamente, è ritenuto sussistente il requisito di idoneità della condotta: riportandosi idealmente al momento in cui l’imputato ha ripetutamente colpito la vittima, sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili – evidenziate nella perizia – e delle massime di esperienza, il Giudice rileva che “vi era sicuramente una significativa possibilità di un esito letale[4].

3.1. Muovendo da tali premesse, il giudizio si sposta sulla mancata sussistenza dell’elemento soggettivo, a cui è dedicata un’ampia e dettagliata parte del percorso argomentativo. Tali approfondite osservazioni, che si distinguono per chiarezza e puntualità, si riportano alla tesi dominante in giurisprudenza che esclude la configurabilità del tentativo quando il soggetto attivo agisca con dolo eventuale. Il Giudice, dunque, dà per assodato che perché sia integrato il tentato omicidio occorra dimostrare che l’azione è sorretta da dolo intenzionale o quantomeno diretto. Secondo l’impostazione prevalente in giurisprudenza di legittimità, il coefficiente psichico del dolo eventuale appare strutturalmente inconciliabile con la direzione necessariamente univoca che deve caratterizzare gli atti compiuti nel delitto tentato, imposta dalla lettera dell’art. 56 c.p.: sebbene l’univocità riguardi l’oggettività del comportamento, ossia l’estrinsecazione materiale della volontà dell’agente, essa deve, secondo questo indirizzo interpretativo, necessariamente essere correlata a un atteggiamento psicologico interno, vale a dire all’intenzionalità univoca dell’azione volta a conseguire un determinato esito delittuoso, verso cui sono diretti gli atti idonei[5].

Siffatte incertezze non si presentano, invece, con riferimento alla figura del dolo diretto, il quale postula che l’agente aderisca all’evento – pur non direttamente voluto –rappresentandosi come certa o probabile, ai limiti della certezza, la sua realizzazione[6]. La giurisprudenza ha inoltre chiarito che, perché si configuri il tentativo, è sufficiente anche ravvisare la sussistenza del dolo alternativo, qualificato come una manifestazione di dolo diretto, che ricorre quando l’agente preveda e voglia indifferentemente e in via alternativa l’uno o l’altro degli eventi ricollegabili alla sua condotta, rispetto ai quali opera una valutazione di sostanziale equipollenza[7].

3.2. Punto centrale della motivazione del provvedimento in esame sembra essere il riferimento alla pronuncia Thyssenkrupp (Cass., S.U., 24 aprile 2014, n. 38343), con particolare riguardo alle modalità di demarcazione dell’elemento psicologico del reato. Con la celebre sentenza del 2014 le Sezioni Unite hanno chiarito che la prova dell’accettazione dell’evento va valutata non solo con riguardo all’intensità del momento rappresentativo – dunque, al diverso grado di previsione – bensì anche considerando ulteriori elementi, quali ad esempio la zona del corpo attinta, la durata e l’intensità dell’azione o gli strumenti eventualmente utilizzati.

Da tale assunto, il Giudice della sentenza in esame deriva che ai fini dell’accertamento del dolo minimo diretto – anche sub specie dolo alternativo – occorre valutare tali fattori, da cui sia possibile desumere che l’agente agisca sapendo che, nell’id quod plerumque accidit, questo [l’evento] costituirà conseguenza ‘normale’ e ‘necessitata’ del suo agire, sicché, se lo fa, non può non volerlo[8]. Dunque, la valutazione del dolo nel delitto tentato deve essere effettuata avendo riguardo di tutte le circostanze dell’azione criminosa, anche al di là del minore o maggiore grado di probabilità di verificazione dell’evento, complessivamente considerando tutti i fattori che inducano a ritenere che la volontà dell’agente fosse univocamente diretta alla consumazione del delitto.

Sul punto – e in particolare sulla necessità di ricostruire l’intenzione dell’agente come orientata in maniera non equivoca alla realizzazione dell’evento, proprio sulla base degli indici fattuali disponibili, soppesati nel loro insieme – il Tribunale di Brescia aderisce all’impostazione adottata dalla Cassazione in una recente sentenza, richiamata in motivazione (n. 23543, dep. 30 maggio 2023), con la quale la Corte – in un caso molto simile a quello di specie – ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Napoli, che aveva riqualificato in tentato omicidio il reato di lesioni volontarie aggravate ravvisato dal Giudice di primo grado. Nella citata pronuncia la Prima sezione ha ritenuto che l’agente abbia agito con dolo eventuale, proprio facendo leva sull’erronea valutazione del complessivo contesto fattuale operata dalla Corte d’Appello, la quale aveva invece ravvisato il dolo diretto alternativo: la Cassazione ha precisato che le circostanze in cui si è sviluppata l’azione assumono decisiva rilevanza rispetto alla prova dell’elemento psicologico e devono essere considerate nel loro insieme, tenendo conto di tutti gli elementi a disposizione, che – perché vi sia dolo diretto alternativo – devono fornire una dirimente indicazione circa la direzione univoca dell’azione a determinare indifferentemente l’evento lesione o l’evento morte. Conformemente a quanto affermato dalla cospicua giurisprudenza precedente in tema di elemento soggettivo nel tentativo, infatti, la Corte ha ribadito che quando l’evento non si verifichi, il coefficiente psicologico che sorregge l’azione deve corrispondere a una “volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificatosi[9].

3.3. È sulla base delle considerazioni appena esposte che si sviluppa l’ultima parte dell’apparato motivazionale della sentenza in commento: secondo il Tribunale di Brescia, le circostanze di fatto in cui è avvenuta l’azione delittuosa non consentono di ritenere che l’agente abbia concretamente previsto che la morte della parte offesa sarebbe stata conseguenza “normale, inevitabile, routinaria del suo agire[10]. Ciò in ragione di una complessiva valutazione delle circostanze fattuali che tiene conto principalmente di due elementi. Da un lato, si afferma che dalle modalità dell’aggressione – avvenuta a mani nude, senza l’impego di strumenti dall’elevata portata lesiva, realizzata da un soggetto che non aveva particolari abilità alla lotta e non conosceva la persona offesa – e dalla durata dell’azione – di pochissimi istanti, repentinanon sembra potersi dedurre che l’imputato si sia effettivamente rappresentato tutte le possibili conseguenze della sua condotta, in particolare l’evento morte. Da un secondo punto di vista, nella motivazione si sostiene che non è possibile attribuire alle diverse conseguenze lesive riportate dalla parte offesa la precisa causa determinante, distinguendo tra i colpi al cranio inferti dall’agente e il successivo impatto della vittima prima col cofano e, poi, col suolo. Appare inverosimile, ad avviso del Giudice, che l’imputato abbia effettivamente considerato tali eventualità ulteriori – ritenute, invece, decisive rispetto alla carica lesiva e potenzialmente mortale dell’azione – e, dunque, si afferma che parimenti complesso risulterebbe sostenere, superando il limite del ragionevole dubbio, che l’agente abbia pienamente accettato l’esito letale che ne sarebbe potuto derivare.

Per quanto detto, in definitiva, si ritiene che il fatto sia da ricondurre al reato di lesioni personali di cui all’art. 582 c.p., per insussistenza del necessario dolo diretto di omicidio – anche nella forma del dolo alternativo – per cui non può dirsi integrata la fattispecie di cui agli artt. 56, 575 c.p., bensì il paradigma di cui agli artt. 582, 583 co. 1 nn. 1 e 2 c.p., 585 c.p. (con riferimento agli artt. 577 co. 1 n. 4 e 61 n. 1 c.p.). Avendo riguardo della cornice edittale fissata dalle circostanze aggravanti di cui all’art. 583 co. 1 c.p., la pena è stimata per sei anni di reclusione, prossima al massimo edittale di sette anni in ragione delle gravità delle lesioni riportate dalla persona offesa, che rendevano necessario un intervento salvavita. Tale pena viene aumentata poi a otto anni di reclusione in forza dell’aggravante dei futili motivi e, infine, ridotta ad anni cinque mesi quattro per effetto della riduzione per la scelta del rito premiale del giudizio abbreviato.

 

***

4. La pronuncia del Tribunale di Brescia, considerata l’analiticità delle valutazioni giuridiche in essa contenute, offre l’occasione per provare a proporre qualche breve riflessione sulle complessità che emergono dalle conclusioni raggiunte nel giudizio in esame e che interessano l’art. 56 c.p. in punto di elemento soggettivo. Come si è visto, il nucleo centrale della sentenza in commento concerne la distinzione tra i diversi gradi di dolo, da cui deriva la soluzione interpretativa che esclude la sussistenza del dolo diretto e, quindi, la fattispecie di tentato omicidio.

Ciò che ci sembra meriti particolare attenzione riguarda due questioni principali: da un lato, occorre evidenziare l’esistenza di un orientamento interpretativo, diverso da quello considerato dal Giudice, che ammette la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo, fatto proprio da una parte – seppur minoritaria – della giurisprudenza e da autorevole dottrina; in secondo luogo, ci pare dirimente osservare le difficoltà riscontrabili nella distinzione tra la fattispecie di lesioni personali e quella di tentato omicidio, quando questa dipenda dalla sussistenza del dolo eventuale o del dolo diretto, data la complessità di valutazione del coefficiente psichico che sorregge l’azione in taluni casi.

4.1. Con riferimento al primo aspetto, invero, l’orientamento più risalente della giurisprudenza di legittimità riteneva configurabile il tentativo anche con dolo eventuale, riconoscendo la coincidenza tra il dolo del reato consumato e quello del reato tentato e l’identità strutturale tra le due figure. Su questo profilo si era infatti pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 6309 del 18 giugno 1983), facendo propria la ricostruzione secondo cui il delitto tentato non è fattispecie autonoma e diversa da quello consumato, bensì si tratta dello stesso reato a cui, tuttavia, manca un frammento dell’elemento materiale, ossia la realizzazione dell’evento o della parte finale dell’azione.  Pertanto, il tentativo non è caratterizzato da un dolo proprio poiché il dolo del tentativo è il dolo della consumazione, di conseguenza, “in caso di atti di valore finalistico plurimo, il dolo non viene meno per il fatto della mancanza di oggettiva univocità degli stessi, una volta accertato che essi hanno varcato la soglia dell’antigiuridicità penale”, sicché risulta “indifferente il diverso atteggiamento psicologico dell’agente rispetto all'evento realizzato (lesione) ed a quello mancato (omicidio)[11]. In tale occasione, peraltro, le Sezioni Unite si sono confrontate con un altro punto di essenziale importanza rispetto al tema in oggetto, poiché, pronunciandosi proprio sul ricorso a una condanna per tentato omicidio con dolo eventuale, rispetto alla quale si contestava la più corretta configurazione, nel caso di specie, del reato consumato di lesioni personali, hanno individuato il criterio discretivo tra le due fattispecie di cui agli artt. 56, 575 c.p., da un lato, e l’art. 582 c.p., dall’altro. A riguardo, si è osservato che a qualificare diversamente il fatto di lesione personale e quello di tentato omicidio non è solo il diverso coefficiente psicologico che sorregge l’azione, ma anche la differente portata offensiva della condotta: mentre nel primo reato la carica lesiva si esaurisce nell’evento prodotto, ossia la lesione personale, nella seconda ipotesi vi è un’offesa ulteriore all’evento realizzato che “tende a causarne uno più grave, riguardante lo stesso bene giuridico o un bene giuridico superiore e il medesimo soggetto passivo, non riuscendo a cagionarlo per cause indipendenti dalla volontà dell’agente[12]. Ebbene, la maggiore potenzialità lesiva della condotta va valutata con riguardo al requisito dell’oggettiva idoneità e della destinazione univoca degli atti a realizzare il più grave evento della morte della persona offesa, tenendo conto delle evidenze oggettive del caso di specie, quali appunto le modalità dell’azione, la durata, la forza impiegata, etc.

Vi sono poi alcune autorevoli voci della dottrina che ritengono configurabile il tentativo anche con dolo eventuale, sostenendo l’inesattezza della tesi che considera la direzione univoca degli atti un requisito anche soggettivo. Ciò in quanto l’univocità imposta dall’art. 56 c.p. attiene all’elemento oggettivo del reato e costituisce, dunque, una caratteristica oggettiva della condotta. In questo senso, la direzione non equivoca degli atti a nulla rileva sul piano dell’elemento soggettivo, rispetto al quale è sufficiente che l’agente preveda e accetti l’evento come conseguenza del suo agire con i diversi gradi di intenzionalità individuati dalle categorie del dolo[13]. Si ammette, dunque, la configurabilità del tentativo con dolo eventuale individuando l’elemento psicologico di tale fattispecie nella semplice intenzione di commettere il delitto consumato – volendo infatti l’agente realizzare e non tentare il delitto – manifestata in qualsiasi forma di dolo, anche quando l’azione criminosa sia diretta verso un fine diverso, ma si accetti la realizzazione dell’evento come possibile conseguenza.

Sul tema della compatibilità del tentativo con il dolo eventuale sorge un’ulteriore considerazione. Il principio consolidato in giurisprudenza di legittimità che non ammette la configurabilità del tentativo quando ricorre il dolo eventuale si fonda sull’assunto che il tentativo sia specifica e autonoma figura di reato, che non può dirsi integrata quando chi agisce accetti il rischio di realizzazione di un evento diverso, non voluto ma ritenuto solo possibile o probabile, poiché in tal caso l’agente non può essersi rappresentato gli atti come univocamente diretti alla realizzazione dell’evento stesso[14]. Come si è visto, infatti, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che la valutazione dell’elemento soggettivo nel delitto tentato deve avere luogo sulla base della “volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio”. Ci sembra di poter ritenere, dunque, che sia in questo senso decisiva l’esatta definizione dei confini del dolo eventuale, con particolare riferimento all’atteggiamento psicologico dell’agente rispetto alla possibilità di realizzazione dell’evento. A seconda che si ritenga che l’agente, quando ricorre il dolo eventuale, accetti il rischio che l’evento si verifichi ovvero agisca mettendo in conto l’evento e aderendo ad esso, cambia significativamente il rapporto di tale figura con il tentativo. Autorevole dottrina e giurisprudenza sostengono che, per la sussistenza del dolo eventuale, sia necessaria l’adesione all’evento e non la mera accettazione del pericolo che esso si realizzi: è proprio il verificarsi dell’evento che l’agente deve accettare, pur di non rinunciare all’azione[15]. Le stesse Sezioni Unite, con la già richiamata sentenza Thyssenkrupp, hanno chiarito che tutte le forme di dolo sono caratterizzate dall’adesione/accettazione dell’evento e, dunque, anche per sostenere la sussistenza del dolo eventuale occorre che “l’agente abbia agito anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi[16]. Se tale ricostruzione è corretta, allora, pare difficile sostenere che tale forma di dolo sia incompatibile con la necessaria direzione non equivoca degli atti nel tentativo, anche ammettendo l’impostazione che ritiene l’univocità un requisito da valutare sul terreno dell’elemento soggettivo: se l’inconciliabilità sorge dall’impossibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, assunto che tutte le forme di dolo presuppongono una piena adesione all’evento, sembra che venga meno la principale ragione di incompatibilità del dolo eventuale con la necessità di una volontà univocamente orientata alla consumazione del reato.

4.2. Quanto al secondo rilievo, circa le possibili difficoltà di valutazione in concreto dell’elemento psicologico del reato tentato, assume decisiva rilevanza la linea di demarcazione tra le due figure di dolo eventuale e dolo diretto, sub specie dolo alternativo, poiché proprio con riferimento a tale distinzione si presenta il problema della qualificazione delle condotte al limite tra il delitto di lesioni personali ex art. 582 c.p. e l’ipotesi di cui agli artt. 56, 575 c.p.

Invero, nei casi in cui l’agente abbia posto in essere una condotta ascrivibile a tale zona di confine, risulta complesso verificare con certezza se l’agente abbia agito perché si è rappresentato e vuole indifferentemente che si realizzi uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta (nella specie la morte o il grave ferimento della vittima), oppure se abbia perseguito un diverso scopo (provocare gravi lesioni alla persona offesa) a tutti i costi, accettando l’evento (la morte della persona offesa) e aderendo ad esso per il caso in cui si verifichi, requisito che ci sembra preferibile rispetto alla mera accettazione del rischio. Per avvalorare quanto detto, tornando per un momento alla sentenza del Tribunale di Brescia in commento, si sarebbe forse potuto giungere a conclusioni differenti, senza andare incontro ad incongruenze. Ci sembra infatti che lo stesso contesto fattuale in cui si è snodata l’azione criminosa, ricostruito con chiarezza grazie al filmato e alla dettagliata perizia del medico legale riportata in sentenza, avrebbe potuto essere valutato, in maniera a nostro avviso del tutto plausibile, anche come significativo di un’intenzionalità riconducibile al “dolo minimo diretto” richiesto dall’orientamento prevalente per la configurabilità del tentativo. Così, la violenza dei colpi inferti, tale da far cadere inerme l’aggredito, e la zona vitale colpita (il capo) avrebbero potuto essere considerati altresì quali indici di una consapevolezza piena delle possibili conseguenze derivanti dall’azione e di una completa adesione all’evento morte per il caso in cui si verifichi, rilevate le gravissime conseguenze riportate dalla parte lesa e l’elevata prevedibilità di un impatto con il cofano e con il suolo a seguito dei fortissimi colpi ricevuti. A tale diverso esito valutativo sarebbe conseguita una differente qualificazione giuridica dei fatti, in quanto sarebbe stato ritenuto sussistente il dolo diretto e, dunque, anche il delitto tentato di omicidio.

Né ci pare che il quadro sanzionatorio sarebbe mutato di molto: la valutazione della gravità dei fatti di lesione personale nel caso di specie ha condotto, infatti, in punto di commisurazione della pena, a una risposta sanzionatoria piuttosto severa, proprio in ragione delle gravi conseguenze lesive riportate dalla persona offesa, che “rimaneva in vita soltanto grazie ad un complesso intervento chirurgico di emergenza, che lo strappava ad una morte cui, diversamente, sarebbe andato incontro, a causa del comportamento delittuoso dell’imputato[17].

Le stesse conclusioni del Tribunale di Brescia rivelano con chiarezza, in conclusione, le complessità inerenti alla valutazione del coefficiente psichico nel delitto tentato con riferimento alla distinzione tra dolo diretto alternativo e dolo eventuale. Il superamento della tesi che esclude la configurabilità del tentativo quando ricorre dolo eventuale permetterebbe, pertanto, di sormontare le criticità e le contraddizioni emerse nei termini esposti e già evidenziate da giurisprudenza e dottrina, secondo quanto qui riassuntivamente prospettato.

 

 

 

[1] Cfr. sent. in commento, Trib. Brescia, n. 860 del 11 maggio 2023 (dep. 20 luglio 2023) p. 5.

[2] Cfr. sent. in commento, cit., p. 11.

[3] Cfr. sent. in commento, cit., p. 12.

[4] Ibidem.

[5] Come esaustivamente chiarito dalla Cassazione nella già citata sent. n. 5849/2006, l’incompatibilità tra dolo eventuale e tentativo «trova riscontro nella lettera della legge che stabilisce l’estremo della inequivoca direzione degli atti idonei, concernente l’oggettività del comportamento materiale e cioè il dato estrinseco dell’azione, manifestante ex se l’intenzione dell’agente, ma che va correlato ad un preciso atto interno (la direzione degli atti idonei) necessariamente consistente nella certa volontà di conseguire un prefissato risultato delittuoso, verso cui appunto l’azione è indirizzata secondo inequivoca finalizzazione».

[6] Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffré, 2023, pp. 381 ss.

[7] Cfr. Cass. pen., sez. I, 19 novembre 1999, n. 385. Sulla compatibilità tra dolo alternativo e tentativo, v. Cass. pen., sez. V, 17 gennaio 2005, n. 6168. Nello stesso senso: Cass. pen., sez. I, 19 novembre 1999, n. 215251.

[8] Cfr. sent. Trib. Brescia, cit., p. 15. Il riferimento della sentenza Tribunale di Brescia è sempre alla sent. Cass. S.U. del 24 aprile 2014, n. 38343.

[9] Così, Cass. pen, sez. I, 18 gennaio 2006, n. 5849. Nei medesimi termini si vedano anche, ex multis: Cass. pen., sez. VI, 20 marzo 2012, n. 14342; Cass. pen., sez. I, 10 ottobre 2019, n. 51870. Tra le più recenti, si veda Cass. pen., sez. I, 30 marzo 2023, n. 23543.

[10] Sent. Trib. Brescia, cit., p. 16.

[11] Cass. S. U., 18 giugno 1983, n. 6309.

[12] Cass. S.U., 24 aprile 2014, n. 38343.

[13] Si veda, per tutti, G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., pp. 570 ss.; Nello stesso senso: M. Romano, Commentario sistematico al Codice penale, vol. I, Milano, Giuffré, 2004, pp. 550 ss., E. Morselli, Il dolo eventuale nel delitto tentato, in L’indice penale, 1978. In una posizione intermedia, invece, G. Seminara, Il delitto tentato, Milano, Giuffré, 2012, p. 170, secondo il quale la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo non può essere sostenuta solo sulla base della tesi che ritiene coincidenti il dolo del tentativo con il dolo della consumazione; tuttavia, ciò che consente di ammettere configurabilità del tentativo con dolo eventuale è la definizione accolta di tale coefficiente psichico.

[14] Cfr. A. Lago, Art. 56, in E. Dolcini, G. L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., Milano, Wolters Kluwer, 2021, pp. 1077 ss.

[15] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., pp. 401 ss., secondo cui “ponendo ad oggetto dell’accettazione non già l’evento (la morte di un uomo), bensì il pericolo del verificarsi dell’evento (il pericolo della morte) si trasforma i reato di evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento”. In tal senso anche Cass., sez. I, 11 luglio 2011, n. 30472, Cass., sez. I, 7 febbraio 2020, n. 9049.

[16] Cass. S.U., 24 aprile 2014, n. 38343.

[17] Sent. Trib. Brescia, cit., p. 27.