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  Scheda  
24 Luglio 2023


Un problema apparentemente insolubile: che ne è delle ipotesi di ricettazione non punibili per i limiti di pena previsti dall’art. 648 comma 2?


1. La singolare questione, posta nel titolo, ha origine dall’espressione “attività criminose” che l’art. 2 della direttiva (UE) 2018/1673 ha imposto di considerare quali reati-presupposto di tutti i delitti di riciclaggio, compresa la ricettazione. Più analiticamente: il n. 13 dei consideranda della predetta direttiva definisce come reato “il riciclaggio qualora sia commesso intenzionalmente e con la consapevolezza che i beni derivano da attività criminosa”.

L’art. 2 qualifica come “attività criminosa”: qualsiasi tipo di coinvolgimento criminale di un qualsiasi reato punibile, conformemente al diritto nazionale, con una pena detentiva o con una misura privativa della libertà di durata massima superiore a un anno ovvero, per gli Stati membri il cui ordinamento giuridico prevede una soglia minima per i reati, di un qualsiasi reato punibile con una pena detentiva o con una misura privativa della libertà di durata minima superiore a sei mesi.

In ogni caso i reati che rientrano nelle categorie seguenti – a prescindere dai limiti di pena – sono considerati una “attività criminosa”: partecipazione a un gruppo criminale organizzato o al racket, terrorismo, tratta di esseri umani, sfruttamento sessuale, traffico di stupefacenti, traffico illecito di armi, traffico illecito di beni rubati e altri beni, corruzione, frode, falsificazione di moneta, contraffazione o pirateria di prodotti, reati ambientali, omicidio, lesioni fisiche gravi, rapimento, sequestro di persona, rapina, furto, contrabbando, reati fiscali, estorsione, contraffazione, pirateria, abuso di informazioni privilegiate, manipolazione del mercato, criminalità informatica.

 

2. In parziale attuazione[1] della direttiva è intervenuto il decreto legislativo n. 195/2021, apportando modifiche differenziate alle singole figure di reato sopra indicate e con l’effetto complessivo di ampliare l’applicabilità delle relative fattispecie, sia ai casi nei quali il reato presupposto abbia ad identificarsi con un qualunque delitto (sia esso doloso, od anche solo colposo), sia all’ipotesi che il reato-presupposto sia ravvisabile in una contravvenzione, in questo caso però limitando l’ambito di rilevanza ai soli illeciti contravvenzionali sanzionati con la pena dell’arresto superiore nel massimo a un anno ovvero nel minimo a sei mesi[2].

Il quadro che si delinea, dunque, è il seguente: la ricettazione si configura rispetto alla acquisizione dolosa di cose provenienti da qualsiasi delitto ovvero da una contravvenzione punita nel massimo con l’arresto superiore a un anno o nel minimo a sei mesi[3]; si configura l’incauto acquisto (art. 712 c.p.) con l’acquisizione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per la entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato; ovvero, in altre parole, nella l’ipotesi di chi colposamente ometta di compiere determinati accertamenti prima di acquisire la merce sospetta[4].

È opinione di chi si è espresso sul punto che non costituisca il reato di ricettazione l’acquisizione di cose provenienti da una contravvenzione punita al di sotto dei limiti edittali previsti dal nuovo comma 2, non rientrando le stesse neppure nella ricettazione affievolita perché si tratterebbe di una semplice circostanza attenuante.

La dottrina, infatti, si è posta la domanda: quale sorte hanno le condotte di ricettazione di beni provenienti da contravvenzioni punite con cornici edittali inferiori a quelle sopra indicate? La risposta è stata nel senso della non punibilità[5].

 

3. Così, però si avrebbe un’evidente asimmetria normativa rispetto alla fattispecie contravvenzionale di incauto acquisto che abbraccia indistintamente e senza limitazione tutti i beni di provenienza sia delittuosa che contravvenzionale. La conseguenza non è soltanto di incoerenza del sistema, ma è anche e soprattutto di natura pratica[6], di sostanza nel trattamento dei fatti illeciti. Sarebbe conveniente per un indagato ex art. 712 c.p. sostenere – nelle ipotesi di ricettazione non punibile – di avere effettuato l’acquisto in piena consapevolezza della origine illecita della cosa perché così si sottrarrebbe alla sanzione sia dell’art. 712 c.p. che dell’art. 648 c.p.

La via d’uscita, proposta da taluno, potrebbe essere un intervento della Corte costituzionale che eliminasse la irragionevolezza introdotta nel sistema con il decreto legislativo n. 195/2021, e desse attuazione a talune norme della direttiva europea ignorate dal legislatore nazionale, norme che amplierebbero il numero dei reati di ricettazione includendovi anche altre contravvenzioni tra i reati presupposto[7].

Sennonché, una tale soluzione non risolverebbe in radice il problema perché, da un lato, non riguarderebbe tutte le contravvenzioni con limiti di pena inferiori a quelli di cui all’art. 648 co. 2, bensì soltanto le contravvenzioni che rientrano nelle categorie generali previste dall’art. 2 della direttrice; e, per altro verso, l’eliminazione dei limiti di pena tout court determinerebbe la introduzione nell’ordinamento di numerose norme incriminatrici in violazione delle competenze del Parlamento[8].

 

4. Ci si deve domandare, a questo punto, se il fatto di lieve entità costituisca una fattispecie autonoma o una semplice attenuante dell’ipotesi-base della ricettazione di cose provenienti da una contravvenzione. La differenza incide sulla possibilità di applicare il quarto comma dell’art. 648 c.p. a tutti i casi di ricettazione di cose provenienti da una contravvenzione, e quindi anche a quelli esclusi dal secondo comma. Infatti, se il fatto lieve costituisce una attenuante si dovrà prima verificare se ricorre l’ipotesi di cui al secondo comma, e poi se vi sono le condizioni per riconoscere il fatto lieve. Se, viceversa si tratta di una fattispecie autonoma, allora si potrà sostenere che vi rientrano tutti i casi più lievi esclusi dal secondo comma, presumendo la legge che al di sotto di una certa soglia il fatto sia da ritenersi di lieve entità.

Si è sostenuto che, per giurisprudenza pacifica[9], le fattispecie c.d. affievolite non costituiscono autonome fattispecie incriminatrici, ma circostanze attenuanti speciali, «con la conseguenza, pertanto, che neppure su tali previsioni circostanziate potrebbe fondarsi una interpretazione estensiva che giustificasse l’incriminazione di fatti diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dall’ipotesi base»[10]. Ci sono fondate ragioni, però, per affermare che la c.d. ricettazione affievolita costituisce una fattispecie autonoma che ricorre sempre quando la cosa provenga da una contravvenzione la cui pena è inferiore a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 648 c.p.

Si possono indicare questi argomenti:

1) Il legislatore nello stesso articolo ha differenziato i casi in cui si è in presenza di una aggravante o di una attenuante da quelli in cui si ha una fattispecie autonoma; nel primo caso usa l’espressione “la pena è aumentata”, nel secondo – com’è nel caso in esame - indica una pena autonoma;

2) Nell’art. 648, co. 4, c.p. si fa riferimento al denaro e alle cose “provenienti da contravvenzione, senza ulteriori specificazioni;

3) il fatto di lieve entità si configura in base a una serie di elementi che modificano il «fatto» nel suo complesso che conseguentemente viene rimodellato[11]. Nel caso di specie, poi, includerebbe tutti i casi di cose provenienti da contravvenzioni altrimenti non punibili, il che è compatibile solo con una serie di fattispecie autonoma.

È compito dell’interprete individuare le soluzioni che consentono di superare le anomalie del sistema, sempre che ciò non sia in contrasto con le evidenti intenzioni del legislatore[12]: nel caso in esame appare logico che i casi meno gravi di ricettazione di cose provenienti da contravvenzione rientrino nella ricettazione affievolita anche se – bisogna dirlo – il nuovo articolo 648 c.p. è sicuramente mal scritto.

 

 

 

 

[1] La direttiva, infatti, non ha preso in considerazione le “categorie” di fatti che comunque costituiscono una attività criminosa.

[2] A. Melchionda, Il nuovo assetto normativo per la “lotta al riciclaggio mediante il diritto penale”, in Arch. pen., 2022, n. 2, di cui esamina altresì i profili problematici.

[3] F. Giunta, L’Europa chiede un ulteriore giro di vite nel contrasto del riciclaggio, in disCrimen, 30.9.2021, precisa: «Limitando l’attenzione al codice penale, vengono in rilievo le contravvenzioni in materia di formazione di corpi armati (art. 653 c.p.), radunata sediziosa (art. 655 c.p.), esplodenti (art. 678 seg. c.p.), ingresso arbitrario nei luoghi di interesse militare (art. 682 c.p.), somministrazione di bevande alcoliche a minori o infermi (artt. 689 e 691 c.p.), vendita e porto di armi (art. 695 seg. c.p.), possesso ingiustificato di chiavi, grimaldelli e valori (art. 707 seg. c.p.), gioco d’azzardo (art. 718 c.p.), abbandono di animali (art. 727 c.p.), danneggiamento di patrimonio archeologico, storico e culturale (art. 733 seg. c.p.). Molti altri reati contravvenzionali, analogamente puniti, si rinvengono nello sconfinato territorio della legislazione extra codicem».

[4] Particolarmente chiara, in questo senso, Cass. II, 12 febbraio 1998, n. 3753, Conti, che ha messo in rilievo come l’art. 712 c.p. punisce non chi ha acquistato o ricevuto cose di cui “sospetti” la provenienza da reato, ma chi quelle cose ha ricevuto o acquistato quando «abbia motivo di sospettare» tale provenienza, Di qui la configurazione della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza in termini di reato colposo, perché «emerge chiaramente da tale formulazione della norma che il legislatore  con l’art. 712 c.p. ha inteso punire la mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res quando vi sia una oggettiva ragione di sospetto in ordine a detta provenienza. La questione è stata definitivamente risolta dalle Sez. Unite, 26 novembre 2009, n. 12435, Nocera, pubblicata in Riv. it. dir. proc. pen. 2011, 300, con nota di G. P. Demuro, e in Cass. pen. Mass. annot., con nota di M. Donini. V. anche F. Mantovani, Delitti contro il patrimonio, Cedam, 2021, 288: «L’incauto acquisto è reato colposo, consistendo la colpa sul mancato accertamento della provenienza illecita pur risultando, questa obiettivamente sospetta, e richiede, come tale, la non consapevolezza di tale provenienza».

 

[5] Così, G. Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e auto riciclaggio di cui al D.L.G. 8 novembre 2021, n. 195, in Sist. Pen., 2021, 49 ss.

[6] L’asimmetria è denunziata da diversi autori che, tuttavia, non hanno indicato la strada per ridare coerenza al sistema: G. Pestelli – V. Plantamura, Trattato di diritto penale diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Utet, T. III 2022, 7479: sarebbe paradossale ritenere “la non punibilità dell’acquisto doloso di cose provenienti da contravvenzione (per quelle escluse dall’art. 648 c.p.) e la punibilità al contrario ex art. 712 della meno grave ipotesi dell’acquisto colposo delle medesime cose”; A. Melchionda, Il nuovo assetto normativo, cit., 16, secondo cui “ben più opportuno sarebbe stato un intervento riformatore che, per mantenere intatti l’armonia normativa e l’equilibrio tra le due norme (artt. 648 e 712), avesse esteso la punibilità della ricettazione… a tutti, indistintamente, i reati presupposto di natura contravvenzionale, senza limitazione alcuna”.

[7] G. Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, cit. 53.

[8] Giustamente si è ricordato che la Corte ha precisato che «anche norme di diritto derivato dell’Unione Europea, perché sprovviste di ‘effetto diretto’ in materia penale, quali una direttiva o una decisione quadro, ben possono costituire parametri c.d. interposti di legittimità costituzionale ex artt. 11 e 117, comma 1, Cost. delle norme interne alternative di relativi obblighi europei e, come tali, esse sono idonee a determinare l’illegittimità costituzionale delle norme interne contrastanti con i predetti obblighi, senza che possa costituire un ostacolo al sindacato costituzionale l’ampliamento dell’area del penalmente rilevante rispetto alle scelte del legislatore». (Cfr. G. Pestelli, Riflessioni critiche, cit., 57). Tuttavia, nel caso di specie, le indicazioni della direttiva o sono piuttosto generiche (es.: 9) traffico illecito di beni rubati o altri beni, o non riguardano le contravvenzioni «sotto quota» (es.: traffico illecito di armi, e non la mera detenzione). Del resto, la direttiva contiene un elenco che fa riferimento a situazioni in cui la ricettazione è di particolare gravità: il che mal si adatta alle contravvenzioni. Infine, come si è detto, il vero problema attiene agli effetti perversi che deriverebbero al reato di incauto acquisto, effetti che non sono riparabili dalla Corte, a meno che voglia sostituirsi al legislatore. La Corte costituzionale è intervenuta più volte in relazione all’art. 25 Cost. per escludere che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti. Cfr. Corte Cost., sentenza 161/2004, sentenza 411/1995.

[9] Cass. sez. II, 01.10.2008, n. 38803; Cass. sez. II, 10.01.2013, n. 4032; Cass. Sez. II, 21.03.2017, n. 14767.

[10] G. Pestelli, Riflessioni critiche, cit., 54.

[11] F. Giunta, L’Europa chiede, cit., p. 3. «Quanto alla natura giuridica (della tenuità del fatto, NDR) deve ritenersi che si tratti di fattispecie delittuose autonome e non di circostanze attenuanti. A favore di questa conclusione depone il collegamento della più favorevole cornice di pena al ‘fatto’ nel suo complesso. D’altro canto, se si trattasse di circostanze attenuanti il loro bilanciamento con eventuali aggravanti concorrenti avrebbe l’effetto di vanificare la previsione, consentendo che la pena massima raggiunga egualmente gli apici edittali oltremodo elevati previsti dalle fattispecie generali».

[12] Cfr. G. Pino, Coerenza e verità nell’argomentazione giuridica. Alcune riflessioni, in Riv. Int. Fil. Dir., I, 1998, 94 ss., che sostiene: «la coerenza non come realtà ipso facto operante nell’ordinamento giuridico, ma come valore da perseguire in quanto prescritto dall’ordinamento stesso»; «L’operatore del diritto è chiamato a svolgere un ruolo tutt’altro che passivo nei confronti dei materiali normativi che utilizza nelle sue attività. Le norme dell’ordinamento giuridico che l’operatore può assumere prima facie come rilevanti per la soluzione di un problema giuridico possono essere, e di fatto lo sono spesso, incoerenti; ma in sede di argomentazione giuridica (cioè in sede di giustificazione di una decisione giuridica, di una scelta interpretativa) egli ha l’onere di legare in maniera coerente i materiali normativi di cui si serve, e questo per due motivi: innanzitutto perché la coerenza (come si è visto sopra) è un requisito generale di razionalità e di controllabilità intersoggettiva (o, se si vuole, un criterio di verità) delle argomentazioni stesse, in secondo luogo perché questa prescrizione può essere rintracciata nel diritto stesso. Nell’ordinamento giuridico italiano non credo sia eccessivamente problematico rinvenire la ricezione normativa del valore della coerenza; la Corte Costituzionale, in particolare, ha inteso il valore della coerenza come specificazione del principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione».