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26 Luglio 2023


Coerenza del sistema vs incoerenza del caso concreto: un passo verso la celebrazione del processo Regeni?

Trib. Roma, Sezione GIP, ord. 31 maggio 2023, giud. Ranazzi



1. Con l’ordinanza in epigrafe, il giudice per l’udienza preliminare ha rimesso alla Corte costituzionale gli atti del procedimento per i fatti relativi al rapimento, alle lesioni gravissime e alla morte di Giulio Regeni[1].

Quattro i coimputati variamente accusati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma dei reati sopra richiamati. La vicenda processuale nella quale la questione di legittimità costituzionale è emersa è particolarmente nota, ma pare utile segnalarne gli snodi essenziali, peraltro compiutamente ripercorsi dall’ordinanza che si commenta.

A fronte della richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura della Repubblica nel gennaio del 2021, si celebrava nel maggio dello stesso anno l’udienza preliminare, nella quale, verificata la regolarità delle notificazioni dell’atto di vocatio in ius, eseguite nei confronti degli imputati ai sensi dell’art. 159 c.p.p. (non essendo mai stato possibile individuare un luogo certo per la notificazione), il giudice disponeva procedersi in assenza, sulla base della previgente disciplina dell’art. 420-bis c.p.p.

Quattro i passaggi motivazionali che sostenevano, nell’ordinanza al tempo emessa, la sussistenza dei presupposti allora necessari per procedere in assenza degli imputati, anziché disporre la prevista sospensione. Si riteneva che i quattro accusati fossero consapevoli del procedimento a proprio carico e che si fossero volontariamente sottratti alla conoscenza dei successivi atti del processo, in considerazione di questi elementi: a) gli attuali indagati erano stati ripetutamente sentiti come persone informate dei fatti nel corso delle indagini svolte dalla magistratura egiziana, ivi apprendendo dell’esistenza di un procedimento penale pendente in Italia per gli stessi fatti; b) vi era stata grande copertura mediatica internazionale della conclusione delle indagini italiane, della richiesta di rinvio a giudizio e della conseguente fissazione della udienza preliminare; c) gli investigatori egiziani erano a conoscenza di ogni passaggio del procedimento penale italiano; d) gli imputati erano stati più volte invitati a eleggere domicilio in Italia, sia per via rogatoriale, sia per via diplomatica, ma senza esito.

Com’è noto, alla successiva udienza dibattimentale, la Corte d’assise di Roma annullava detta ordinanza, ritendo non sussistenti i presupposti della effettiva conoscenza del procedimento e del processo, nonché quelli della volontaria sottrazione degli imputati a tale conoscenza, essendo il comportamento non collaborativo esclusivamente ascrivibile alle autorità giudiziarie e diplomatiche[2].

L’annullamento comportava la regressione del procedimento e la fissazione di una nuova udienza preliminare, nel corso della quale il g.u.p., ritenute non soddisfatte le condizioni richieste dall’art. 420-bis c.p.p. per procedere in assenza, disponeva la notifica personale agli imputati del decreto di fissazione della nuova udienza preliminare, unita alla richiesta di rinvio a giudizio e al verbale di udienza, a mezzo della polizia giudiziaria, autorizzata all’impiego di tutti i canali informativi disponibili. Stante la perdurante irreperibilità degli imputati, alla successiva udienza veniva disposta la sospensione del procedimento, secondo la disciplina al tempo vigente. Avverso tale ordinanza – e tutti gli atti che ne rappresentano un presupposto – il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma proponeva ricorso per cassazione ex art. 606 lett. b, per abnormità dell’atto impugnato, che avrebbe determinato la stasi del processo[3]. Tuttavia, la Suprema Corte riteneva inammissibilità tale ricorso, con sentenza pronunciata nel mese di luglio 2022; nell’ottobre 2022, nelle more del deposito delle relative motivazioni, si teneva una nuova udienza, nella quale venivano sentiti un ufficiale dei Carabinieri e il capo Dipartimento degli Affari di Giustizia, impegnati, senza successo, nel rintraccio degli imputati e nei rapporti con le istituzioni egiziane. L’udienza veniva rinviata al febbraio 2023, in attesa del deposito delle motivazioni della sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione.

 

1.1. In particolare, come poi emerso dalle motivazioni[4], il ragionamento del Supremo Collegio – negando l’abnormità dell’ordinanza sospensiva – si soffermava su alcuni aspetti cruciali. Premesso l’excursus sulle recenti vicende normative in tema di assenza, fino alla interpretazione ‘evolutiva’ del previgente art. 420-bis c.p.p., promossa dalla pronuncia delle Sezioni Unite nel ricordato caso Ismail Darwish[5], la Corte sottolineava come proprio la richiamata pronuncia a composizione allargata avesse ribadito che, anche nello scenario della previgente disciplina, la volontaria sottrazione alla conoscenza del processo, o di atti del procedimento, dovesse intendersi come condotta positiva, avente un coefficiente psicologico che induce l’interessato a sfuggire alla formale consapevolezza del procedimento a proprio carico[6]. Scenario al quale non sarebbe riconducibile un quadro di mancata diligenza informativa dell’imputato circa i propri recapiti.[7] La Corte di cassazione riconosceva come gli organi del merito avessero correttamente applicato gli approdi ermeneutici faticosamente raggiunti in materia, escludendo che né gli atti di un procedimento straniero (l’audizione in qualità di persone informate sui fatti nel procedimento egiziano), né il clamore mediatico che ha circondato il procedimento italiano, e la relativa richiesta di rinvio a giudizio, possano ritenersi mezzi formali, idoneo veicolo di conoscenza del processo, costituendo, invece, mere presunzioni di una conoscenza generica, e non qualificata, da parte degli imputati delle accuse mosse a loro carico dalla Procura di Roma e delle udienze fissate.

Nelle more del deposito della motivazione della sentenza del luglio 2022, entrava in vigore la nuova disciplina della assenza, suggerendo un ulteriore rinvio. All’udienza dell’aprile 2023, il Procuratore della Repubblica chiedeva al giudice dell’udienza preliminare di sollevare questione di legittimità costituzionale[8], sotto numerosi profili, dell’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p., istanza sulla quale il giudice si riservava, fino alla fine di maggio. All’udienza del 31 maggio u.s. la riserva veniva sciolta – stante la perdurante irreperibilità degli imputati – nel senso indicato nell’ordinanza pubblicata in epigrafe.

 

2. Previa opportuna e dettagliata ricostruzione della complessa vicenda processuale, l’ordinanza in commento sinteticamente affronta il tema dell’evidente rilevanza della questione di legittimità promossa nei confronti dell’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p., così come modificati a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022. Osserva il rimettente che, date le affermazioni del Supremo Collegio nella ricordata sentenza Cass., Sez. I, 15 luglio 2022, n. 5675, depositata il 9 febbraio 2023[9], risultano esclusi i presupposti per procedere in assenza, anche – e ancor di più – nella vigenza della nuova disciplina, che ha rafforzato i presupposti dell’istituto prevedendo, quale condizione generale, l’effettiva conoscenza della pendenza del processo, ovvero dell’atto di citazione, non già per via di generici clamori giornalistici, ma attraverso le forme stabilite per la notificazione degli atti introduttivi, come del resto sempre precisato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[10]. Infatti, l’ordinanza in commento sottolinea come solo l’eventuale accoglimento della formulata questione di legittimità potrebbe deviare il corso del procedimento dalla pronuncia di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo, introdotta e regolata dal nuovo art. 420-quater c.p.p. Pertanto, la corretta interpretazione – o la corretta formulazione dell’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p. – rappresentano, senz’ombra di dubbio, la chiave di volta per la celebrazione di questo processo e, dunque, paiono del tutto condivisibili le osservazioni del rimettente sul punto.

Circa la non manifesta infondatezza, la motivazione dell’ordinanza si articola in più punti, quanti sono i profili di illegittimità della richiamata disposizione rispetto a diverse norme costituzionali. Premesso che, per ragioni di tempo e di spazio, non sarà qui possibile argomentare analiticamente in merito a ciascuno dei sette profili di legittimità costituzionale individuati dall’estensore, le singole questioni meritano di essere quantomeno segnalate individualmente.

 

2.1. Primo parametro di supposta contrarietà dell’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p. rispetto alla Carta costituzionale è individuato nell’art. 24 comma 1 Cost., congiunto all’art. 2 Cost., per via della asserita violazione del diritto delle persone offese e dei danneggiati dal reato ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, quale garanzia fondamentale dell’individuo (da qui il richiamo all’art. 2 Cost.). Ampi i riferimenti giurisprudenziali e normativi richiamati per sostenere tale argomento. Muovendo da alcune sentenze della Corte costituzionale (e, in particolare, dalla nota pronuncia 238/2014), il rimettente sottolinea la frustrazione del diritto dei prossimi congiunti della vittima a veder accertati i fatti e al risarcimento del danno derivante da reato. Proprio la delicata vicenda che ha visto contrapposte Italia e Germania, nel quadro dell’azione risarcitoria intentata da cittadini italiani che avevano subito danni in conseguenza dei crimini di guerra ascrivibili al Terzo Reich, assume rilievo nelle argomentazioni del rimettente, con alcuni stralci tratti proprio dalla sentenza della Corte costituzionale, oggetto, com’è noto, di amplissima discussione dottrinale[11]. Si richiama poi anche la più recente Corte cost. 182/2021, che sulla scia della criticata pronuncia alsaziana nel caso Pasquini c. San Marino[12], ribadisce l’importanza che le garanzie fondamentali a favore dell’imputato – come appunto la presunzione di innocenza – non limitino il diritto al risarcimento del danno di coloro che hanno subito gli effetti del reato. Profilo, quello risarcitorio che naturalmente viaggia sul filo del rasoio dei delicati equilibri tra azione in sede propria – astrattamente garantita in questo caso, a prescindere dall’applicazione dell’art. 420-bis, sospettato di illegittimità costituzionale – e facoltà di agire nel processo penale, che il rimettente riconduce, tuttavia, all’importante statuizione contenuta nella direttiva 2012/29/UE, ove si afferma, innanzitutto, il diritto partecipativo dell’ampia categoria di soggetti ivi indicati come vittime del reato (si può sottolineare, però, anche con riguardo alle decisioni di mancato esercizio dell’azione penale e, dunque, in assenza pur solo di un tentativo di instaurare il processo).

Da ultimo, l’argomentazione si sposta, implicitamente – e, apparentemente, ad adiuvandum – verso il profilo processuale (volet procédural) degli artt. 2 e 3 Cedu (che non vengono tuttavia richiamati come parametri nel giudizio di legittimità interposto, secondo il meccanismo dell’art. 117 Cost.), con riferimento all’ampia giurisprudenza della Corte europea sull’effettività delle indagini relative a fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali, come nel caso di specie, sottolineandosi l’importanza della ricostruzione e dell’accertamento dei fatti, non soltanto in capo alle vittime e ai loro congiunti, ma all’intera collettività. Il rimettente conclude che la mancata collaborazione dello Stato egiziano, certamente non vincolato ai principi della Convenzione europea, non solo costituisce illecito internazionale, per via della violazione dell’art. 6 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura (firmata e ratificata anche dall’Egitto), ma impedisce all’Italia di soddisfare gli standard di effettività processuale del diritto alla vita e del divieto di tortura, nel tempo declinati dalla Corte di Strasburgo, suggerendo una violazione ‘indotta’, riconducibile allo Stato italiano.

 

2.2. Il secondo parametro di ritenuta incompatibilità costituzionale dell’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p. si profila rispetto al combinato disposto degli artt. 24 comma 2 e 2 Cost. A parere di chi scrive, si tratta dell’argomentazione, tra le sette prospettate, che merita maggiore attenzione e, dunque, vi si ritornerà anche successivamente. Il rimettente, infatti, qui individua in maniera limpida una supposta lacuna dell’ordinamento, che chiede alla Corte costituzionale di colmare attraverso una pronuncia additiva. La lacuna sarebbe rappresentata da un limite intrinseco della nuova disciplina dell’assenza, introdotta dalla recente riforma, la quale, prevedendo come parametro necessario e principale per la celebrazione del processo in assenza la effettiva conoscenza della pendenza del processo, sconterebbe il vizio di essere stata concepita con riguardo soltanto a casi in cui la notificazione dell’atto di vocatio in ius sia da effettuarsi entro i confini dell’Unione europea o comunque in Paesi con i quali vigono accordi o prassi virtuose di cooperazione giudiziaria. Anzi, l’attuale configurazione della disciplina incentiverebbe i comportamenti ostruzionistici degli Stati che vogliano sottrarre i propri cittadini e funzionari alla giurisdizione italiana, atteggiamento che, al contrario, non avrebbe ragion d’essere se il codice di procedura penale prevedesse una specifica ipotesi in cui si potesse procedere in assenza dell’imputato, quando questi non sia stato portato a conoscenza della vocatio in ius a causa di una condotta non collaborativa dello Stato di residenza. Il rimettente pare altresì auspicare la previsione di un accesso senza filtri ammissivi, da parte del condannato inconsapevole, ad un efficace rimedio restitutorio (senza tuttavia invocare un intervento specifico del Giudice delle leggi sul punto). L’assenza, invece, di una tale previsione, determinerebbe, come detto, un vuoto, contrario al diritto di difesa degli imputati, mai raggiunti dalla vocatio in ius per via dell’ostruzionismo statale, i quali non verranno processati in Italia e non potranno ivi far valere il proprio diritto di difesa[13].

 

2.3. Inoltre, a parere del rimettente, l’art. 420-bis commi 2 e 3 sarebbe altresì contrario al principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, che discende dagli artt. 24 e 3 Cost., poiché l’assenza di una previsione del tenore di quella già descritta, determinerebbe la violazione del «principio di auto-responsabilità» (sic), facendo gravare l’ostruzionismo dello Stato straniero sulle vittime del reato e, in questo caso, sui danneggiati, i quali vedono frustrato il proprio diritto a costituirsi parti civili. Il vincolo rappresentato dall’inerzia dell’autorità straniera renderebbe irragionevolmente discriminatoria la condizione del danneggiato, la cui possibilità di costituirsi parte civile dipenderebbe dal fatto di un soggetto terzo, estraneo al processo. Nuovamente, l’argomento sposta l’attenzione verso il profilo della possibilità di azione in sede propria, inducendo però ad escludere la sussistenza di una lacuna nell’ordinamento, che vada colmata con una pronuncia additiva nei termini indicati dal rimettente. Ed ancora. Il dettato normativo censurato violerebbe il disposto degli artt. 3 e 2 Cost. L’argomentazione sul punto pare articolarsi in due distinti profili di irragionevole disparità di trattamento di situazioni uguali. In primo luogo, infatti, il rimettente lamenta che la scelta arbitraria delle autorità egiziane, di non collaborare con le richieste di assistenza giudiziaria italiane, di fatto creerebbe una situazione di immunità dei cittadini egiziani rispetto alla giurisdizione italiana, con duplice proiezione discriminatoria: in termini paradigmatici, l’esempio egiziano mostra che i cittadini (ma, par utile precisare, anche i residenti) stranieri verrebbero a trovarsi – di fronte alla possibilità di essere processati in assenza – in situazione diversa e privilegiata rispetto ai cittadini italiani, proprio in ragione del possibile ‘scudo immunizzante’ che deriva dalla mancata cooperazione giudiziaria straniera. Non solo. Osserva il rimettente che tale discrimine tra cittadini italiani e stranieri sarebbe amplificato dal fatto che l’Italia, in analoga ma inversa situazione, rispetto a quella oggetto del processo in corso, offrirebbe certamente massima assistenza giudiziaria ai fini di notificare a cittadini (e, si aggiunge, appunto, a residenti) italiani l’atto di vocatio in ius straniero… Secondo profilo di irragionevole sperequazione sussisterebbe, par di capire, tra la sfera di consapevolezza degli imputati e quella del g.u.p., che si traduce in un gravoso onere motivazionale di quest’ultimo circa la effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. Osserva il rimettente che «mentre agli imputati è sufficiente sapere che vi è un procedimento a loro carico in Italia per l’omicidio di Giulio Regeni per sottrarsi al processo, al GUP si chiede invece di provare la consapevolezza e volontà di sottrarsi non al procedimento, ma al processo»[14]. Al di là della incerta simmetria tra le posizioni di imputato e di g.u.p., di difficile riconducibilità a un rapporto di ir/ragionevole diversità di trattamento, il punto dell’ordinanza dedicato a questa argomentazione si chiude con l’osservazione che la mancata cooperazione giudiziaria da parte dello Stato estero ove risiede l’imputato potrebbe essere sicuramente considerata ipotesi riconducibile all’art. 420-ter c.p.p., ovvero una situazione di forza maggiore che ha impedito all’imputato, giudicato in assenza, di partecipare al processo, aprendo la strada ai diversi rimedi possibili contro l’eventuale decisione in assenza. Come meglio si riprenderà in seguito, tale annotazione porta utilmente l’attenzione sul profilo dei rimedi che potrebbero essere eventualmente attivati dagli imputati ove fossero effettivamente giudicati in assenza, tuttavia non in termini decisivi. È doveroso, infatti, sottolineare, sulla scorta del dettato convenzionale, ma anche della direttiva 2016/343, che la previsione di rimedi idonei ed effettivi non sostituisce il rispetto della ‘condizione-presupposto’ del procedere, ovvero la verifica, allo stato degli atti, della effettiva conoscenza del processo e della volontaria scelta astensionistica da parte dell’imputato nel momento precedente la sua celebrazione: la possibilità di accesso a un rimedio, pur efficace, non vale a legittimare il dato insuperabile che per procedere nei confronti di un imputato occorre verificare che abbia avuto effettiva conoscenza del processo a suo carico e che abbia volontariamente rinunciato a parteciparvi, consapevole delle conseguenze[15].

 

2.4. Ancora tre profili di incostituzionalità vizierebbero l’art. 420-bis commi 2 e 3 c.p.p. Il primo attiene ai rapporti con l’art. 112 Cost., in combinato disposto con l’art. 3 Cost. L’assenza di una specifica eccezione alla regola appena richiamata, che prenda in considerazione la mancata cooperazione dello Stato straniero, determinerebbe un «sacrificio sproporzionato» del principio di obbligatorietà dell’azione penale e del canone di uguaglianza davanti alla legge. La sostanziale immunità, già descritta, che verrebbe a prodursi in assenza di cooperazione giudiziaria determinerebbe, in primo luogo, l’impossibilità per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale e, inoltre, rappresenterebbe un ulteriore profilo di disparità di trattamento tra cittadini/residenti all’estero e imputati italiani, o che si trovino in Italia. Al contrario, l’introduzione dell’invocata norma additiva escluderebbe, nell’autorità straniera, l’«interesse ad ostacolare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero italiano». Al di là del rilievo formale che, nella situazione in esame certo non manca l’esercizio dell’azione penale, l’argomento riporta al classico tema – da tempo risolto – tra esercizio dell’azione penale e condizioni che ostacolano il procedere, senza individuare specificità che suggeriscano un atteggiamento diverso da quello che tradizionalmente fa escludere, in simili situazioni, una violazione del vincolo costituzionale[16].

Si ritiene altresì violato l’art. 117 Cost., in riferimento alla già citata Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. A prescindere dalle condivisibili osservazioni circa l’assenza di una specifica imputazione di tortura nei capi di imputazione formulati in questo processo e del necessario approccio sostanziale ai fatti oggetto del processo – certamente tali da determinare l’applicabilità della Convenzione in questione – il rimettente ritiene violato l’art. 117 Cost. poiché l’attuale formulazione, asseritamente lacunosa, dell’art. 420-bis c.p.p., impedirebbe all’Italia di rispettare gli obblighi stabiliti dal trattato internazionale. Ora, muovendo senza dubbio, come si vedrà qui di seguito, dalla palese violazione della Convenzione ONU da parte dell’Egitto, pare forzato il passo che porta a leggere nel comportamento dell’autorità italiana altrettanta violazione degli obblighi internazionali, a fronte dell’eventuale stasi del processo per mancata conoscenza da parte degli imputati. Da ultimo, l’ordinanza in commento dedica un’articolata argomentazione alla ritenuta violazione degli artt. 111 e 3 Cost. L’assenza di una norma che permetta di aggirare l’arbitraria inerzia dello Stato straniero impedisce l’esercizio della giurisdizione secondo i canoni dell’art. 111 Cost. L’invocata pronuncia additiva sanerebbe anche la già richiamata discriminazione che si produrrebbe tra imputati cittadini/residenti di Stati che cooperano con l’autorità giudiziaria italiana e imputati che siano cittadini/residenti in Stati che ignorano le richieste di assistenza. Giustamente, in uno dei passaggi si sottolinea come il difetto di cooperazione da parte delle autorità giudiziarie egiziane sia meramente arbitrario e non dettato, come in astratto potrebbe essere verosimile, da una effettiva impossibilità di reperimento dei destinatari della notifica. Ciò sarà ripreso a breve, per sottolineare la peculiarità di questa specifica situazione, che origina non da un generalizzato e persistente difetto di cooperazione giudiziaria – che dovrebbe fondare, secondo il rimettente, una necessaria, generale deroga al principio della effettiva conoscenza della pendenza del processo – bensì della eccezionalità della funzione apicale svolta dagli imputati nei vertici degli apparati di sicurezza e intelligence dello Stato egiziano. Inoltre, la denunciata lacuna normativa parrebbe determinare un ulteriore profilo di violazione dell’art. 111 Cost., laddove consente il prevalere dell’arbitraria volontà di uno Stato estero, terzo rispetto al processo, nell’impedire l’instaurazione di un processo equo. Chiosa l’estensore che non vi è processo più ingiusto di quello che non venga celebrato a causa della contraria volontà di un governo, soprattutto – rimarca l’estensore – in un quadro in cui «non vi è partito politico o associazione umanitaria che non si sia espressa nel senso che questo processo ‘deve’ essere celebrato». Tralasciando queste ultime osservazioni, di tenore non tecnico, la questione richiede, insieme alle prime due, un’attenta ricostruzione.

 

3. Senza addentrarsi, per difetto di competenza, in una riflessione sulle tecniche di formulazione delle singole questioni di legittimità sollevate, pare opportuno sintetizzare il quadro di insieme (ma senza potersi addentrare analiticamente nel commento della recente riforma normativa)[17], per ipotizzare delle possibili linee interpretative.

Allo scopo si può muovere da alcuni punti fermi.

I rapporti tra Italia ed Egitto, con relazione ai fatti descritti nei capi di imputazione, sono certamente ascrivibili, come in più sedi osservato, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, del 1984, entrata in vigore nel 1987, firmata e ratificata da entrambi gli Stati. La tardiva introduzione della fattispecie di tortura nell’ordinamento italiano non incide sulla piena applicabilità – a prescindere dal nomen iuris – del trattato ai tragici fatti occorsi prima dell’entrata in vigore dell’art. 613-bis c.p. (infatti non contestato in imputazione). Peraltro, nella concatenazione degli artt. 5-9 della Convenzione si rinviene una fitta rete di obblighi di collaborazione che avrebbero dovuto essere rispettati in questa vicenda e che vanno ben oltre lo sforzo, minimo, di assistenza giudiziaria ai fini della notificazione degli atti di un procedimento straniero e, in particolare, della vocatio in iudicium (pur ricompreso nella formula di chiusura dell’art. 9), stabilendo pregnanti vincoli estradizionali. In tale ottica, è superfluo sottolineare l’illecito internazionale realizzato dall’Egitto, attraverso il ripetuto diniego di assistenza giudiziaria e diplomatica.

Altro punto certo è che nel procedimento in esame non si pone alcuna questione di validità della notifica: i quattro imputati, regolarmente dichiarati irreperibili, secondo la disciplina tutt’oggi vigente[18], risultano destinatari di valide notifiche attraverso i difensori d’ufficio. Tale osservazione, piuttosto banale, tornerà utile nell’affrontare il tema generale sullo sfondo dell’ordinanza in commento. Si è molto enfatizzata, infatti, la questione delle notificazioni per risolvere il problema qui in discussione, al fine di immaginare meccanismi che liberino lo Stato italiano dal necessario obbligo informativo nei confronti dell’imputato che si trovi all’estero[19]. Questo aspetto costituisce il punto di convergenza di due piani che, diversamente da quanto accade nell’ordinanza in commento, devono essere mantenuti distinti: il ‘costituzionalmente necessario’ e il ‘politicamente possibile’.

Muovendo proprio da quest’ultimo aspetto, è bene ricordare che i criteri con i quali l’autorità giudiziaria si libera, soddisfacendolo, dell’onere di informazione dell’imputato circa la vocatio in ius sono autonomamente stabiliti dalla legislazione nazionale di ogni Stato. Ogni legislatore è libero – entro i confini stabiliti dalla propria Costituzione e da eventuali vincoli sovrannazionali – di regolare le forme della notificazione, ipoteticamente stabilendo, ad esempio, che quando la notifica debba essere svolta all’estero, non a mezzo posta, essa debba considerarsi valida in presenza di una semplice richiesta di assistenza allo Stato straniero, sul quale venga ‘scaricato’ l’onere di portare l’atto a conoscenza del destinatario. Posto che l’autorità emittente nessun potere può esercitare oltre i propri confini, ciò parrebbe in astratto del tutto possibile, alla basilare condizione che uno specifico accordo internazionale sia stipulato con lo Stato straniero interessato (nel nostro caso, l’obbligo internazionale è già sussistente sulla base della ricordata Convenzione delle Nazioni Unite). Rimarrebbe – e rimane - tuttavia impregiudicata la sfera della effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, posto che lo Stato straniero potrebbe – come appunto nel caso di specie – ignorare l’obbligo assunto, omettendo di impegnarsi nella notificazione dell’atto. Alla discrezionalità politica del legislatore sta la scelta tra due distinte alternative. Si può scegliere di rinunciare al basilare principio della effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato, sacrificando un presupposto irrinunciabile del processo equo all’atteggiamento non collaborativo di uno Stato straniero, dimenticando il risalente ma attualissimo insegnamento che viene dalla sentenza Colozza, circa l’incompatibilità convenzionale di situazioni in cui gli Stati si liberino dai propri obblighi informativi riversando sull’imputato l’onere di dimostrare, a fini restitutori, l’assenza della propria negligenza. Oppure, si deve tenere ferma la condizione dell’accertamento effettivo della conoscenza, accettando il rischio di incorrere in possibili ostacoli alla celebrazione del processo[20].

Proprio a questa prospettiva risponde il nuovo dettato dell’art. 169 comma 1 c.p.p., ove è stata prevista la possibilità di effettuare le notificazioni all’estero anche presso l’abituale luogo di lavoro per agevolare l’effettiva conoscenza attraverso un meccanismo articolato[21]. L’atto viene notificato a mezzo posta all’indirizzo noto, di residenza o di lavoro, unitamente all’invito ad eleggere domicilio o l’indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata o equivalente. Decorsi trenta giorni dalla ricezione, in assenza di effettiva elezione di domicilio o dichiarazione di domicilio digitale certificato, le notificazioni verranno effettuate al difensore, reimmettendo la situazione nel flusso della valutazione del giudice dell’udienza preliminare, in merito alla effettiva conoscenza della pendenza del processo.

Su questo scenario si innesta la richiesta del rimettente, sul distinto piano del ‘costituzionalmente necessario’, che chiede alla Corte costituzionale di accertare, invece, che l’ordinamento esige una previsione normativa che istituisca una eccezione alla valutazione di effettiva conoscenza della pendenza del processo, tutte le volte in cui il difetto di consapevolezza dipenda dalla mancata collaborazione dello Stato straniero.

Duplice il passaggio immaginato nell’ordinanza. In primo luogo, l’accertamento di una lacuna e, in seconda battuta, il suo superamento attraverso una sentenza additiva che innesti nell’art. 420-bis comma 3 una nuova eccezione. I principi costituzionali invocati determinerebbero, secondo il g.u.p., la necessità che l’ordinamento preveda, in tutti i casi di mancata cooperazione dell’autorità straniera, una eccezione alla regola -prevista dalla legge 134/2021 per adeguare, finalmente, l’ordinamento interno al quadro europeo – della effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. La introduzione di una simile eccezione, come si osservava sopra, è indubbiamente ipotesi percorribile, teoricamente, sul piano della politica criminale, realizzata da ciascun legislatore ordinario: la misura in cui sia opportuno deviare da una regola generale, come quella posta dal nuovo art. 420-bis c.p.p., può essere valutata dal legislatore, in un quadro di bilanciamento di interessi. Stabilire la regola della necessaria effettiva conoscenza della pendenza del processo ed inserire poi eccezioni in presenza delle quali procedere nonostante il difetto di detta conoscenza è una valutazione che riguarda il rischio di esporsi a nuove censure da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea, in relazione a possibili procedimenti di infrazione rispetto alla trasposizione della direttiva 2016/343. Il legislatore ordinario è dunque, magari non formalmente libero, ma certamente nella possibilità di espandere il novero delle eccezioni, accettando il rischio di violazione del quadro normativo europeo. Diverso è, invece, affermare, che il sistema costituzionale italiano esige che si devii dallo standard basilare della effettiva conoscenza della pendenza del processo – che risponde, come noto, ad una precondizione delle caratteristiche del processo giusto – in tutti i casi in cui la mancata conoscenza dipenda dall’atteggiamento di uno Stato straniero, per ciò permettendo che, in ogni ipotesi di diniego di assistenza giudiziaria, il cittadino o il residente nello Stato straniero sia giudicato in assenza in Italia. Certo, l’ordinanza sembra suggerire, in tali casi, un accesso del tutto incondizionato dell’eventuale condannato in assenza ai rimedi restitutori, regolati da norme tuttavia non attinte dall’ordinanza di rimessione[22].

Peraltro, attraverso le argomentazioni formulate nella prima (e, per certi versi, nella terza) questione, il rimettente apre uno scenario ancor più ampio. Infatti, sottolineando in numerose occasioni la posizione espressa dalla Corte costituzionale, circa la necessità che le garanzie dell’imputato non ridondino a danno del danneggiato per l’azione in giudizio, ai fini della tutela dei propri interessi risarcitori, il ragionamento ipotizzato dal rimettente finirebbe per implicare conseguenze molto più drastiche di quelle dal medesimo ipotizzate, inserendo nelle coordinate del discorso anche i diritti partecipativi delle vittime. Infatti, seguendo il filo di tale ragionamento, si dovrebbe concludere per la necessaria incostituzionalità di tutto il meccanismo dell’art. 420-quater c.p.p.: riconoscere la prevalenza dell’interesse del danneggiato all’esercizio dell’azione civile in sede penale – e della vittima alla partecipazione all’accertamento dei fatti processuali – rispetto alla garanzia della effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato, travolgerebbe sempre la soluzione del non liquet, non solo nei casi in cui tale ignoranza dipendesse dall’agire arbitrario di un soggetto estraneo al processo. Infatti, l’ipotizzata lacuna deriverebbe con riferimento agli artt. 24 comma 1, e 2 Cost., dalla necessità di celebrare il processo per consentire al danneggiato di esercitare l’azione risarcitoria nel processo penale. Come già segnalato in precedenza, il potere di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi risarcitori rimane impregiudicata in sede propria anche quando, in base ai parametri del nuovo art. 420-bis c.p.p., il processo non possa proseguire per mancanza della effettiva conoscenza di esso da parte dell’imputato. Riconosciuto l’indiscusso valore storico che la ricostruzione processuale penale offre alla collettività, e al di là delle osservazioni già formulate rispetto alla tenuta dell’art. 420-quater c.p.p., non si può non riconoscere come la simmetria ipotizzata dal rimettente finirebbe per rendere sempre prevalente l’interesse del danneggiato a portare l’azione civile in sede penale (e della vittima ad ottenere una ricostruzione storica), rispetto ad ogni pronuncia proscioglitiva processuale che non si concluda con un accertamento dei fatti.

Non si intravede, quindi, né sotto il primo, né sotto il secondo profilo, un difetto dell’ordinamento sul piano della doverosità costituzionale, che richieda di essere colmato con un intervento additivo. È difficile ritenere che il Giudice delle Leggi possa rilevare una lacuna[23] – nel senso, appunto, del costituzionalmente necessario – tanto nella prospettiva della prima, quanto della seconda questione elaborata dal rimettente (ovvero il rispetto degli artt. 24, comma 2, e 2 Cost.), in uno scenario di mancata previsione di una eccezione alla regola della effettiva conoscenza della pendenza del processo[24], in assenza di cooperazione giudiziaria. Tale attività rientra, del resto, nella sfera esclusiva e, talvolta, arbitraria, dei singoli Stati, spesso disposti, come nel caso di specie, a violare i propri obblighi internazionali.

La basilarità della garanzia del diritto dell’imputato alla partecipazione al processo, originariamente derivata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo dall’art. 6 § 1 e 3 Cedu[25], quale presupposto implicito dell’intera equità processuale, si pone qui in contrapposizione con un elemento di mera arbitrarietà nell’atteggiamento di un soggetto estraneo al processo, che il rimettente suggerisce di far assurgere a ipotesi generale e necessaria di eccezione al sistema processuale penale italiano, in cui il processo si instaura e celebra solo nei confronti di: a) coloro che ne abbiano avuto effettiva conoscenza, b) del latitante, o  c) di chi si sia volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti dello stesso[26]. Una impostazione, questa, che risponde ai parametri del ‘convenzionalmente necessario’, in cui si realizzano i canoni della conoscenza effettiva e della volontarietà dell’eventuale scelta astensionistica dell’imputato, da decenni considerati lo ‘standard minimo’ per la compatibilità convenzionale del processo in absentia. Non si vede, invece, come sulla base dei principi costituzionali richiamati, si possa ritenere necessaria la previsione di legittima declaratoria di assenza e, dunque, la celebrazione del processo, quando l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza della vocatio in ius, a causa di un comportamento negligente dello Stato di cittadinanza o residenza rispetto ad un obbligo di cooperazione giudiziaria[27].

Ciò non significa che la questione individuata dal rimettente non costituisca un serio e fondato problema, meritevole, come già sopra sottolineato, di essere eventualmente valutato sotto il profilo della distinta sfera della discrezionalità politica, in cui il legislatore ordinario ha il potere di effettuare scelte potenzialmente al limite del quadro normativo europeo, al di fuori dallo scenario del  ‘costituzionalmente doveroso’.  

Sulla base di tali osservazioni, in ragione delle quali pare difficile identificare una lacuna della denunciata disciplina rispetto al quadro costituzionale, e risulta, dunque, superfluo dilungarsi sulle possibili modalità per colmare il vuoto eventualmente accertato. Al di là della crescente evanescenza del canone delle ‘rime obbligate’[28], il ‘potere additivo’ della Corte pare qui inibito, appunto, dall’assenza del necessario presupposto.

Insomma, la delicatissima e serissima questione che il g.u.p. di Roma è stato chiamato a dirimere suggerisce di guardare, ancora una volta, all’interno della singola vicenda processuale per rinvenire soluzioni interpretative adeguate al caso concreto: posto il dubbio che il Giudice delle Leggi possa riconoscere che il quadro costituzionale renda necessaria la previsione di una nuova, generale eccezione alla regola della effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, da applicarsi in tutti i casi di difetto di cooperazione giudiziaria da parte di un’autorità straniera, le opzioni ermeneutiche attorno all’art. 420-bis comma 3 c.p.p. forse non sono completamente esaurite.

 

3.  Come anche qui sopra ricordato, i passaggi processuali che hanno ingenerato la situazione in cui il giudice dell’udienza preliminare ha sollevato la commentata questione di legittimità trovano il loro fulcro nella sentenza della Corte di cassazione che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso avverso l’ordinanza di annullamento della declaratoria di sospensione del procedimento (art. 420-quater c.p.p. previgente). In quella pronuncia, i Giudici della legittimità ripercorrono, in maniera chiara e precisa, tutti i capisaldi della recente evoluzione della disciplina dell’assenza in Italia, con particolare attenzione al profilo della effettiva conoscenza della pendenza del processo, in contrapposizione con gli indici presuntivi che erano stati introdotti dalla l. 67/2014. Condivisibilmente, nella decisione si sottolinea come gli odierni imputati non possano che considerarsi, ai fini della normativa vigente, non consapevoli della effettiva instaurazione del processo a loro carico, poiché – come più volte sottolineato – l’obbligo informativo dello Stato che procede non può ritenersi assolto da surrogati vaghi e generici, da una informazione non formale e non qualificata: altrimenti, ha spesso ripetuto la Corte europea, il diritto alla presenza in giudizio finirebbe per essere teorico e illusorio[29].  Quindi, le precedenti audizioni come persone informate dei fatti nel procedimento egiziano, le campagne di stampa e di informazione anche internazionali che hanno coperto la vicenda, rappresentano, come sottolineato dalla Corte di cassazione, profili inadeguati a soddisfare lo standard normativo stabilito sul piano europeo ed ora anche interno. Invero, l’impossibilità di far pervenire agli interessati la formale notificazione dell’atto di vocatio in ius è dipesa, come ripetutamente ricordato, dalla violazione da parte dell’Egitto dei propri obblighi internazionali, avendo omesso ogni tentativo di portare i propri cittadini, altissimi funzionari dello Stato egiziano, a conoscenza degli atti dell’autorità italiana. In tale scenario, applicando l’ordinario standard interpretativo, i giudici di legittimità hanno escluso di poter riscontrare una ipotesi di volontaria sottrazione alla conoscenza degli atti del processo da parte degli interessati, ovvero i destinatari della notifica.

Ebbene, la peculiarità della situazione suggerisce di tornare proprio su questo punto, poiché gli odierni imputati non sono ordinari cittadini o residenti nello Stato egiziano[30]. Come ricordato, essi sono funzionari del medesimo e, negando l’assistenza giudiziaria, lo Stato egiziano non è risultato meramente inerte rispetto ad un proprio obbligo internazionale, ma ha agito a tutela della propria organizzazione, di cui i suddetti funzionari sono articolazione apicale. Ponendo mente alla teoria della immedesimazione organica, tema tradizionale – e forse non particolarmente in voga di recente – del diritto pubblico e amministrativo, ci si può rendere conto come la caratteristica essenziale del caso di specie graviti attorno alla qualificazione degli imputati, funzionari dei più elevati organi dello Stato che, si badi bene, proprio nell’interesse dello Stato avrebbero posto in essere i fatti loro contestati nei capi di imputazione. Per tutti gli imputati, infatti, l’accusa è quella di aver agito nel contesto di una indagine attivata dalla denuncia presentata agli uffici della National Security, da un rappresentante del sindacato degli ambulanti, e con abuso della qualità di pubblici ufficiali.

È noto, infatti, che tradizionalmente – superata l’iniziale impostazione che riconosceva personalità giuridica soltanto allo Stato ed ampliata la sfera delle soggettività giuridiche – è stata elaborata la teoria secondo cui «attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si considera posta in essere dalla persona giuridica»[31]. L’organo (o funzionario)[32] non è separato dall’ente e non agisce in nome e per conto di quest’ultimo[33], ma al contrario, il suo agire è attività dell’ente stesso, che è anche centro di imputazione dei relativi effetti: organo ed ente non sono due soggetti distinti, poiché si presentano all’esterno come una struttura unitaria. Può essere utile osservare che tale meccanismo di immedesimazione e, dunque, di imputazione, si verifica all’interno dell’ambito delle competenze rivestite da ciascun organo e, come già rilevato, nel caso di specie, gli imputati stavano operando, al momento dei fatti ascritti, proprio nel contesto di una indagine di sicurezza nazionale, ovvero all’interno della loro sfera di competenza. Anche sul piano del diritto internazionale, la richiamata teoria è stata spesso utilizzata, sotto la formulazione della c.d. ‘attribuzione di condotte’[34], ampiamente richiamata da certa dottrina con riguardo ad un’altra delicatissima vicenda di diritto internazionale, che ha coinvolto negli scorsi anni l’Italia.

Insomma, se è vero che la sottrazione volontaria cui fa riferimento l’art. 420-bis c.p.p. è quella dell’imputato, ovvero della persona fisica nei cui confronti il processo si deve svolgere, è altrettanto vero che, in questo caso, lo Stato ha assunto una condotta omissiva che mira a realizzare un interesse comune del funzionario e dell’ente che egli impersona, ovvero la sottrazione all’accertamento processuale di fatti di estrema gravità, ascrivibili sì ad atti individuali, ma presuntamente realizzati nell’esercizio delle funzioni istituzionali. In questo modo, anzinché prevedere, come auspicato dal rimettente, una nuova generale eccezione alla regola della effettiva conoscenza del processo – che opererebbe in tutti i casi in cui sia mancata, per varie ragioni, anche neutre (quale l’effettiva impossibilità di reperire il destinatario della notificazione), la cooperazione dello Stato e, dunque, sia comprovata un’autentica ignoranza dell’atto di vocatio in ius – si può interpretare l’esistente eccezione (art. 420-bis comma 3 c.p.p.) nel senso di ritenere che, in tali particolari situazioni di immedesimazione organica, l’atteggiamento dello Stato possa ascriversi anche al suo funzionario. È evidente, infatti, che tale ‘proprietà transitiva’ non produce affatto un trasferimento di responsabilità dallo Stato al funzionario imputato: superfluo sottolineare che tale esegesi non interferisce con i profili di responsabilità penale degli imputati, che dovranno essere accertati nel processo, ma nemmeno produce un profilo di ‘responsabilità processuale’. Infatti, ove intendessero poi intervenire nel giudizio, gli imputati potrebbero agevolmente dimostrare che, data l’assenza di notificazione del decreto di fissazione dell’udienza preliminare – risultante agli atti – è stato impossibile, per ragioni di tempo e di luogo, costituirsi tempestivamente o far pervenire notizia della causa di forza maggiore  (ipotizzata dalla stessa ordinanza in commento), che ha impedito la partecipazione, ovvero l’atteggiamento dello Stato egiziano, al fine di ottenere la regressione del processo e la restitutio nelle facoltà perente. Allo stesso modo, il funzionario che scoprisse di essere stato giudicato in assenza, sempre potrà accedere al rimedio previsto dall’art. 175 comma 2 c.p.p., oppure alla rescissione del giudicato, dimostrando, in quest’ultimo caso, che l’unitarietà di intenti Stato-funzionario, alla base della condotta negligente delle autorità egiziane, è stata invero spezzata, ad esempio, da specifiche richieste di informazioni da parte degli interessati alla propria autorità competente. Tali elementi dimostrerebbero che l’assenza è stata dichiarata «in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 420-bis c.p.p.»  e legittimerebbero l’accesso al rimedio integralmente restitutorio.

 

 4. Il caso di specie, insomma, riporta all’attenzione il problema della ineffettività di soluzioni processuali – e, in particolare, quelle legate alla sfera della conoscenza del processo[35]che dipendano dall’adempimento di obblighi di cooperazione giudiziaria internazionale[36]. È percezione generale, infatti, che al di là – come giustamente osservato dall’ordinanza qui commentata – della sfera infra-europea e, in particolare, dell’area di libertà, sicurezza e giustizia costituita dall’Unione europea, gli scenari della cooperazione giudiziaria penale continuano ad appartenere ad una dimensione nella quale gli obblighi normativi si infrangono di fronte a comportamenti arbitrari degli Stati, che spesso possono essere contrastati soltanto su piani estranei al processo, per lo più commerciali o diplomatici. In tale contesto, il quadro delle garanzie codicistiche – attraverso il cristallizzato principio che consente di procedere soltanto nei confronti di chi conosca la vocatio in ius e scelga consapevolmente di non partecipare al processo – ispirato alla massima adesione alla cornice dei diritti fondamentali, pare potersi modellare soltanto attraverso due forme di intervento, che non sono quelle della sentenza additiva di parziale incostituzionalità.

La prima forma è prospettica, ovvero è quella di una futura iniziativa novellistica del legislatore. L’ordinanza in commento offre tutte le coordinate per mettere chiaramente a fuoco un problema concreto ed effettivo: l’assenza di cooperazione giudiziaria continua a frustrare, come sempre è accaduto, non solo le finalità general- e special-preventive del processo penale (quando sia negata la consegna del condannato), ma lo stesso svolgimento concreto del processo. Sta al legislatore valutare se tale circostanza abbia un impatto, una frequenza e una dimensione tale da indurre ad aprire un’altra breccia nel contrafforte garantistico del principio della effettiva conoscenza della pendenza del processo, scegliendo di procedere sempre nei confronti di imputati stranieri ignari delle accuse e del processo a proprio carico, solo perché lo Stato di residenza non ha voluto o (forse, peggio ancora), non ha saputo cercarli e trovarli.

La seconda forma è cercare in via interpretativa soluzioni che consentano di non intralciare lo svolgimento di un processo equo, di questo processo equo. E tale equità origina, come sempre ci ricorda la Corte europea dei diritti dell’uomo, da quella indissolubile fusione del § 1 e del § 3 dell’art. 6 Cedu, dai quali nasce un diritto partecipativo attivo dell’imputato al proprio processo[37]: è solo in questo scenario che si innestano, in maniera ragionevole e armonica, anche i diritti partecipativi delle vittime e gli interessi dei danneggiati alla costituzione di parte civile, fortemente richiamati dall’ordinanza di remissione. Il valore ricostruttivo del processo, che assolve alla funzione storico-sociale evocata più volte dal rimettente, si perde e si annulla se il processo si svolge in uno scenario in cui non v’è certezza che l’imputato possa esercitare il diritto di essere presente e di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti.

Proprio la suggerita via interpretativa può rappresentare, invece, una reazione immediata alla manifestazione più odiosa del sopra richiamato, annoso, problema della mancanza di cooperazione giudiziaria, quella in cui lo Stato straniero violi i propri obblighi internazionali non per insipienza, ma per pervicace volontà di sottrarre se stesso a gravi responsabilità diplomatiche, sottraendo al contempo i propri organi al processo straniero. Invero, l’intricata situazione prodottasi nel caso di specie – nel quale è verosimile che gli imputati siano a conoscenza quantomeno del procedimento, ma possibilmente anche del processo[38] - deriva infatti da un rapporto di  immedesimazione degli interessi dello Stato e degli imputati ed evitare l’accertamento processuale dei gravissimi fatti contestati, occorsi, secondo l’accusa, nell’esercizio di quelle competenze che fondano l’immedesimazione tra ente e funzionario, in un’azione organica di intralcio allo svolgimento del processo italiano.

La ipotizzata via interpretativa e la presenza di idonei rimedi eventualmente attivabili dagli imputati che dovessero essere condannati all’esito del processo, si affiancano, alla solidità del sistema che individua la certezza della conoscenza della pendenza del processo come condizione per procedere in assenza, senza indebolirlo[39], ma consentendo a questo drammatico e complesso procedimento penale di proseguire il suo corso.

 

 

 

[1] In particolare, i capi di imputazione contestano a tutti gli imputati, in concorso, l’art. 605 commi 1 e 2 n. 2 cp.p., aggravato ex art. 61 n. 1 e 4 e, al solo Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, gli artt. 582, 583 n. 2 c.p., in relazione all’art. 576 n. 2 c.p., aggravati ex art. 61 n. 1, 4 e 9 c.p., nonché gli artt. 575, 576 n. 2 c.p., aggravati ex art. 61 n. 1, 2, 4 e 9 c.p.

[2] Al tempo, i commenti di N. Rombi, Stop al processo Regeni: manca la prova della conoscenza del processo da parte degli imputati egiziani, la Corte d'Assise restituisce gli atti al Gup, in Il Penalista, 26.10.2021 e F. Filice, I “finti inconsapevoli” alla prova del caso Regeni: una questione centrale per il contemperamento delle garanzie dell’imputato e dei diritti delle vittime, in Questione Giustizia, 15.12.2021, il quale leggeva l’ordinanza della Corte d’assise in piena continuità con gli orientamenti del Supremo Collegio, nel caso Ismail Darwish (Cass., Sez. Un., 28.11.2019, dep. 17.8.2020), n. 23948, in questa Rivista, 7 settembre 2020), a conferma della crisi del sistema di presunzioni instaurato dalla legge 67/2014.

[3] Nel testo del ricorso il pubblico ministero invocava, in subordine, la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, motivando la rilevanza e la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità degli artt. 420-bis comma 2 e 420-quater c.p.p. (allora vigenti), per contrarietà agli artt. 3, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 Cedu e alla direttiva 2012/29/UE.

[4] Per un primo commento, P. Grillo, Ancora sul caso Regeni: non è abnorme l’ordinanza di sospensione del processo, in Dritto & Giustizia, 13.2.2023

[5] V. nota 2.

[6] In questo distinguendosi dalla situazione comune di irreperibilità: D. Tripiccione, Processo in assenza, in A. Bassi, C. Parodi (a cura di), La riforma del sistema penale. Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 (c.d. Riforma Cartabia), in attuazione della legge delega 27 settembre 2021, n. 134, Milano 2022, p. 155.

[7] La Corte europea ha poi ripetutamente sottolineato come non possano gli ordinamenti far carico all’imputato di dimostrare di non essersi volontariamente sottratto alla conoscenza del processo: già Corte eur.. 8.2.1985, Colozza c. Italia, § 30, affermava infatti la compatibilità convenzionale di una situazione processuale nazionale in cui « les ressources offertes par le droit interne se révèlent effectives et qu’il n’incombe pas à un tel “accusé” de prouver qu’il n’entendait pas se dérober à la justice, ni que son absence s’expliquait par un cas de force majeure ».

[8] Si veda P. Grillo, Omicidio Regeni, la Procura torna alla carica: sollevata questione di legittimità costituzionale del processo in absentia, in Dititto & Giustizia, 6.4.2023

[9] Cass., Sez. I, 15 luglio 2022, n. 5675, dep. 9 febbraio 2023, Pres. Mongini, rel. Tardio, in www.giurisprudenzapenale.com. Si precisa che nell’ordinanza qui in commento è indicata numerazione errata della sentenza.

[10] Corte eur., 25.3.1999, Pélissier et Sassi c. France , § 52.

[11] La pronuncia è stata accolta con clamore sia sul piano del diritto internazionale (v. C. Meloni, La Corte costituzionale annulla gli effetti della decisione della CIG in materia di immunità giurisdizionale dello Stato estero, in Dir. pen. cont., 24 ottobre 2014; P. De Sena, The judgment of the Italian Constitutional Court on State immunity in cases of serious violations if human rights or humanitarian law: a tentative analysis under international law, in Questions of International Law, 2014), sia su quello interno: v. ex multis, A. Ruggeri, La Corte aziona l’arma dei ‘controlimiti e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria, in Consulta Online, 2014; E. Lupo, I controlimiti per la prima volta rivolti contro una sentenza della Corte Internazionale di giustizia, in Questione Giustizia, 2014; M. Luciani, Contro limiti ed eterogenesi dei fini, in Questione Giustizia 2014. Si segnala in argomento una recentissima sentenza della Corte costituzionale, n. 159/2023, pur vertente su profili diversi da quelli rilevanti per il caso che ci occupa.

[12] Corte eur., 2.5.2019, Pasquini c. San Marino.

[13] Così, Trib. Roma, ord. 31.5.2023, p. 24.

[14] Trib. Roma, ord. 31.5.2023, p. 26.

[15] È il § 82 della notissima decisione Corte eur., Gr. Ch., 1°.3.2006, Sejdovic c. Italia a scolpire chiaramente questa progressione, in cui l’accessibilità e l’efficacia del rimedio entrano in gioco solo se «il n'est pas établi qu'il a renoncé à son droit de comparaître et de se défendre».

[16] Ben nota la discussione circa la compatibilità costituzionale delle previsioni normative che facciano discendere la improcedibilità dell’azione penale dalla scelta di un’autorità pubblica: sul punto, in ottica generale, L. Giuliani, Indagini preliminari, in M. Bargis, Compendio di procedura penale, Milano, 2023, p. 477. Tuttavia è evidente come la situazione qui considerata si ponga in termini nettamente differenti, poiché l’opzione di fondo che sta alla base del nuovo art. 420-quater c.p.p. non è, evidentemente, la rimessione della discrezionalità circa l’esercizio dell’azione penale all’arbitraria volontà di un’autorità pubblica – in questo caso, di uno Stato estero disposto a violare i propri obblighi internazionali – ma la volontà di impedire la celebrazione del processo nei confronti di una persona non consapevole della pendenza del medesimo. Profilo questo che ben si inserisce nel quadro di bilanciamento di interessi di varia natura – qui peraltro, strettamente processuali – in cui si inscrive, appunto l’orientamento ermeneutico della Corte costituzionale, che ha delibato le tradizionali condizioni di procedibilità.

[17] Sulla quale, tra gli altri, A. Conti, L’imputato assente alla luce della riforma Cartabia. Note a prima lettura del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in Archivio Penale, 1/2023; L. Kalb, La nuova disciplina del processo in assenza dell’imputato: la ricerca di una soluzione equilibrata per il superamento di problemi ancora irrisolti, in La riforma Cartabia, a cura di G. Spangher, Pisa 2022, p. 337 ss.; A. Mangiaracina, Alla ricerca di un nuovo statuto per l’imputato assente, in questa Rivista, 1.12.2022.; G. Mantovani, Riforma Cartabia”: per chi è il processo in absentia?, in www.lalegislazionepenale.eu, 30.5.2023; M. Miraglia, I rimedi post iudicatum nel processo in assenza dopo la “riforma cartabia”: novità e residue criticità, ivi, 8.6.2023; D. Tripiccione, Il processo, cit., p. 152 ss. Sulla legge di delega, tra gli altri, F. Centorame, Verso un nuovo processo penale in assenza: chiaroscuri della legge delega n. 134 del 2021, in disCrimen, 2.2.2022; F.R. Dinacci, Le prospettive di riforma delle notifiche all’imputato e processo in absentia: inconsapevolezze legislative, in Archivio Penale, 2021.

[18] Si veda tuttavia la modifica apportata dal d.lgs. 150/2022 all’art. 160 c.p.p., delimitando l’arco temporale di operatività della dichiarazione di irreperibilità: v. A. Mangiaracina, Alla ricerca, cit., p. 8.

[19] V. le interessanti osservazioni di G. Mantovani, “Riforma Cartabia”, cit., p. 24 s.

[20] Si riferisce ad un vero e proprio cortocircuito del sistema, G. Colaiacovo, Il caso Regeni e il processo in assenza: un cortocircuito delle garanzie? (testo della relazione al seminario “Il caso Regeni”, Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia, 19 aprile 2023, in corso di pubblicazione).

[21] Sulle modifiche alla disciplina delle notifiche, si veda la scheda n. 10, in GiustiziaInsieme, 30.11.2022.

[22] V. A. Mangiaracina, Imputato “assente” e indici di conoscenza del processo: una lettura virtuosa della Suprema Corte, in Processo Penale e Giustizia, 2021, p. 376.

[23] G. Spangher, ​Processo Regeni: un passaggio stretto tra regole ed eccezione, in GiusitiziaInsieme, 22.6.2023

[24] In questo senso v. anche G. Mantovani, “Riforma Cartabia”, cit., p. 20 ss.

[25] Sempre efficacissimi gli ormai risalenti passaggi di Corte eur. 8.2.1985, Colozza c. Italia, § 27: « Du reste, les alinéas c), d) et e) du paragraphe 3 (art. 6-3-c, art. 6-3-d, art. 6-3-e) reconnaissent à “tout accusé” le droit à “se défendre lui-même”, “interroger ou faire interroger les témoins” et “se faire assister gratuitement d’un interprète, s’il ne comprend pas ou ne parle pas la langue employée à l’audience”,ce qui ne se conçoit guère sans sa présence ».

[26] Senza poter scendere qui nel dettaglio, si sottolinea una differenza significativa tra la ‘traccia’ stabilita dalla legge delega e, prima ancora dalla proposta della Commissione Lattanzi e il testo del decreto delegato, nel quale la figura del latitante, nei precedenti passaggi considerato semplicemente esempio paradigmatico di soggetto che non conosce la pendenza del processo (per via del meccanismo di notifica al difensore), è divenuto emblema della categoria di coloro che si sottraggono alla conoscenza del processo (D. Tripiccione, Processo in assenza, cit., p. 155), essendo peraltro stata introdotta quantomeno la necessità di una nuova ricerca in occasione della notifica degli atti introduttivi (art. 165 comma 1 bis c.p.p.). E’ stata tuttavia attentamente notata una informale distinzione tra la situazione di chi sia reso latitante prima di aver compiuto condotte rilevanti ai fini dell’assenza e il ‘latitante semplice’: G. Colaiacovo, Le modifiche in materia di latitanza, in La riforma Cartabia, a cura di G. Spangher, cit., p. 369.

[27] Sull’eterogeneità tra le eccezioni considerate dall’art. 420-bis comma 3 c.p.p. e quella invocata dal rimettente, v. ancora G. Mantovani, “Riforma Cartabia”, cit., p. 19.

[28] A partire da Corte Cost. 249/2019, resa nel noto ‘caso Cappato’, la Corte ha mostrato di voler superare il refrain delle rime obbligate: quando «i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali», la Corte «può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento» (§ 4 delle considerazioni in diritto). Sul punto, specificamente, C. Tripodina, Diritto al fine vita e Costituzione, in BioLaw Journal, Special issue 2/2019, p. 415.

[29] Tra le altre, Corte eur, 12.10. 1992, T. c. Italia, § 28.

[30] V. G. Mantovani, “Riforma Cartabia”, cit., p. 18 ss.

[31] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2021, p. 128.

[32] P. Virga, Diritto amministrativo, Milano 2001, p. 31.

[33] L’immedesimazione organica stabilisce un modello di rapporto più intenso rispetto alla rappresentanza: M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna 2022, p. 309. Ciò risolve tutti i profili problematici, rappresentati, per esempio, dall’errore, dagli stati mentali, dalla buona fede, poiché, come osserva M.S. Giannini, (voce Organi. Teoria generale, in Enc. dir., Milano, 1981, p. 45), «l’imputazione all’ente è comunque totale». In verità, sulla scorta di tale osservazione, l’operazione ermeneutica qui proposta potrebbe estendersi fino a ricoprire anche il comma 2 dell’art. 420-bis c.p.p., ovvero ad estendere l’immedesimazione non soltanto al profilo dell’atteggiamento proditorio volto a realizzare la sottrazione alla conoscenza degli atti del processo, ma, addirittura, al profilo della conoscenza stessa della pendenza del processo: se l’ente/organo sa, anche l’organo/ente sa. Tuttavia, data l’estrema difficoltà di certificare fenomeni puramente cognitivi, come la conoscenza, pare più efficace collegare la teoria della immedesimazione al profilo del comma 3, ovvero quello della volontaria sottrazione alla conoscenza, data la totale ascrivibilità di specifiche condotte – attive o omissive – indistintamente all’organo e all’ente.

[34] Il tema è tornato al centro dell’attenzione, in particolare, con la nota vicenda del cargo Enrica Lexie e della crisi internazionale e diplomatica conseguitane tra Italia e India. In tema v. N. Ronzitti, La difesa contro i pirati e l’imbarco di personale militare armato sui mercantili: il caso della “Enrica Lexie” e la controversia Italia-India, in Rivista di diritto internazionale, 2013, p. 1073 ss.

[35] Specificamente, sul punto, E.A.A. Dei Cas, L’assenza dell’imputato. Modelli partecipativi e garanzie difensive, Torino 2021, p. 65 ss.

[36] Nella prospettiva internazionalistica, v. E. Sciso, Il caso Regeni: la difficile sintesi tra diritti inviolabili dell’uomo, protezione diplomatica e interessi dello Stato, in Rivista di Diritto Internazionale 2021, p. 197 ss. Con specifico riferimento a profili, qui non trattati, di intersezione tra la vicenda processuale e il segreto di Stato sui rapporti tra governi, v. G.M. Ruotolo, Ancora sul caso Regeni: il “diritto alla segretezza” dei negoziati internazionali e la competenza dei giudici interni a decidere situazioni di rilevanza internazionalistica alla luce di alcuni recenti sviluppi del processo penale in via di (non) svolgimento in Italia, in www.sidiblog.org, 4.5.2023.

[37] Come del resto ha riconosciuto anche la Corte di giustizia dell’Unione europea in una sorprendente recente decisione, originata da una questione pregiudiziale degli artt. 8 e 9 della dir. 2016/343/UE: vedi Corte di Giustizia UE C-348/21, 8.12.2022. La Corte di Lussemburgo ha, infatti, derivato dal diritto stabilito dall’art. 8 della direttiva, il conseguente diritto dell’imputato al confronto con l’accusatore.

[38] V. tuttavia supra nota 31.

[39] Mette in guardia rispetto a questo rischio, G. Colaiacovo, Il caso Regeni, cit.